Primo pianeta da esplorare è il pianeta di King Kong. A fronte di uno dei pubblici numericamente maggiori del mondo il cinema negli Stati Uniti è un’industria vera e propria, dove ci sono grossi guadagni in seguito a grandissimi investimenti. Lo spettacolo, lo show, è il must da seguire, e il 3D risponde pienamente a questo bisogno di intrattenimento puro, che quando è ricercato con qualità, diventa un qualcosa di massimamente rispettabile. Anche invidiabile. Ed entrando nello stage di King Kong in 3D, in un attimo ci si rende conto che gli investimenti danno i loro frutti. Il nostro trenino si ferma dentro un tunnel di schermi: sopra, a destra e a sinistra. Mettiamo gli occhiali e appena si accendono gli schermi appare subito evidente che questo 3D è qualcosa a cui non siamo abituati. Il tutto dura 5\10 minuti al massimo, ma sono minuti intenssissimi. Quello a cui assistiamo è l’attacco al nostro trenino da parte di un gruppo di dinosauri, e, per nostra fortuna, King Kong ci salva, sbaragliando tutti i dinosauri cattivoni e prendendoci al volo quando cadiamo in un dirupo. Ovviamente nulla di tutto questo è successo. Il nostro trenino era fermo immobile. Io sono uno spettatore abituato, conosco un po’ come si fa un film, e riesco a scovare la finzione dietro le immagini che compongono un film. Bene, nonostante ciò, a un certo punto mi sono trovato ad aggrapparmi alla sbarra del treno, un po’ impaurito. Tra la qualità delle immagini, gli effetti speciali che accompagnano la visione (spruzzi d’acqua per simulare gli sputi dei dinosauri, scossoni al treno per simulare colpi e aria in faccia per simulare la velocità di caduta) e la voglia di lasciarsi trascinare/ingannare, tutto questo insieme mi ha dato per un attimo la sensazione di essere davvero dentro qualcosa di vero. Ma una volta che King Kong ci ha salvati, torniamo alla luce del giorno e facendo appena qualche metro ci ritroviamo a New York. Una New York completamente ricostruita, che, a bisogno, cambiando oggetti e pubblicità si può trasformare in Londra. La minuzia con cui è tutto ricostruito, unito a un’abile fotografia in fase di riprese può portare ad imbrogliare tutti e io mi ritrovo a chiedermi quanto di quello che ho visto nei film è stato ripreso in loco, o è stato ricostruito. Forse non voglio saperlo per davvero, perchè rischio di rovinarmi tante illusioni che mi sono creato. Ma vedere i set ricostruiti può anche aiutarti a capire la genialità della progettazione, come quando ci siamo trovati sul set de Lo squalo dove un pesce meccanico e qualche attore recitano un piccola scena, ma, pochi istanti dopo, passando dall’altro lato del set, tutto è uguale e tutto cambia: il set de Lo squalo, si è trasformato in Cabot Cove, il paese della signora in giallo. Da un lato è una cosa, dall’altro è un’altra cosa. Due set in uno. Ma lo studio tour non finisce qui, rimanendo in carrozza passiamo per La guerra dei mondi, passiamo sotto tutte le case del Wisteria Lane di Desperate Housewife, ci troviamo in Jurassic Park, vediamo le auto di Magnum PI, la delorian di Ritorno al futuro, o ancora Fast and Furios o Animal House. Passiamo di fronte al motel di Psycho e dietro si vede la vecchia casa della madre, usata anche come residenza di Jessica Fletcher. Alla fine del tour sono frastornato. Esci affascinato e anche un po’ sconvolto ed è già sera, il tempo è volato via e sta salendo il freddo della notte. Pensando alla California, le prime cose che ti saltano in mente sono il sole, il mare e l’estate tutto l’anno. Tutto vero. Ma fa anche freddo. Il sole picchia parecchio, ma quando non c’è…
Dopo gli Universal Studio, è il momento di calarci (gli studios sono in collina) nella città. Troviamo da dormire in un posto incredibile: un ostello della gioventù stile europeo, con camerate e bagni in comune. Rustico e spartano, ma con l’ingresso proprio su Hollywood Boulevard, la Walk of Fame, la strada delle stelline, all’altezza del Kodak Theatre, quello degli Oscar. Dalla finestra della nostra stanza, in comune con un gruppo di spagnoli, vediamo l’ingresso del teatro, dove alla notte degli Oscar c’è il red carpet. Alla prossima cerimonia, credo proprio che mi guarderò anche il red carpet, non ascolterò tutte le domande su vestiti e stilisti, ma cercherò le finestre del nostro ostello e mi immaginerò lì anche io. Passata la notte, è il momento di scoprire la città. E la prima cosa che scopri è che la città non esiste. È troppo grande. È un puzzle composto da tanti quartieri, grossi come città, indipendenti uno dall’altro. Le diverse zone della città volutamente non comunicano, non c’è un servizio di mezzi pubblici e raramente si vedono dei marciapiedi. Se ti vuoi spostare, ti sposti in macchina, e quando da Hollywood ti sposti a Beverly Hills, o santa Monica, devi prendere l’autostrada. Sotto lo stesso nome di Los Angeles trovi alcune delle zone più povere degli USA, e alcune delle zone più ricche. Ma tralasciando i problemi urbanistici, armati di pazienza e macchina, andiamo a caccia dei luoghi del cinema, in un lungo tour di strade. Cominciamo con le case di Brandon, Kelly e tutti gli altri di Beverly Hills, 90210 e proseguiamo risalendo le Hollywood Hills lungo Mulholland Drive, ricordando l’omonimo film di Lynch, che in tanti abbiamo visto e che nessuno ha capito al primo colpo. Da lì, assitiamo al panorama delle ville degli attori e dei vip. Una più grande dell’altra, tutte con giardini verdissimi nonostante in California non piova mai, costruite per tutelare la privacy. Un posto da sogno e proprio accanto all’ormai simbolo indiscusso della città: la scritta “Hollywood” a caratteri cubitali che domina la città. Una volta era Hollywoodland, ma la parte finale è crollata e nessuno l’ha tirata su. Scendiamo dalla collina e passando da Melrose Place, ci dirigiamo verso Santa Monica, famosa per chiunque sia nato prima del 1987 a causa di Baywatch. La spiaggia è proprio quella. I bagnini sono proprio quelli. Le auto e le casette dei guardiaspiaggia sono proprio quelle. Lì è nato un fenomeno mondiale, che ricorderò sempre con un certo affetto e che i bagnini stessi collaborano a mantenere, facendosi immortalare in tutte le pose possibili e raccontandoci che tre quarti del loro tempo lo passano proprio a farsi fotografare. Ma Santa Monica e la vicina Venice sono anche teatro di due produzioni che ne rivelano gli aspetti differenti. C’è la Venice di American Histroy X, film capolavoro, che racconta dei poveri, della violenza delle strade e del degrado del quartiere, ma c’è anche la serie tv Californication, che inseguendo le scorribande di Hank Moody da un letto all’altro, ci mostra il quartiere dopo la rivalutazione. Zona di artisti e laboratori d’arte, Venice vive oggi di un’onda di entusiasmo e si è trasformata in una delle zone più trendy/chic della città, ma che non rifiuta e scaccia gli artisti e i senza tetto che popolano e colorano le strade.
Los Angeles, con le sue bellezze e bruttezze è alle nostre spalle, mentre tramonta il sole ci apprestiamo a risalire la costa lungo la vecchia strada statale 1. Tutta curve e saliscendi corre lungo la costa californiana regalandoci panorami mozzafiato. Obiettivo finale del viaggio: San Francisco. Ma prima di arrivare in città, c’è tempo per un breve pellegrinaggio a Cupertino alla mothership, la sede centrale della Apple. La mia Mecca. Mi inchino e mi prostro, ma non mi fanno entrare. Mi devo accontentare dello shop, l’unico al mondo che vende merchandising e abbigliamento Apple. Salutato Steve Jobs, San Francisco si presenta proprio come te la aspetti: bellissima, europea, multiculturale, tutta in salite e discese ripidissime, e freddissima. Quante volte abbiamo visto inseguimenti in auto con le macchine che finita una salita si ritrovano a volare in discesa atterrando con un gran rumore di ferraglia e scintille? Dal vivo, non mi è capitato, ma le strade di San Francisco sono davvero ripide e si vedono qua e là macchine che arrancano in salita e macchine parcheggiate con le ruote girate verso le case, nel caso che il freno a mano non tenesse. San Fancisco è stupenda e diversa dal resto, la sua architettura è unica negli USA e io avevo già imparato a conoscerla con il bellissimo Mrs. Doubtfire, dove un Robin Williams travestito da donna, sale e scende le strade della città cercando di far funzionare la sua vita. Ma i due film, completamente diversi tra loro, che più di tutti mi hanno fatto conoscere la città sono The Rock e Milk. Perchè San Fracisco è anche la città di Alcatraz, e per un fan del noir e del crimine, la prigione più famosa del mondo, diventata un dei tre simboli della città (con il Golden Gate e le curve di Lombard Street che tante volte, in GTA, ho sceso con un unico salto in auto), suscita un’attrazione profonda. Ma troppi turisti creano lunghe file di attesa e io non ho 23 giorni da aspettare. Devo rinunciare, con grande rammarico, a calpestare la terra dell’isola. La osservo da lontano e intanto ripenso alle avventure di Sean Connery e Nicolas Cage e va bene così. Purtroppo non si può avere tutto. Lasciate l’azione e le esplosioni di The Rock, andiamo alla scoperta di Castro, quartiere gay e uno tra i più belli di tutta la città: persone riversate nelle strade, negozi ad ogni vetrina, bancarelle ad ogni angolo e il meraviglioso Castro Theatre. Tutto quello che ho visto in Milk, lo ritrovo lì, insieme al monumento alla piazza dedicati proprio ad Harvey Milk, a modo suo un eroe, che si è sacrificato fino alla morte per rendere San Francisco (e il mondo) un luogo migliore. Sono contendo di essere stato dove Milk e i gay di tutta Castro hanno cominciato negli anni Settanta una battaglia per i diritti civili che non si è più fermata. A loro va tutto il mio rispetto e tutta la mia stima.
Prima di lasciare la California e gli Stati Uniti, c’è ancora tempo per un pellegrinaggio un po’ particolare, a circa 300 chilometri a nord di San Francisco c’è un piccolissimo paese chiamato Mendocino. Ai più non dice nulla, ma ai fan della Signora in giallo dice tutto. Mendocino è Cabot Cove, quella vera, quella non ricostruita negli studios di LA. In realtà qui ci hanno girato poco, ma la presenza di Jessica Fletcher è forte cme non mai e noi abbiamo dormito proprio dentro casa sua. Accanto alla sua stanza e alla sua macchina da scrivere. Andando e tornando da Mendocino, abbiamo avuto anche l’occasione di farci un giro nella Sonoma e Napa Valley, a degustare vino, proprio come fanno i protagonisti della bellissima commedia Sideways, e tra un bicchiere e l’altro, quasi alla fine del nostro viaggio, abbiamo ancora tempo per una toccata e fuga a Berkley. Città dove ha sede l’omonima università, Berkley è come te la aspetti: bella e colorata. Popolata di hippie ma non solo, è una di quelle cittadine dove l’urabanizzazione, sviluppata intorno all’università, ha seguito uno schema logico ed è uno di quei posti in cui potresti decidere di vivere, magari costruendo qualcosa di simile alla famiglia di Parenthood, una nuova serie tv. Ambientata proprio a Berkley, in Parenthood seguiamo le vicende di una famiglia molto numerosa e molto vivace, ma vera e adorabile, tanto che sotto sotto la invidiamo un po’. Tra incomprensioni, liti e situazioni di grande imbarazzo, ha momenti in cui tutto gira dritto e capisci quanto i membri di questa famiglia siano legati uno all’altro, tanto che a noi spettatori scappa anche un risolino.
Il tempo putroppo è finito. Gli aerei, l’Europa e gli impegni ci aspettano. Rimane giusto il tempo per andare alla sede della HBO a New York, approfitando del tempo dello scalo, citofonare e offrirsi per un lavoro. Non mi hanno voluto. Maledetta economia. Non rimane che tornare all’aeroporto, imbarcarsi e tornare indietro, consapevoli di aver appena concluso qualcosa di unico, qualcosa che per tutti gli europei rappresenta un po’ un sogno, e che per tutti gli amanti del cinema rappresenta un’ossessione. Partire per un viaggio è bello anche perchè è molto bello il rientro a casa. Io sono partito sperando di trovare qualcosa che ho trovato ed è scattato qualcosa dentro che per la prima volta mi ha portato a non godermi come altre volte il rientro a casa, e a fantasticare su come e dove potrei andare a vivere…
Per rileggere tutto dall’inizio: la prima parte