Lo squartatore di New York

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 Lo slasher secondo Lucio Fulci . Lo squartatore di New York (1982) arriva in una stagione in cui il thrilling italiano è erroneamente considerato al termine della sua parabola. Forse per questo non è stato considerato con il dovuto rilievo sia nel filone che nell’opera di Fulci, all’epoca già molto noto per le sue incursioni nell’horror di cui ci  occuperemo in seguito. Forse la mancanze di giusto rilievo un po’ è anche responsabilità del titolo non particolarmente originale e che fa il verso a uno slasher USA, Lo squartatore di San Francisco(The ToolBox Murders), dell’anno precedente. Forse, invece, sono le necessità di produzione che impongono  di realizzare un prodotto in otto settimane con l’obiettivo di vendere sul mercato estero. Il film, a dispetto di tutto, andò piuttosto bene anche da noi e circolò ampiamente all’estero. Per di più si presenta oggi come un ottimo thrilling, certamente diverso dagli altri di Fulci e sicuramente gravato di influenze americane (tra l’altro di Vestito per uccidere-Dressed to Kill, 1981, di De Palma) ma con una sua precisa personalità. La New York che Fulci ritrae appare, però, meno dettagliata, forse più frettolosamente inquadrata e studiata della San Francisco di Una sull’altra. Probabilmente il modello di riferimento erano i telefilm americani e viene rappresentata con il loro stile (le lunghe panoramiche sullo skyline della città, i passaggi nei quartieri del vizio), rinunciando a una maggiore originalità. Questa è mantenuta tutta nella trama. Certo, è uno slasher che mescola momenti argentiani a suggestioni del filone americano, ma la vicenda del folle squartatore di New York è, a tutti gli effetti, singolare. C’è, fondamentalmente, un’atmosfera malsana, malata, che attiene alla sfera sessuale con una ruvidezza che De Palma neanche si sognava. Nessuno dei personaggi, dal poliziotto John Headley (caratterista inglese preso da  un film di 007) che se la fa con le prostitute, al professore Paolo Malco (cripto-gay che nasconde le riviste porno nel quotidiano), nessuno sembra condurre una vita sessuale normale. Non certo  la ricca borghese  Alessandra Delli Colli che batte i rioni ispanici in cerca di avventure “forti”  registrate per il marito impotente e sicuramente non Renato Rossini (erculeo “Howard Ross” di tanti poliziotteschi e western italiani) che interpreta un maniaco sessuale falsamente sospettato. E neanche i due protagonisti, Andrea Occhipinti (qui con un risibile pseudonimo inglese, Andrew Painter) e Almata Keller vivono una relazione priva di ombre.

L’intreccio, ancora una volta, si spiega con la rivelazione della follia dell’omicida, padre di una bimba divorata a poco a poco da un male che non le lascia speranza. Uccidendo giovani donne il padre vendica la bimba che resterà sola con il pupazzo di un paperino di gomma in un letto d’ospedale. Uno dei finali più strazianti del genere nella sua secca crudeltà. E il paperino insieme alla voce querula con cui l’assassino sfida la Polizia sono riferimenti al thrilling classico italiano e, se vogliamo, al già citato Non si sevizia un paperino dello stesso Fulci. La mano del regista è riconoscibile nelle sequenze oniriche, nello splatter ormai diventato un marchio di fabbrica, nel carattere tutto italiano che pervade la rappresentazione della sessualità. All’epoca   Segnalazioni cinematografiche cattoliche arringava contro il film definendolo da un punto di vista “pastorale”: deleterio, inaccettabile e negativo. Invece resta un grande thriller che, realizzato con qualche mezzo in più, magari inserito in un set italiano adeguato, avrebbe potuto anche segnare un passo importante del nostro cinema. Ma Lucio Fulci, il “terrorista dei generi”, era così. Rapido come una pugnalata, incisivo, sempre proiettato verso il prossimo impegno. Malgrado critica e scarsi capitali a disposizione. Ci mancherà.

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