Non capisco molte cose (ma alcune più di altre)

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Ci sono molte cose che non capisco: perché ci si ostini a complicare situazioni semplici e piacevoli, perché molte donne indossino pantaloni stretti alla caviglia e scarpe con tacco alto senza accorgersi dell’inevitabile effetto zampetto-di-maiale, perché gli uomini non si facciano tutti crescere la barba, che rende virili, occulta le rughe ed evita mattutine e affrettate rasature; e poi, perché il semi-labrador abbia una spiccata predilezione per la pappa dei gatti randagi e per l’acqua che ristagna nei sottovasi, perché il simpatico ex-ottuagenario si finga malato quando è sano e ragionevolmente robusto, perché tutti si lamentino della tv continuando poi a sorbirsi Le Iene ed altre amenità simili. Perché esistono i ristoranti a menu fisso, perché il carrello del super è sempre troppo profondo e per afferrare il vasetto di capperi sul fondo devo saltarci dentro o chiedere aiuto a qualcuno? Ma soprattutto, perché Watanabe si è sentito in dovere di giurare amore e fedeltà a Naoko? Solo per aver fatto l’amore con lei (‘per calmarla’, poi, afferma Murakami, frase che regolarmente mi spiazza)? E perché, in Porci con le ali, Antonia decide di lasciare Rocco, passando poi metà del libro a righiare contro di lui, che intanto frigna a più non posso? Non sembra anche a voi una decisione quantomeno pretestuosa? Forse il mio desiderio di realismo, applicato a libri telefilm film, è piuttosto fuori luogo, ma davvero non capisco.

Tra le cose che per ora mi sfuggono, c’è il fatto che molti affermino di aver letto con piacere La forza del destino di Marco Vichi. Raramente un libro mi ha amareggiato e infastidito di più. Neanche la Mazzantini, che pure non ci scherza, non è arrivata a tanto. Un giallo (?) per presunzione giuridica, in cui dall’inizio si conoscono colpevoli, movente, ogni squallido o pruriginoso dettaglio dell’efferato omicidio; un romanzo che probabilmente non è altro che il prolisso seguito dell’osannato Morte a Firenze: una quadratura del cerchio in cui, con una morale che trovo ributtante (il termine giusto penso sia ‘fascista’), il protagonista assurge al ruolo di angelo vendicatore e stermina i colpevoli tra le ovazioni dei personaggi di contorno. Il libro è noioso oltre ogni dire – il commissario Bordelli non fa altro che preparare pasti frugali, leggere davanti al camino e fare lunghe passeggiate -, ci sono episodi assurdi o inutili – e vabbe’, Vichi, abbiamo capito che ti piace ascoltarti, ma che c’entravano i racconti dei cinque uomini a tavola per il compleanno del protagonista? -, un cane appare e poi scompare senza un motivo apparente; ma soprattutto, il romanzo è privo di storia, di sviluppo, di conflitti, in sostanza, di trama: deciso a farsi giustizia da solo, Bordelli mette in atto il suo piano. Nessun errore, nessun pericolo corso, nessun rischio, neanche un briciolo di suspence. Praticamente, basta leggere le prime dieci pagine.
Ho detto spesso che criticare qualcuno, specialmente uno scrittore, può essere un atto vile e, diciamolo, stronzo: c’è molto di autobiografico in ogni libro, ci sono impegno e coraggio e determinazione e paura di fallire, e speranza e voglia di farcela. Ma in questo caso ho deciso di proseguire, in deroga ai miei principi: e non solo perché si tratta di un libro brutto, ma perché la morale del farsi giustizia da sé è quanto di più aberrante e disgustoso una società possa produrre.

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