Se non avesse vinto all’unanimità l’ultimo Festival del Film di Roma, c’è da scommettere che non sarebbe mai arrivato nelle sale italiane. E sarebbe stato un peccato, perché “Kill Me Please” è una delle pellicole più forti, irriverenti e spiazzanti degli ultimi anni.
Un progetto radicale e visceralmente sperimentale già nella sua realizzazione: girato in tre sole settimane, con una troupe di cinque uomini in tutto (dal regista all’attrezzista) e attori “volontari” senza cachet.
In un paesaggio da libro delle fiabe, tra gli innevati boschi del Belgio, si staglia la sagoma di un’imponente villa: è la clinica del dottor Kruger. Il medico coltiva il sogno di un mondo in cui il suicidio è diritto di tutti, atto dignitoso e consapevole, e offre ai suoi ospiti, su lauto compenso, i servizi necessari per una dolce morte. La villa richiama però l’attenzione dei personaggi più eccentrici: tra i molti, un rabbioso artista, un ambiguo erede, una cantante che ha perso la voce, un giovane che sogna il Vietnam, una ragazza malata terminale e un uomo che ha perso tutto a poker. C’è anche una graziosa guardia di finanza che indaga su Kruger e sulla fine degli ingenti patrimoni dei suoi ospiti.
Due eventi stravolgono la routine di questo luogo surreale. Un incendio alle cucine costringe i personaggi ad uscire dal guscio silenzioso delle proprie stanze e interagire tra loro: c’è chi racconta la propria storia, chi si corteggia, chi decide di voler vivere. Inoltre i malcelati malumori degli abitanti del vicino villaggio, ostili alla “fabbrica della morte”, esplodono in un’incredibilmente violenta caccia all’uomo: pazienti e infermieri vengono abbattuti a colpi di fucile, uno dopo l’altro. Barricati nella villa, i pochi superstiti, disorientati e sconvolti, continuano la barbarica carneficina finendosi l’un l’altro in modi macabri e non privi di fantasia. Sopravvive solo la cantante che, novella Norma Desmond, esce sul patio e canta ad un pubblico immaginario la Marsigliese: il suo ultimo desiderio.
Al suo secondo lungometraggio, il francese Olias Barco deve aver studiato bene la lezione del Ferreri de “La grande abbuffata” e la comicità scorrettissima dei Monty Python per cucire un film assolutamente anomalo che sa essere allo stesso tempo terribile e divertente, frastornante e imprevedibile. La morale, se mai avesse valore ricavarne una, vuole forse insegnarci che è impossibile rinchiudere entro logiche di ordine umano un evento enorme come la morte.
Ma ciò che più conta è la carica iconoclasta sprigionata dal film, capace di mettere a dura prova lo spettatore. Braco fotografa tutto in un bianco e nero (nerissimo) ruvido e impietoso, che non concede sconti nemmeno nei momenti più duri e disturbanti. Repulsione e riso continuano ad alternarsi perché il film si sposta con folle rigore dalla commedia al dramma, allo splatter, fino a spingere lo spettatore, disorientato, a ridere persino degli assassinii più macabri.
Non un capolavoro, ma un esperimento anarchico, vivo, punk, grottesco. In una parola, coraggioso.
Stefano Guerini Rocco