1 – Riassumi in due righe (al massimo) il contenuto del tuo romanzo.
In un mondo dove si sono sviluppate solo la meccanica e la carpenteria, i commerci sono affidati a giganteschi bastimenti a ruote governati da decine di uomini. La “Robredo” è uno di questi, il più sinistro di tutti… Le due righe sono finite, vero?
2 – Descrivi il personaggio di questo romanzo per te più importante.
Se dovessi fare un riferimento teatrale direi che l’intero spettacolo ruota essenzialmente attorno alle perfomance di un solo attore, la “Robredo” appunto. Come recita il booktrailer che ne è stato ricavato, il vascello è al contempo “macchina, creatura senziente e stomaco vorace”. Mi piace riferirmi alla Robredo come a una “lei”, anche se tecnicamente sarebbe più corretto dire che si tratta di un essere ermafrodita. Immaginate un Hal 9000 ante litteram, ruote dentate e pulegge al posto del moderno hardware, ruggine al posto del silicio. Stomaco al posto di un cervello sopraffino. Fame al posto delle idee…
3 – Quale legame c’è tra questa storia e l’attualità italiana?
Sarebbe un po’ pretenzioso e fuorviante trovarle un legame a tutti i costi. Perché, al contrario, la storia è una fuga. Fuga con ritorno. Nel senso che ho immaginato che cosa potesse essere la paura – quella che ti fa davvero accapponare la pelle – in un contesto ambientale dove non esistono né l’elettricità né la classica torcia a batterie che si scarica proprio sul più bello, mentre stai attraversando una galleria buia. Ma anche senza tutti quei gingilli tecnologici che accompagnano le nostre giornate. Insomma, la paura prodotta dal suono dei tuoi passi, dai rumori di un ingranaggio che gira, dal ticchettio della pioggia, dallo splash del guano degli uccelli che si abbatte sul pavimento. E il ritorno? Beh, sta nel fatto che di fronte a ciò che ci spaventa si tende a ricadere nel solito refrain: abbiamo paura di quello che non conosciamo. Per noi, persone abituate a vivere con lo smartphone in tasca, il terrore è tutto nel non poter fare una chiamata per chiedere aiuto…
4 – Qual è l’atteggiamento migliore che il lettore può assumere prima di cominciarne la lettura?
Fare un respiro profondo e buttarsi a corpo morto. Entrare a piedi scalzi nella Robredo e aspettare che – a seconda della luce che filtra dall’alto – gli occhi si abituino all’oscurità o riescano a sopportare i riflessi accecanti del guano che ne ricopre il pavimento come neve.
5 – In riferimento al romanzo nella sua complessità, in cosa ti riconosci e in cosa, invece, non ti riconosci?
La paura di cui trattano “Cardanica” e “Robredo” è un sentimento nel quale credo che ognuno possa riconoscersi senza distinzioni. E’ il panico al calor bianco, che arriva al culmine di una lunga escalation, uno stillicidio di disagio, inquietudine, ansia, tormento… In cosa, invece, non mi riconosco? Ho messo di fronte alla “Robredo” personaggi molto diversi tra loro: uomini rudi abituati a sfidare i pericoli, un padre che nonostante la malattia non si dà per vinto e farebbe di tutto per difendere il figlio, un bambino squassato da eventi molto più grandi di lui e incapace di venire a capo del senso di vuoto che lo sta soffocando. Mi riconosco in tutti e non ne disconosco nessuno…
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