Palermo libera tutti?

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Quando ero ragazzina, adoravo la festa di Liberazione. Mi sembrava che, rispetto alla festa dell’Unità, dove sono stata portata da sempre – da qualche parte a casa mia c’è una deliziosa foto di me in passeggino, con l’adesivo quadrato rosso appeso accanto alla testa e un’espressione soddisfatta e di sinistra –, aleggiasse tra gli stand un sentore palpabile di trasgressione. Come se bandiere e area dibattiti, palco e bancarelle, spazio ristoro e megafoni fossero più duri e puri degli omonimi sbiaditi di quella che adesso si chiama Festa Democratica; come se tutti inalberassero un’espressione da vedrò-presto-il-sol-dell’avvenir, o qualcosa di simile. Aspettavo per mesi che arrivasse luglio per andare ogni sera – ogni sera! – a bearmi della musica, a spulciare gli stand, a bere birra a poco prezzo, a sentirmi alternativa e comunista. C’erano bei concerti, a quei tempi; gli Amici di Roland, ad esempio, che facevano manga-punk quando ancora non era di moda, e che mi hanno fatto saltare e pogare nella polvere della colonia della Favorita fino a che una gomitata allo zigomo non mi ha messa k.o. impedendomi di chiudere l’occhio sinistro per alcuni giorni. E poi Max Gazzè che cantava Favola di Adamo ed Eva, che continua ad essere una delle mie canzoni preferite, e tanti altri, fino ai Modena City Ramblers, che però, senza Cisco, si sa, non. Quest’anno, quando mi è stato annunciato che avremmo preso anche noi – casa editrice piccolamacarina – uno stand alla festa di Liberazione, mi sono sentita emozionata e trepidante, con un animo simile a quello della me sedicenne scema che andava con l’autobus e supplicava per un passaggio al ritorno. Ho messo da parte tutte le considerazioni razionali che mi avrebbero dovuto fare considerare l’impresa – dieci giorni a turno a gestire un gazebo zeppo di libri magliette borse e agendine – più che altro una seccatura e una complicazione (turni da equilibrare, buchi da coprire, persone da blandire o minacciare per evitare di restare piantata lì per ore senza poter mangiare o fare pipì) per visualizzare solo la parte migliore dell’esperienza. Già mi vedevo seduta dietro uno dei tavoli a cavalletti, con la pancia piena di patatine fritte e panini con la porchetta, ad ascoltare buona musica e conversare con compagni vestiti da sessantottini glamour. Il primo dei miei turni, sfumato causa acquazzone e conseguente fusione del gruppo elettrogeno, era stato piuttosto deludente; ma ieri, mentre attraversavo a piedi il Giardino Inglese, il cuore mi batteva pateticamente forte. La delusione è stata, come sempre, proporzionale all’aspettativa: della festa che ricordavo io non c’era traccia. Oltre a un nugolo di stand e gazebo pieni di paccottiglia varia (bigiotteria fatta a mano come va tanto di moda oggi, degli elicotteri telecomandati che ci hanno fatto ridere per tutta la sera, dolciumi e caramelle assortiti, birra forst a due euro), a uno spazio dibattiti semi-vuoto e a un’area-proiezioni di assoluto squallore non c’era molto altro. Nessuno a chiedere spiccioli e distribuire adesivi-ricordo, neanche un banco con la porchetta, un concerto tristissimo di giovani emuli delle Vibrazioni. Il colpo di grazia mi è stato inferto quando, ormai stanca e scoraggiata, tentavo di chiudere i ganci delle paratie in plastica per abbandonare lo stand al suo triste destino; qualcuno, dall’area in cui si vendeva la birra, ha deciso di metter su della musica: ma non gli Inti Illimani, come un tempo, bensì un cd, appositamente preparato, di musica trash. Una sequela di Gioca Jouer e La notte vola e Disco bambina e Cicale da far rabbrividire; canzoni che dieci anni fa venivano proposte nelle discoteche per giovani che si sentivano colti e di sinistra e che oggi vengono ascoltate solo da adolescenti truzzi con i capelli piastrati e il ciuffo sulla fronte. Che tristezza.

Per mitigare il senso di squallore provato ieri sera – e che proverò di nuovo domani, per l’ultima triste giornata di festa – sono stata costretta a comprare un libro: Exit di Alicia Giménez-Bartlett, autrice a cui sono molto affezionata. L’ho richiesto al mio libraio di fiducia, con un brivido: sembra che sia il suo miglior libro, e già fremo.

 

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