Towards a new perspective

p791403567-3Una crisi ogni dieci anni: silenziosa, puntuale e ogni volta più matura e profonda della precedente. Era abituato a mettere sempre in dubbio la sua vita e i suoi obiettivi. Con una matita tra le dita ritracciava i suoi sogni, spostando un volto un po’ più a sinistra e un concetto decisamente più a destra. Gli serviva la gomma, poi di nuovo la matita, a volte qualche colore. Le crisi duravano settimane o peggio mesi ed ogni volta era come addormentarsi una sera e svegliarsi dopo un bombardamento. Dai muri stanchi della sua anima penzolavano travi che una volta erano stati i punti cardine della sua esistenza, per lo più sogni o persone. Ma ogni volta ne disegnava di nuovi, proprio come faceva da piccolo quando i suoi migliori amici erano i personaggi che inventava. Anche quelli potevano essere cancellati, con una gomma o al peggio col bianchetto. C’è una soluzione per ogni delusione. In questo modo non si sentiva mai solo.

We hope your rules and wisdom choke you

Now we are one in everlasting peace

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American Horror Story: Freak Show, quarta stagione

AHSFreakShowPosterCome ogni autunno riparte la stagione dei telefilm e soprattutto delle prime tv più attese. Per quanto riguarda il genere horror le trame interessanti non mancano. FOX propone la nuova stagione di American Horror Story, dal titolo Freak Show, già in onda negli Stati Uniti dall’8 ottobre. Personalmente la parola freak mi fa pensare a due cose: le fotografie di Diane Arbus e il film del 1932 di Tod Browning, il regista di Dracula (per intenderci la versione con Bela Lugosi del 1931). Ma vediamo di cosa tratta questa quarta stagione!
La storia è ambientata in Florida (ma girata di nuovo a New Orleans come per Coven) nel 1952 e ruota intorno ad un circo di veri e propri freak: gemelle siamesi, nani, donne barbute e altre stranezze. Tutti i membri di questa comunità così eccentrica cercano di dare una mano con i loro spettacoli stravaganti per sbarcare il lunario e avere successo. All’epoca infatti questi spettacoli riuscivano a sopravvivere a fatica ed erano continuamente bersagliati da benpensanti ipocriti e ottusi. “Tutto quello che abbiamo sempre voluto, era un luogo dove poterci sentire al sicuro ed essere noi stessi. Ma nessuno ce lo concederà. Dovremo insorgere e prendercelo!”: questa frase riassume ottimamente l’atteggiamento dei freak del circo, stufi di subire soprusi ed essere segregati dalle persone “normali” e dalla società. E ovviamente something wicked this way comes: certo, perché le occulte forze del male non potevano mancare anche in questa quarta stagione!

In Freak Show rivedremo ancora Jessica Lange (attrice e vera mente del circo), Kathy Bates (nei pianni di una donna barbuta), Sarah Paulson (nel doppio ruolo di due gemelle siamesi), Evan Peters, Angela Bassett e molti altri.

La prima puntata del telefilm è pervasa da una particolare atmosfera anni ’50 davvero ben realizzata. Jessica Lange è convincente e come al solito incanta tutti; questa volta canta anche, con un look che ricorda un David Bowie biondo all’epoca di Ziggy Stardust (in realtà Life on Mars è una canzone del 1971, contenuta nell’album Hunky Dory; il telefilm è ambientato ben vent’anni prima). Abbiamo inoltre le prime scene pulp, alcuni omicidi e un pagliaccio terribile che, sulla falsa riga di It, offre fiori ai malcapitati che hanno la sfortuna di incontrarlo. Nell’insieme la trama sembra funzionare e prospetta sani slanci di terrore nell’immediato futuro.

Infine so che non c’entra assolutamente nulla con l’horror ma la settimana scorsa su Rai 1 verso le 2.30 di notte hanno ritrasmesso Il segno del comando, il bellissimo sceneggiato in b/w di Daniele D’Anza del 1971. Quindi consiglio tutti gli appassionati del genere di tenere d’occhio la programmazione di questa fascia oraria. Si possono fare scoperte interessanti. Detto questo, buona visione!

American Horror Story 4: prossimamente su SKY
Il trailer di Freak Show: clicca qui per vederlo

Le prime tv di ottobre (di Les Revenants e Salem parleremo prossimamente):
Les Revenants: da mercoledì 15, ore 21.10 SKY Atlantic
The Walking Dead (quinta stagione): da lunedì 13, ore 21.00 SKY FOX
Salem: da lunedì 13, ore 21.55 SKY FOX

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Si sente la voce al Concorso 8×8

Il volume Si sente la voce si propone di raccogliere i migliori racconti che hanno partecipato al concorso 8×8 nel corso degli anni, dall’edizione del 2009 a quella del 2012. Nonostante i racconti siano presentati alla giuria del premio in forma orale e quindi pensati per questo tipo di divulgazione, anche in versione cartacea mantengono la loro immediatezza, estemporaneità e semplicità. Gli stili sono vari e vanno dal racconto in prima persona a quello che vede protagonisti episodi di vita e il narratore onnisciente di stampo classico, fino ad arrivare ai sogni e alle reminiscenze del passato, magari sfiorando Joyce. I temi che gli scrittori decidono di affrontare suggeriscono stralci di esistenza quotidiana e di problemi comuni a molti: malattia, morte, vecchiaia, rapporti famigliari usurati, memorie dell’infanzia e anche tentativi di rigovernare il mondo per un futuro migliore. Si sente la voce è una raccolta adatta a chiunque voglia riflettere su aspetti della vita moderna in modo concreto e conciso, vista soprattutto la brevità di questi racconti: è difficile infatti che un lettore più o meno curioso non riesca a trovare, in mezzo a questa selezione così vasta, qualcosa di suo gusto. Ci troviamo di fronte a degli esordienti che non hanno la presunzione di volerci insegnare qualcosa, ma sono piuttosto dei compagni di viaggio che ci propongono degli spunti da cui partire per un’analisi più approfondita del reale e delle nostre esistenze. Molti sono i racconti accattivanti contenuti in Si sente la voce, alcuni più “prolissi”, altri esplosivi e dal finale shoccante: in particolare risaltano per stile e ritmo narrativo L’ora è fuggita di Valentina Pattavina, che ha poi avuto successo con La libraia di Orvieto (Fanucci, 2010), I cani adorano i suoi pantaloni di Alessio Torino, poi diventato primo capitolo del suo romanzo Tetano (Minimum Fax, 2011) e anche L’anatra pneumatica di Paolo Piccirillo, componimento breve ma davvero incisivo: a parte quest’ultimo, stupisce la quantità di racconti relativi alle esperienze d’infanzia che sottolineano l’innocenza e l’ingenuità dei bambini di fronte alla morte e ai temi importanti della vita, come in Unità di misura di Mirko Sabatino o Nel silenzio che segue di Chiara Apicella.
La raccolta 8×8 può essere considerata anche un ottimo censimento sul livello che la scrittura offre attualmente per quanto riguarda le nuove leve letterarie. Interessante è anche l’età dei partecipanti, intorno ai 34,2 anni, una media piuttosto alta a sottolineare che la scrittura è una malattia e, come dice la prefazione, “si inizia a scrivere tardi e non si smette più”.
Sempre nella prefazione, dal carattere a tratti scherzoso e divertente, troviamo vari chiarimenti e precisazioni sulla natura di questo progetto, una spiegazione molto interessante sul genere racconto e sulla pratica della scrittura e i punti di vista e le perle di saggezza di autori del calibro di Henry James ed Edith Wharton, che potranno esserci sicuramente d’ispirazione. Troviamo infine in appendice tutte le biografie degli scrittori pubblicati in Si sente la voce: nulla di esaustivo, giusto luogo, data di nascita e alcune informazioni generali, ma comunque ottime per farsi un’idea ancora più precisa della persona che leggiamo di volta in volta.
Anche la fisionomia del volume, realizzato in carta color avorio e con un design molto solare ed essenziale, segue la politica di semplicità che questo libro sprigiona: l’attenzione vuole essere focalizzata soprattutto sui racconti e sugli scrittori e non, come spesso accade, su tutta la struttura che li circonda; in copertina troviamo poi una margherita con il centro che ricorda un microfono, a sottolineare ancora una volta il carattere orale della competizione.
In conclusione Si sente la voce è un prodotto leggero e originale che non si prende sul serio, ma al tempo stesso non si tira mai indietro e sa presentare anche temi scottanti: gli scrittori di 8×8 non hanno paura di mettersi alla prova e si spogliano di tutte le sovrastrutture e gli stratagemmi narrativi; grazie a loro riusciamo a percepire l’essenza della creazione letteraria e anche il talento allo stato grezzo, quando non è ancora stato limato via quel non so che di irresponsabile ed estemporaneo che ogni artista ha all’inizio della sua carriera.

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Il cigno nero: realtà o psicosi? Un tentativo di analisi

Il film Il cigno nero racconta la traumatica scoperta interiore realizzata da una giovane e promettente ballerina del New York City Ballet. Nina vorrebbe interpretare sia Odette, il delicato ed innocente cigno bianco, che Odile, la sensuale e oscura regina dei cigni, ne Il lago dei cigni di Čajkovskij, ma per farlo deve prima entrare in contatto con l’altro che vive dentro di lei. Questa conoscenza che normalmente dovrebbe liberarci da impulsi, conflitti e resistenze interne diventa per lei fatale: le forze negative che Nina nasconde, infatti, la conducono verso l’autodistruzione e forse anche la morte. E’ molto difficile poter affermare con sicurezza quale sia il destino finale della protagonista: Nina infatti scena dopo scena si trova sempre più vicina alla schizofrenia, in preda a paure, incubi e manie, sospesa in una sorta di mondo a metà tra realtà e allucinazione. Lo spettatore vede quello che succede attraverso i suoi occhi e, per questo, non può dare un’interpretazione completamente oggettiva degli eventi. Se Nina nel penultimo atto sembrava aver elaborato e risolto la sua libido negativa riuscendo finalmente ad interpretare il cigno nero e facendo felice il suo maestro, nell’ultimo atto rientra nella sua patologia contraddittoria fino ad arrivare ad autopunirsi conficcandosi un pezzo di specchio nell’addome. Qui sembra quasi che la conflittuata e debole personalità del cigno bianco venga definitivamente uccisa dal cigno nero, stufo di dover vivere nascosto e solo a sprazzi: Nina percepisce il suo lato oscuro come un elemento che l’attrae e l’allontana al tempo stesso ma che non riesce forse a rielaborare del tutto, vuoi perché la sua psicosi è ormai troppo avanzata e la tensione troppo forte o perché trova la sua seconda personalità contraddittoria. E’ proprio Odette/Nina infatti a morire sul palcoscenico dopo aver dato un ultimo sguardo alla madre, come a voler ripercorrere tutta la sua vita riassunta in quel rapporto stretto, perverso, dinamico e incombente da cui ha sempre cercato di liberarsi ma in cui alla fine è tornata con un ultimo sforzo di masochismo estremo. Restano da considerare infine le ultime parole di Nina: “Lo sentivo. Perfetto. Era perfetto!”. Queste sottolineano come probabilmente la ballerina sul finale ritorni ad essere autocentrica e ossessionata dalla ricerca ostinata della perfezione e il suo lato oscuro sia di nuovo nascosto. Nina ha interpretato il cigno nero meglio di chiunque altro ed è morta come quello bianco, sfiorando per un attimo una libertà che in vita non aveva mai raggiunto: nella sua mente è finalmente soddisfatta. Ma anche qui non siamo sicuri di cosa sia vero e cosa sia solo frutto della psicosi della protagonista.

Gli ambienti in cui si svolge Il cigno nero sono per lo più interni poco illuminati o comunque rischiarati da luci artificiali e lampade. Troviamo soprattutto gli ambienti del teatro, quindi sale prova, camerini e corridoi dove i ballerini sostano in attesa di cominciare: questi sono freddi, impersonali, spettrali e frustranti e si ammantano dello spirito reattivo e contraddittorio degli artisti. In particolare le sale sono ampie ma circoscritte, quasi separate dal mondo esterno e lasciano un senso generale di claustrofobia ed inquietudine negli occhi di chi guarda. Il colore predominante è il bianco ma tutto riesce comunque a risultare cupo. La presenza frequente di specchi ci rivela inoltre una realtà sgranata e divisa, sempre ritornando al tema del doppio. L’alternanza di luce e buio durante le prove di Nina è molto simile all’alternarsi costante del suo io contraddittorio: quando si spengono le luci arrivano le forze negative e con esse il lato oscuro e la protagonista è vittima di allucinazioni. Anche la casa di Nina è un chiaroscuro di luci e ombre e sembra quasi vista a lume di candela, anche perché la ragazza vi ritorna solo la sera: la sua stanza è più chiara ma coi suoi toni di rosa bambinesco viene comunque percepita come strana e angosciante. Ogni ambiente che Nina frequenta, dal locale con Lily all’ospedale dove va a trovare Beth, è investito dalla sua interpretazione della realtà e dalle sue problematiche e diventa per questo in un certo senso una creatura della sua mente. Il teatro dove si svolge la prima de Il lago dei cigni infine è un ambiente a sé caratterizzato dal balletto coinvolgente e avvolgente, quasi fosse un film nel film: qui finalmente il lato oscuro di Nina riesce ad emergere e qui le sue allucinazioni arrivano al loro punto massimo.

Il registro visivo è dominante: le scene, soprattutto quelle girate in interni poco illuminati, sono violentemente emotive ed esprimono perfettamente i pensieri contorti e contraddittori della protagonista. Anche se lo spettatore rischia spesso di restare interdetto di fronte alla confusione e ai problemi di Nina, riesce per lo meno in parte a comprenderla e ha la possibilità inoltre di dare ad alcune scene una diversa interpretazione, a seconda della sua disponibilità recettiva del momento o forse anche del suo rapporto con il suo lato più nascosto. L’alternarsi di luce e ombra, chiaro e scuro genera nel cuore di chi guarda degli sbalzi emotivi notevoli.

I contesti in cui il film Il cigno nero si svolge sono essenzialmente quelli relativi al mondo del balletto, con tutte le tensioni e le sfide che questo ambiente propone ai suoi protagonisti. Il cigno nero è una pellicola che appartiene al genere thriller psicologico, per questo le insicurezze e le ossessioni della protagonista vengono filtrate ed espresse in modo cupo e fantastico e gli ambienti ne diventano saturi. In realtà il regista ci racconta il problema della ballerina Nina che sogna, nonostante la malattia di cui non è per nulla consapevole, di riuscire ad interpretare con successo Odette e Odile ne Il lago dei cigni. I toni non sono mai pacati ma quasi sempre lividi, profondi e sconcertanti, tanto da far sussultare lo spettatore più volte. Le immagini di questo film parlano da sole con una forza espressiva inaudita.

Il registro verbale è rappresentato da frasi dirette, allusive ed evocative che, nonostante l’apparente semplicità, nascondono sicuramente un livello sotterraneo di significato molto profondo. Trattano vari argomenti ma soprattutto la ricerca della perfezione e quella del proprio lato oscuro come modo per potersi conoscere ed esprimere meglio, sia dal punto di vista “normale” che da quello patologico di Nina.
Le voci dei personaggi sono spesso e volentieri basse, i dialoghi a volte sussurrati e ammiccanti. Le parole risultano mordicchiate e nervose, pronunciate in ambienti ampi e ovattati che le distorcono.
Nonostante sia un film ambientato nel mondo del balletto non abbiamo utilizzo di termini tecnici quindi il linguaggio è pienamente comprensibile. Abbiamo invece una possibile asimmetria comunicativa per quanto riguarda il modo distorto di leggere la realtà di Nina, a volte poco immediato per lo spettatore ma che risulta in parte più chiaro sicuramente ad una seconda visione più attenta.
Il film non è in realtà ricchissimo di dialoghi e frasi peculiari come potrebbe sembrare: è molto importante secondo me l’utilizzo della pause e dei silenzi che scandiscono i momenti di angoscia della protagonista e si alternano alla luce e al buio.
Il cigno nero comincia come una sorta di favola ovattata e onirica anche se è già presente una punta di inquietudine. Nina racconta di aver fatto un sogno assurdo in cui interpretava il cigno bianco. Da qui in poi l’atmosfera si fa sempre più cupa e trasfigurata.
Tra tutte le frasi legate al significato più profondo del film troviamo sicuramente il consiglio che Thomas Leroy rivolge a Nina: “L’unico vero ostacolo al tuo successo sei tu: liberati da te stessa. Perditi, Nina.”. Queste parole rappresentano sicuramente l’obiettivo della protagonista: allontanarsi dalla ricerca continua della perfezione, lasciarsi andare alle emozioni ed entrare finalmente in contatto con il lato oscuro che ha dentro di sé. Solo così Nina può essere un cigno nero efficace guidato da seduzione, impulsi finalmente liberi e maturità acquisita. Diversamente rischia di rimanere per sempre l’ideale di ballerina fragile e piena di paure che cerca senza successo di emergere. Nina non sa precisamente come affrontare questa sfida anche perché è del tutto ignara dei suoi problemi: questi si esprimono con forza davanti agli occhi dello spettatore ma per lei restano in un certo senso a livello inconscio. Durante il film tutti cercano di aiutarla a far emergere questo suo lato così ben nascosto: alcuni la stuzzicano, altri la provocano, in modo sempre piuttosto doloroso. Come ci trovassimo di fronte ad un’attrice, seguiamo passo dopo passo la costruzione del personaggio di Odile che viene alla luce una piuma per volta: questo lavoro però, a differenza di un normale studio di interpretazione per una parte, scappa di mano a Nina, ne prende a tratti il sopravvento e si esprime in una dimensione onirica che la protagonista vive in modo patologico. In un certo senso è un po’ come essere presenti in un backstage o ad un making of delle riprese.
Nella costruzione del personaggio un passo fondamentale è l’allontanamento da una madre sempre troppo presente che non le permette di crescere. La sera della prima alla domanda della madre “Dov’è finita la mia bambina?”, Nina risponde “Non esiste più!”. La struttura del registro verbale è però in un certo senso circolare in quanto si inizia trattando la ricerca della perfezione e con essa si termina. Le ultime frasi del film, che poi sono anche quelle di Nina, risultano infatti: “Lo sentivo. Perfetto. Era perfetto!”. Anche se in realtà si tratta di una perfezione diversa: non più solo una ricerca ossessionata di controllo ma anche la capacità di lasciarsi andare, almeno durante l’interpretazione di quel cigno nero. Leroy infatti le ricorda spesso: “La perfezione non sta solo nel controllo. E’ anche nel lasciarsi andare”.

Il registro visivo è in rapporto in parte con il registro verbale ma soprattutto con quello sonoro: l’alternanza di luce ed ombra è seguita dal sonoro che da pacato diventa cupo e angosciante anche grazie alle pause e agli strappi improvvisi di volume. Le immagini e la musica agiscono dove le parole sembrano fallire e non andare in profondità.

I personaggi non sono molti. Nina Sayers è la protagonista del film e intorno a lei ruotano tutti gli eventi e gli altri personaggi. Gli attori sono tutti credibili, sia Vincent Cassel nel ruolo del coreografo Leroy che Mila Kunis nei panni della rivale Lily. In particolare Natalie Portman, che ha anche vinto l’Oscar come miglior attrice per il personaggio di Nina, ci regala davvero una delle sue interpretazioni più profonde e sofferte.

Nina Sayers è una giovane ed ambiziosa ballerina del New York Ballet che, decisa ad interpretare Odette ne Il lago dei cigni, deve imparare anche la parte della oscura Odile. Per farlo deve prima liberarsi dall’ansia di perfezione, lasciarsi andare e rompere gli schemi e tutto ciò che la imprigiona. Nina vorrebbe inoltre fuggire dal rapporto con una madre incombente e insoddisfatta che la vuole sempre bambina e dipendente da lei; per questo arriva ad autopunirsi graffiandosi pesantemente la schiena come forma di compensazione. Dorme in una stanza dai colori e dall’arredamento infantile e prende sonno tutte le sere al suono di un carillon con sopra una ballerina che la madre le mette vicino al letto. Nina è autocentrica e monotematica, pensa infatti solo al balletto ed è affetta da sindrome borderline schizoide, al limite della schizofrenia, anche se non ne è cosciente. Presto però il lavoro per interpretare il cigno nero si rivela più difficile del previsto e le tensioni sempre più insopportabili. Per questo Nina diventa quasi subito preda di ansie, paure, incubi, pulsioni di libido primaria e manie e per lei il punto di non ritorno viene raggiunto con l’arrivo di Lily, una ragazza sensuale e sicura di sé che diventa la sua controfigura e possibile rivale per il ruolo di Odette. Nina percepisce il limite tra realtà e fantasia come labile e poco definito: vive allucinazioni e attimi di dimensione onirica in modo patologico, momenti in cui si fa del male o crede di farne ad altri e in cui confonde la realtà con la proiezione di quello che vorrebbe o non vorrebbe.

Erica Sayers è la madre di Nina. E’ una presenza incombente e soffocante che domina la figlia in tutti i modi e la vorrebbe sempre piccola. Gratifica, ricatta e ossessiona Nina con gli alimenti, costringendola a mangiare anche quando non ne ha voglia: per questo la protagonista ha un pessimo rapporto con il cibo ed è molto magra. Da giovane Erica era ballerina ma sostiene di aver abbandonato la carriera per diventare madre: in questo modo accusa Nina e le riversa addosso tutti i rimpianti e i sensi di colpa.
Il rapporto con la madre è una dinamica negativa e perversa da cui la protagonista vorrebbe ma non può liberarsi del tutto perché troppo forte e radicato: inizialmente sembra riuscirci quando sul finale rompe il carillon e fugge da casa ma poi ritorna nel suo stretto abbraccio. Uno degli ultimi sguardi di Nina sarà infatti per la madre, come a volersi ancora autopunire. In questa scena Erica sembra quasi chiederle perdono come se avesse capito il male che le ha provocato, ma ormai è troppo tardi.

Lily è la controfigura che ossessiona Nina e che le può rubare l’interpretazione e il ruolo del cigno nero, quello che la protagonista non avrebbe mai voluto essere razionalmente ma che sensibilmente ha dentro. E’ una ragazza sensuale e diretta che conduce una vita apparentemente sregolata e trasgressiva: introduce Nina alle droghe e la porta in un locale dove le insegna a svagarsi in compagnia degli altri. Sebbene sia subdola nei confronti della protagonista, che per lei prova una gelosia distruttiva, è probabilmente più tranquilla e mite di quello che sembra. E’ spesso e volentieri sadica ma i suoi occhi sono dolci ed espressivi rispetto a quelli volitivi della protagonista. Nina bacia Lily e ha un rapporto con lei ma non riusciamo a capire perfettamente se questo sia il sogno derivato dal desiderio represso di amare il proprio lato oscuro o solo un’altra allucinazione.

Thomas Leroy è il coreografo del balletto e anche una sorta di padre padrone punitivo, incombente e maschilista. Usa gli altri e poi li butta via, un po’ come ha fatto con la sua ex prima ballerina Beth, con cui inizialmente ha creato un rapporto di dipendenza e subordinazione e poi se ne è liberato. Vive con la proiezione di quello che vorrebbe essere ma non si accetta per quello che è. Leroy ha nei confronti di Nina un atteggiamento strano e perverso: da un lato sembra volerla aiutare a far affiorare il suo lato più nascosto per interpretare in modo corretto il cigno nero, dall’altro deforma l’animo della ragazza già fragile di suo con comportamenti ambigui e persuasioni verbali.

Beth è l’ex prima ballerina di Leroy costretta a cedere il posto alla protagonista. In un incidente si rompe le gambe e Nina va a trovarla in ospedale per riportarle anche gli orecchini e il rossetto che le aveva preso e che le trasmettevano forza e maturità. Qui non riusciamo a capire precisamente cosa sia vero e cosa no ma Beth rappresenta forse il personaggio della ballerina che, ormai alla fine della carriera, dopo essere stata ossessionata per tutta la vita da rivalità, tensioni e ruoli da interpretare e dopo essere stata abbandonata dal suo coreografo, non riesce più ad affrontare la realtà e affoga i dispiaceri nell’alcool. E’ un personaggio fosco e inquietante.

I dialoghi tra i personaggi sono in apparenza piuttosto diretti e semplici ma nascondono correnti sotterranee di significato molto profonde e forti. In realtà il dialogo più importante è forse quello che avviene all’interno di Nina tra il suo io esplicito e quello nascosto dentro di lei.

Il regista è l’americano Darren Aronofsky, autore sempre attratto da tutto quello che nella vita è strano e spesso incomprensibile. Il suo stile di regia è per questo provocatorio, ossessivo e nel caso de Il cigno nero anche inquietante. Avvicinandosi molto all’horror come genere e volendo spettacolarizzare la problematica di Nina, il regista ci mostra anche scene crude e spesso raccapriccianti di ferite, autolesioni e sangue.
Non abbiamo un narratore classico onnisciente ma vediamo gli avvenimenti con gli occhi di Nina. Questo a volte può creare qualche problema di comprensione.
Non ci sono variazioni temporali; il tempo scorre in modo abbastanza continuo ma, a causa delle impressioni distorte e allucinazioni di Nina, la realtà risulta comunque a tratti difficile da interpretare. A volte il tempo del film sembra quasi dilatarsi nello spazio e rallentare le nostre percezioni in pause interminabili.
La videocamera passa dalla tranquillità di scene che appaiono quasi ferme alla concitazione quando l’anima di Nina comincia ad agitarsi. Abbiamo inoltre una presenza massiccia di primi piani soprattutto interni di Nina e di Nina in compagnia degli altri personaggi che la circondano. La protagonista è sempre presente sulla scena. L’uso della luce determina chiaroscuri inquietanti e claustrofobici e l’alternanza di luce e ombra sottolinea ancora una volta il dualismo del cigno.

Nel finale la personalità di Nina si sfalda completamente e la ballerina saluta il suo pubblico e la sua vita nei panni della fragile Odette che, abbandonata dall’uomo che ama, si getta da una rupe e muore. Questa è una conclusione sconcertante che fa sicuramente riflettere lo spettatore ma che lascia comunque la possibilità di un’interpretazione personale.
Il cigno nero è quindi in definitiva un film che riflette sul lato oscuro che ognuno di noi ha dentro di sé e dovrebbe imparare a conoscere per poter essere poi più libero e rilassato. La scoperta dell’altro, le tensioni e le paure portano però Nina al lento sgretolarsi della sua personalità e alla morte sul palcoscenico, sempre che di morte si tratti davvero.

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Masterpiece, just another reality show?

1387815404124slide_web_voting_425Ormai in televisione spuntano ogni giorno nuovi reality show, un po’ come i funghi dopo un acquazzone. Alcuni passabili, altri ancora osceni. Anche Rai Tre propone da qualche settimana la sua personale versione di reality show, aggirandosi tra cultura spicciola e il tentativo di “lanciare” nuovi scrittori. In studio come giudici troviamo Giancarlo De Cataldo, Andrea De Carlo e Taiye Selasi. A loro vengono proposti di volta in volta i manoscritti e loro è il compito di scegliere il vincitore della serata.
Nell’insieme il programma è divertente, dura un’oretta e può essere un ottimo stuzzichino del dopocena. Sono sicuramente interessanti alcuni consigli dati dai giudici e soprattutto il tentativo di spiegare i meccanismi che rendono un libro pubblicabile e vendibile o meno al grande pubblico. Sul finale inoltre troviamo una carrellata di idee snocciolate da autori più o meno famosi: alcuni utili, altri meno, altri addirittura esilaranti.
Guardando Masterpiece ci si rende conto però con tristezza di quanti siano gli aspiranti scrittori che rischiano di finire invenduti tra gli scaffali spesso polverosi delle librerie o scaricati senza alcuna pietà da qualche sito free. Ormai tutti scrivono e credono di avere un’ottima storia da raccontare. L’offerta è davvero troppo vasta rispetto al mercato e soprattutto rispetto alla richiesta di nuovi titoli da parte dei lettori.
Perché allora non fare un reality sui lettori? Forse sarebbe utile per risollevare la categoria, ultimamente alquanto bistrattata. I veri lettori si riconoscono subito: vivono a metà tra l’autismo letterario e il tentativo di inserirsi in una realtà più noiosa delle pagine che amano; per intenderci sono quelli che troviamo in Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Ormai ne esistono pochi, sono stati spazzati via dalla velocità del post-moderno, dal valore effimero dei bisogni usa e getta e spesso hanno tradito la loro vocazione anche a causa del rincaro dei prezzi. Sono una categoria in via d’estinzione e come tale va tutelata. Avete un amico, una ragazza, un fidanzato, un marito, un qualsiasi soggetto che ad ogni uscita viene letteralmente rapito dalle vetrine ricolme di volumi e non può fare a meno di entrare in libreria? Ecco, è proprio un lettore! Per le festività regalategli un buono per acquistare nuovi preziosi amici, cartacei o digitali, come preferite, ma fategli questo favore. Avrete in parte aiutato questa categoria a risorgere!

Il programma a cui mi riferisco va in onda alle 22.50 su Rai Tre tutte le domeniche. E’ presente anche in replica su Rai Replay.
http://www.masterpiece.rai.it/

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Recensione Review Seduction di M.J. Rose

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Dall’autrice de Il libro dei profumi perduti è in arrivo un inquietante romanzo incentrato su una donna che scopre le lettere perdute dello scrittore Victor Hugo risvegliando un mistero che valica i secoli.

Nel 1843, muore affogata l’adorata figlia diciannovenne del romanziere Victor Hugo. Dieci anni più tardi, Hugo partecipa a numerose sedute spiritiche sperando di stabilire un contatto con lei. Nel corso di queste sedute sostiene di aver parlato con gli spiriti di Platone, Galileo, Shakespeare, Dante, Gesù e addirittura con il diavolo in persona. Le trascrizioni di queste conversazioni sono state tutte pubblicate. O almeno così si pensava. Molti anni dopo la mitologa Jac L’Etoile arriva sull’isola di Jersey – dove Hugo teneva le sue sedute spiritiche – per svelare un segreto riguardante le origini celtiche dell’isola. Ma l’uomo che l’ha invitata, un’anima inquieta di nome Theo Gaspard, spera in realtà che lei lo aiuti a trovare qualcosa di piuttosto differente – le conversazioni perdute di Hugo con qualcuno chiamato l’Ombra del Sepolcro. Quello che segue è un intricato e suggestivo racconto di suspense con al centro una coinvolgente storia di fantasmi scritta da una delle autrici americane più dotate e creative degli ultimi anni.

mj-roseM. J. Rose è una scrittrice di fama internazionale con all’attivo dodici romanzi, uno dei quali (The Reincarnationist) ha ispirato la serie televisiva Past Lives. Vive a Greenwich nel Connecticut.

Pagine: 370

Editore: Atria Books

 

Recensione

Victor Hugo, anima inquieta e geniale, trascorse sull’isola di Jersey i primi due anni del suo esilio dalla società francese: lo testimonia anche la nota fotografia scattata dal figlio Charles che vede lo scrittore intento a riflettere appoggiato su un gruppo di rocce. Hugo soffriva profondamente per la morte della primogenita Léopoldine ed era in profonda crisi con clero e stato: i primi erano crudeli oppressori che usavano la paura per tenere sotto controllo il popolo, mentre il secondo era troppo spesso corrotto e non si dedicava al benessere dei suoi cittadini. Hugo viveva vicino al mare a St. Helier, in una casa chiamata appunto Marine Terrace, e ogni notte nel suo salotto si svolgevano sedute spiritiche che evocavano anime di ogni tipo, alcune famose come Shakespeare e Napoleone, altre meno e altre ancora misteriose, come lo spirito chiamato the Shadow of the Sepulcher, a cui poi Hugo dedicò effettivamente nel 1859 una poesia, La Fin de Satan; l’Ombra del Sepolcro aveva chiesto infatti allo scrittore di ristabilire la sua reputazione come creatura illuminata piuttosto che forza maligna.
Da questo periodo ricco di pathos e mistero ha preso spunto la scrittrice americana M. J. Rose per il suo nuovo romanzo Seduction, uscito negli Stati Uniti ai primi di maggio e ancora in attesa di traduzione e pubblicazione qui in Italia. M. J. Rose si è ispirata alle lettere e alle conversazioni trascritte da Hugo in quegli anni svolgendo ricerche molto precise; ha poi proseguito per la sua strada lavorando di fantasia e creando una trama davvero avvincente. In questo romanzo ritornano e si fanno forse più profondi tutti gli elementi già presenti ne Il libro dei profumi perduti, prima apparizione dell’affascinante mitologa Jac L’Etoile, da sempre alle prese con un passato difficile e un futuro ancora da definire. Anche in questo secondo volume il tema della reincarnazione è di nuovo al centro dell’attenzione e si dipana seguendo le vicende dei vari personaggi che si confrontano tra di loro con dialoghi sempre verosimili, coinvolgenti e palpitanti, tanto da lasciare letteralmente col fiato sospeso il lettore. Stupisce ancora una volta la capacità dell’autrice di tessere un intreccio intricato e ricchissimo di tematiche senza mai perdere però una certa semplicità di fondo.
La narrazione si alterna tra il presente di Jac e il passato tormentato di Hugo nel 1855: i due piani, anche se lontani e apparentemente diversi, si sfiorano spesso grazie ad oggetti o luoghi che attraversano i secoli; c’è poi una terza esperienza che entra nelle visioni di Jac, quella del druido Owain, vissuto all’epoca dell’invasione romana nel Jersey e snodo fondamentale per comprendere lo sciogliersi finale dell’intreccio. Veniamo quindi introdotti al dolore di Hugo, in lutto costante per la morte della figlia, e incrociamo le avventure di Jac, sempre alla ricerca di se stessa ma questa volta chiamata sull’isola di Jersey per aiutare Theo, un vecchio amico conosciuto in una clinica svizzera, nell’esplorazione e nella “classificazione” di alcune rovine neolitiche. Da qui si diparte un cammino incredibile e all’inizio quasi impensabile.
I personaggi creati da M. J. Rose sono realistici, hanno caratteristiche complesse e ben delineate e si inseriscono perfettamente nella narrazione. Spiccano soprattutto oltre a Jac, descritta in negativo e in positivo negli affetti e nei dolori, lo scrittore Victor Hugo, di cui viene data un’interpretazione credibile e affascinante sia nel modo di essere che di parlare, e Fantine, delicata e struggente ma anche forte e coraggiosa, qui personaggio in carne ed ossa che ispirerà poi la giovane madre prostituta de I miserabili. Anche i personaggi cosiddetti minori, come i fratelli Theo e Ash e le due zie Minerva ed Eva, sono finemente cesellati e risultano interessanti e protagonisti a loro modo di scene davvero toccanti e sconvolgenti.
In Seduction il lettore si lascia trasportare piacevolmente dai miti e dalle leggende dell’isola di Jersey in un universo fatto di druidi, rituali celti e menhir sapientemente rievocati. Grazie anche alla grande capacità introspettiva dell’autrice e al suo stile vario e raffinato, ci avviamo verso un viaggio che non è solo visivo ed emotivo ma diventa a tratti anche olfattivo: oltre ai pensieri e ai luoghi precisamente descritti, riusciamo infatti anche a percepire i profumi che di volta in volta la protagonista incontra, quasi sviluppando le facoltà di un novello Pierre Guerlain. M. J. Rose alterna un registro concreto e preciso ad un registro onirico e sognante, soprattutto per quanto riguarda i capitoli di Hugo o le visioni di Jac: questi due stili si alternano senza problemi, confondendosi e immergendosi a tratti l’uno nell’altro e confondendo anche la percezione del lettore, come un orizzonte appena offuscato dalla nebbia o un quadro impressionista. Grazie alle descrizioni in punta di pennello della Rose vediamo inoltre un’immagine dell’isola di Jersey davvero magica e affascinante, ricca di rovine storiche e di boschi fatati dal passato millenario. Riusciamo a capire perfettamente perché questa terra così particolare avesse a suo tempo affascinato anche l’anima di Victor Hugo.
In conclusione Seduction è un romanzo con uno svolgimento intricato e coinvolgente, dotato di un’anima delicata e raffinata che non smette di stupire e deliziare fino alla sua ultima pagina. Contiene tutta la seduzione di un profumo di Chanel ma anche il pathos cupo e ineluttabile del patto col diavolo del Faust di Goethe e l’atmosfera spesso onirica di un gotico del periodo d’oro.

Recensione a cura di Michela Favale

Ringrazio Atria Books per avermi fornito una copia del romanzo

In 1843, novelist Victor Hugo’s beloved nineteen-year old daughter drowned. Ten years later, Hugo began participating in hundreds of séances to restablish contact with her. In the process, he claimed to have communed with the likes of Plato, Galileo, Shakespeare, Dante, Jesus – and even the Devil himself. Hugo’s transcriptions of these conversations have all been published. Or so it was believed.
Recovering from her own losses, mythologist Jac L’Etoile arrives on the Isle of Jersey – where Hugo conducted the séances – hoping to uncover a secret about the island’s Celtic roots. But the man who’s invited her there, a troubled soul named Theo Gaspard, has hopes she’ll help him discover something quite different – Hugo’s lost conversations with someone called the Shadow of the Sepulcher.
What follows is an intricately plotted and atmospheric tale of suspense with a spellbinding ghost story at its heart, by one of America’s most gifted and imaginative novelists.

M. J. Rose is the international bestselling author of twelve novels, one of which (The Reincarnationist) was the basis of the television series Past Lives. She is a founding board member of International Thriller Writers and the founder of the first marketing company for authors: AuthorBuzz.com. She lives in Greenwich, Connecticut.

Review

Victor Hugo, restless soul and genius, spent the first two years of his exile from France on the island of Jersey: the famous photograph taken by his son Charles where the writer is reflecting resting on a group of rocks is further proof of this. Hugo suffered deeply for the death of his eldest daughter Léopoldine and was in deep crisis with the church and the state: the former were cruel oppressors who used fear to control the people, while the second was too often corrupt and did not devote itself to the welfare of its citizens. Hugo used to live near the seaside at St. Helier, in a house called Marine Terrace, and every night seances were held evoking all kind of souls in his living room: some of those were spirits of famous people such as Shakespeare and Napoleon, others less important, and others more mysterious like the spirit called the Shadow of the Sepulcher to whom in 1859 Hugo effectively dedicated a poem, La Fin de Satan; the Shadow of the Sepulcher had asked the writer to restore its reputation as an enlightened creature rather than an evil force.
The american writer M. J. Rose took the cue from this period full of pathos and mystery for her new bestseller Seduction, released in the U.S. in early May and still waiting for translation and publication here in Italy. M. J. Rose was inspired by the letters and the conversations transcribed by Hugo in those years; she did a lot of research, then continued in this way using her imagination and creating a really engaging storyline. In this novel all the elements already present in The Book of Lost Fragrances come back and become perhaps even more profound; we meet again the fascinating mythologist Jac L’Etoile who has always been struggling with a difficult past and a future yet to be determined. In this second volume the theme of reincarnation is again at the center of attention and unravels following the stories of the characters who confront each other with dialogues always plausible, engaging and vibrant, so as to literally leave the reader in suspense. The author’s ability to weave a rich and intricate story full of themes without ever losing, however, a certain basic simplicity surprises us once again.
The narrative alternates between the present of Jac and the tormented past of Hugo in 1855: the two time levels, although distant and at first glance different, often touch each other through objects or locations which reach across the centuries; there is then a third experience entering the visions of Jac, that of the Druid Owain, who lived at the time of the Roman invasion in Jersey and is the focal point for understanding the solution of the plot. We are then introduced to the pain of Hugo, in constant mourning for the death of his daughter, and we follow the adventures of Jac, always in search of herself, but this time called on the Island of Jersey to help Theo, an old friend met in a clinic in Switzerland, to explore and “classify” some Neolithic ruins. From here we start an incredible journey which was at the beginning almost unthinkable.
The characters created by M. J. Roses are realistic, have complex and well-defined features and fit perfectly into the narrative. Besides Jac, well described in negative and positive affections and sorrows, the writer Victor Hugo stands out: he is a credible and fascinating character even in his way of speaking; moreover we meet also Fantine, delicate and poignant but also strong and courageous, who then will inspire the young mother prostitute in Les Miserables. Even the so-called minor characters, like the brothers Theo and Ash and the two aunts Minerva and Eva, are well-defined and protagonists in their own way of some really touching and shocking scenes.
In Seduction the reader is pleasantly carried away by the myths and legends of the island of Jersey in a universe of Druids, Celtic rituals and menhirs skilfully evoked. Thanks to the great introspective ability of the author and her varied and refined style, we approach a journey which is not only visual and emotional but at times even olfactory: in addition to the thoughts and places precisely described, we can also perceive the aromas the protagonist meets from time to time, almost developing the faculties of a new Pierre Guerlain. M. J. Rose alternates between a concrete and precise register and a dreamy one, especially with regard to the chapters about Hugo or the visions of Jac: these two styles alternate without problems, mingling and dipping into each other at times and even confusing the perception of the reader, just like a horizon obscured by fog or an impressionist painting. The descriptions of Rose also show us an image of the island of Jersey truly magical and charming, full of historical ruins and woodland fairies from an ancient past. We understand perfectly well why this land is so special and also captivated the soul of Victor Hugo.
In conclusion Seduction is a novel with an intricate and engaging plot, provided with a delicate and refined soul that never ceases to amaze and delight us right up to its last page. It contains all the seduction of a Chanel perfume, the pathos of the dark and inescapable pact with the devil in Goethe’s Faust and the often dreamy atmosphere of a Gothic classic.

Review by Michela Favale
Thanks to Atria Books for providing me with a copy of the novel

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Recensione: Mama (La madre, film 2013)

Il finale in un film dell’orrore è da sempre un problema che affligge registi e sceneggiatori, tanto più se la pellicola in questione si muove sul filo del paranormale. Il timore di una creatura che sfugge ai parametri della ragione umana può infatti funzionare a livello visivo finché rimane sullo sfondo, con brevi apparizioni e fotogrammi veloci; diversamente la paura si dissolve pian piano per lasciare il posto all’ilarità e al ridicolo. Gli ultimi dieci/venti minuti di un film horror, spesso ricchi di spiegazioni allucinate e poco credibili, finiscono quindi per essere una conclusione obbligata che non aggiunge nulla alla storia e anzi la penalizza, facendoci dimenticare le buone premesse iniziali. A livello letterario è esattamente questo il sistema di successo su cui si basano i racconti di H.P. Lovecraft: trovare qualcosa di nuovo e indefinito che sfugga al nostro modo classico di provare timore.
Al di là della coraggiosa soluzione d’avanguardia di Quella casa nel bosco, che suggeriva un incipit quasi infinito in perfetto stile Se una notte d’inverno un viaggiatore, tra tutte le tecniche proposte di recente per ovviare a questo grosso problema, ho trovato molto interessante la via percorsa dall’argentino Andrés Muschietti nel suo Mama. Questo film, sbarcato da poco in Italia con il titolo La madre e prodotto da Guillermo del Toro, non è altro che il lungometraggio di Mama, corto in lingua spagnola del 2008, scritto e diretto da Muschietti.
Il film è ricco di inquadrature e scelte valide: a parte la sequenza fotografica nella capanna del bosco che vede la madre protagonista e che strizza l’occhio all’horror orientale e ai videogiochi come Project Zero, vincente è anche la scelta di non mostrare sempre la donna ma lasciarla intendere mentre gioca con le bambine o dietro le spalle del padre nelle sequenze iniziali. Se poi le parole possono distruggere il mistero, l’emozione e l’espressività di un film allora perché non toglierle quasi del tutto? Ed è proprio questo che succede più o meno negli ultimi dieci minuti del film. Siamo improvvisamente catapultati in un mondo visionario e a tinte fosche dove solo la musica evocativa e la bravura degli attori (un plauso va in particolare a Jessica Chastain e alle due bambine) riescono ad esprimere il terrore e i sentimenti che provano i vari personaggi. Si raggiunge così un universo fiabesco e dark che ricorda i film di Tim Burton e ovviamente anche alcune pellicole di Guillermo del Toro, a tratti simile quasi al macabro inquieto e sottile di un film muto anni ’20: emerge così ne La madre anche la sfumatura poetica che risiede nella paura, espressa pienamente dal dolore e dalla disperazione della donna fantasma che ci regala un finale visivamente alternativo alla solita vicenda strappalacrime trita e ritrita.

Trama
Cinque anni fa, le sorelle Victoria e Lily sparirono dal loro quartiere senza lasciare traccia. Da allora, il loro zio Lucas e la fidanzata di lui, Annabel, non hanno smesso di cercarle. Ma inaspettatamente le bambine vengono ritrovate vive in una baita fatiscente, e gli zii le accolgono nella loro casa. Annabel cerca di far riprendere alle piccole una vita normale, ma allo stesso tempo inizia a percepire una presenza malvagia nella loro casa, in particolare delle strane voci, di sera.

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Bià Jazz Festival 2013 – VII edizione

Il jazz è una musica che da sempre riunisce, accomuna e riscalda gli animi. Se poi l’atmosfera del locale è al contempo sofisticata e amichevole il gradimento del pubblico può essere ancora maggiore: la settima edizione del Bià Jazz si è svolta proprio all’insegna di questo spirito, tra ricercatezza di suoni e partecipazione attiva dei presenti. Quest’anno il Festival di Abbiategrasso è andato in scena in tre serate, il 2, il 9 e il 15 marzo, e ha visto la presenza di importanti stelle del jazz europeo contemporaneo affiancati da interessanti artisti emergenti. Il Bià Festival è una rassegna organizzata ogni anno dal circolo Arcipelago e dalla Cooperativa Rinascita, con la supervisione del direttore artistico Massimo Colombo, compositore e pianista milanese che ha lavorato con i più grandi musicisti jazz italiani e anche internazionali. Tra i nomi importanti che hanno preso parte alla manifestazione abbiamo il trio capitanato dal sassofonista Emanuele Cisi, accompagnato dal contrabbassista Massimiliano Rolff e dal batterista statunitense Eliot Zigmund, il duo composto dal sassofonista Pietro Tonolo e dal chitarrista Giancarlo Bianchetti, e il quartetto del batterista Maxx Furian, che si è presentato insieme a Marco Micheli al contrabbasso, Gianluca Esposito al sax e Andrea Dulbecco al vibrafono.
Ma veniamo al racconto della splendida serata del 9 marzo che si è aperta alle 21.30 tra una pioggerellina leggera e una nebbia da tagliare col coltello in quel di Abbiategrasso, a pochi chilometri da Milano. Il concerto ha una location molto particolare: si svolge infatti in una casa del popolo e il palcoscenico è allestito in una vecchia discoteca anni ’70 che è stata riadattata per l’occasione. Dietro al palco, che è a livello del pubblico, sono appesi alcuni manifesti in tessuto che rappresentano un gatto con fattezze umane in completo elegante e tromba e il cagnolino protagonista della locandina della manifestazione; completano il look della sala poltrone di velluto blu, pareti a specchio e travi di metallo sul soffitto, a ricordare le strobosfere e i classici effetti da discoteca un tempo così in voga.
Per primi ascoltiamo i ragazzi del Giovanni Agosti Quartet (Giovanni Agosti al pianoforte, Nicolò Ricci al sax, Riccardo Chiaberta alla batteria e Marco Rottoli al contrabbasso), allievi del corso di arrangiamento tenuto da Massimo Colombo al Conservatorio di Milano nella sezione jazz, che presentano quattro brani originali. Ci troviamo di fronte a pezzi affascinanti, melodici ed orecchiabili, a tratti elaborati ma sempre godibili e soprattutto vari, arricchiti sempre da lunghe improvvisazioni mai noiose che a volte fanno quasi perdere la linea di demarcazione tra un brano e l’altro e fanno respirare dentro la composizione. In particolare il pezzo scritto dal batterista, The Falling Snow, riesce ad essere anche molto realistico e ricorda, nelle sue note, proprio la neve che cade, quasi fosse una White Christmas reinterpretata.
Segue poi il duo composto dal sassofonista Pietro Tonolo, professionista di fama mondiale, e da Giancarlo Bianchetti, chitarrista tra gli altri di Vinicio Capossela, che presentano alcuni brani originali. I due dialogano costantemente tra loro, le melodie si intrecciano e si rincorrono, le luci si fanno soffuse e il pubblico rischia di perdere lo spazio e il tempo della serata: il chitarrista, capace di suonare in molti stili diversi e usare sia dita che plettro, crea un tappeto per lo strumento a fiato che a sua volta risponde e prosegue nel fraseggio. Durante il concerto Bianchetti ci stupisce suonando anche la batteria e mostrando la stessa maestria appena esibita alla chitarra: seduto dietro le percussioni continua comunque a colorare splendidamente il sassofono di Tonolo, che esplode in parti davvero d’effetto.

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Recensione: Il manuale del cacciatore di fantasmi – Ghost Hunters Team

Il manuale del cacciatore di fantasmi (pagg. 258, euro 17,00) edito da Mursia e realizzato dal Ghost Hunters Team, il più famoso gruppo di cacciatori di fantasmi italiani, è un vero e proprio viaggio nel mondo oscuro delle ombre. Si propone a tratti come vademecum esaustivo per appassionati e a tratti come approfondimento e racconto di diverse esperienze del Team: questo manuale è adatto a tutti, sia all’esperto che al neofita e, proprio per questo, riesce a divertire e allo stesso tempo ad appassionare nella lettura senza risultare noioso.
Il Ghost Hunters Team, divenuto popolare anche grazie alla trasmissione Mistero in onda su Italia 1, nasce nel 2009 con l’obiettivo di documentare, analizzare ed interpretare i fenomeni paranormali, e decide in questo volume di raccontarsi con sincerità e precisione toccando tutte le tappe fondamentali della sua vita e soprattutto della sua ricerca.
Nel manuale, corredato di foto in bianco e nero (e una parte centrale che documenta le indagini più note), troviamo varie sezioni dedicate ai diversi tipi di apparizioni, tra cui fantasmi, poltergeist, fuochi fatui, tulpas, demoni e possessioni, e anche alcune pagine che trattano le dinamiche, i metodi e le attrezzature per “catturarli”: questa parte in particolare è realizzata con precisione e va dai sistemi di videosorveglianza alle termocamere, fino ad arrivare ai rilevatori di campi elettromagnetici. Il GHT decide anche di fornirci alcune informazioni su come scovare fotomontaggi e vari falsi: si parte dalle truffe dei primi medium, fino ad arrivare alle manipolazioni fotografiche tramite programmi tipo Photoshop e oltre; questa sezione risulta valida anche per proteggerci dalle mistificazioni del settore internet, dove da sempre circolano bufale di livello colossale.
Per conoscere meglio i membri del Team abbiamo inoltre le biografie dei protagonisti e i racconti delle indagini più interessanti narrate in prima persona e in modo molto suggestivo: queste possono essere lette quasi come brevi racconti horror e sono fonte sicura di inquietudine, soprattutto le ricerche che riguardano le zone colpite dalla Prima Guerra Mondiale nelle gallerie di Ardena, vicino a Varese, e la storia che riguarda il castello di Trezzo sull’Adda.
Non manca inoltre una sezione intera sulle interpretazioni alternative e sui vari tentativi di spiegazione: qui il percorso si basa su esperienze note a livello internazionale ma comunque interessanti.
Molto azzeccata infine l’idea di far scrivere la prefazione a Federico Zampaglione, cantante dei Tiromancino ma anche regista horror di successo: ne risultano alcune pagine davvero ben riuscite ed interessanti che sono un ottimo antipasto per stuzzicare il lettore.
In conclusione de Il manuale del cacciatore di fantasmi stupiscono soprattutto la precisione e il vago sapore scientifico con cui sono organizzate le varie sezioni, in particolare la parte che riguarda i sistemi di sorveglianza e l’analisi dei fenomeni: dal punto di vista tecnico quello che viene utilizzato è spiegato in modo davvero particolareggiato, quasi fosse il funzionamento di un computer speciale.
Come in ogni indagine, libro o trasmissione sul paranormale che si rispetti si va in cerca di risposte ma molto spesso non si ricavano che spiegazioni non definitive se non ulteriori domande: in questi capitoli il Team non vuole darci una soluzione certa a problemi millenari, piuttosto fornirci le basi per poter fare un minimo di chiarezza su alcuni campi e allontanare la paura di quello che normalmente ci spaventa perché forse non conosciamo fino in fondo. In questo senso sapere e conoscere di più ci mette quasi in una posizione privilegiata rispetto all’ignoto.

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Tre libri per il 2013

Luci ovunque, atmosfera di festa e brusio assordante per le strade della città: ok, anche quest’anno il Natale con tutto il suo carico di buoni sentimenti e regali è passato. Per chi starà chiuso in casa a proteggersi dal freddo o da parenti troppo invadenti, ecco la mia personalissima scelta di gialli da leggere in questo inizio 2013. Vi consiglio di staccare il telefono, non si sa mai che qualcuno riesca comunque a raggiungervi, e di mettere sul fuoco un bollitore capiente per preparare un tè o una tisana da sorseggiare durante la lettura.
Cominciamo con il classico Polillo di Natale: questa volta si tratta di Delitti Impossibili, un’antologia che contiene ben nove racconti scritti tra il 1929 e il 1954, tra cui Il gentiluomo di Parigi (1950) di John Dickson Carr, difficilmente reperibile, e Nella casa delle tenebre (1935) di Ellery Queen. Come potete facilmente immaginare dal titolo, i temi principali di questa raccolta sono il delitto in una camera chiusa o in luoghi improbabili, la sparizione inspiegabile di oggetti importanti e mille altre diavolerie che la ragione non riesce a spiegare.
Il secondo libro che vi consiglio è lo speciale Giallo Mondadori uscito in edicola all’inizio di dicembre, Veleni Letali: anche questa volta abbiamo un romanzo di John Dickson Carr, Piazza Pulita (1932), un classico di Hillary Waugh, Veleno in famiglia (1966), e un racconto di Anthony Berkeley, Il barattolo sbagliato (1940). Il 2012 è stato sicuramente un anno ricchissimo per i fan di John Dickson Carr: oltre a Piazza Pulita e a Il gentiluomo di Parigi sono usciti in edicola anche La fiamma e la morte (1957) (I classici del giallo Mondadori di novembre) e …Ma il terrore rimane (1956) (I classici del giallo Mondadori di aprile). Chiunque leggesse solo ora questa notizia e fosse interessato all’acquisto, può sempre richiedere l’arretrato direttamente al servizio clienti: ci vuole normalmente un po’ di tempo ma riuscirete ad avere il vostro volume!
Il terzo libro che vi propongo è qualcosa di completamente diverso e di più attuale, Il canto delle sirene (1995) di Val McDermid. Uscito negli anni ’90 in Inghilterra sulla scia de Il silenzio degli innocenti, è stato pubblicato in Italia solo nel 2012 da Fanucci nella nuova collana Time Crime. Il protagonista, il profiler Tony Hill, si trova di fronte un serial killer diverso dal solito. L’autrice è riuscita a creare una trama avvincente, caratterizzata da una tensione che non scende mai e da un continuo alternarsi di colpi di scena. Geniale l’idea di dedicare capitoli interi ai pensieri e alle azioni del killer così da poterlo conoscere da vicino, cosa che rende la narrazione maledettamente reale, macabra e distorta.
Detto questo vi auguro buon anno e soprattutto.. Buona lettura!

L’antologia Delitti Impossibili (Polillo Editore, 15,40 €) contiene:
Il macellaio sghignazzante di Fredric Brown (1948)
Il gentiluomo di Parigi di John Dickson Carr (1950)
Sotto il mare di Joseph Commings (1953)
Il diario della morte di Marten Cumberland (1929)
Delitto in funivia di Peter Godfrey (1954)
Nella casa delle tenebre di Ellery Queen (1935)
Gli spezzasti il cuore di Craig Rice (1950)
La boccia avvelenata di Forrest Rosaire (1939)
Al di là di Hake Talbot (1940)

Veleni letali (Il Giallo Mondadori, 5,50 €):
Piazza Pulita di John Dickson Carr (1932)
Veleno in famiglia di Hillary Waugh (1966)
Il barattolo sbagliato di Anthony Berkeley (1940)

Il canto delle sirene di Val McDermid (Fanucci Editore, 10 €) (1995)

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