Gianluca Wayne Palazzo e l’amoralità della scrittura

Ci sono libri e libri. In alcuni è facile trovarci un lieto fine, e vendono tantissimo. In altri invece non c’è, e finiscono tra gli scaffali delle librerie di nicchia. Chiedersi il perché è normale, e la risposta alla fine è scontata: il lieto fine consola il lettore, lo accarezza, lo coccola, gli fornisce un momento di relax e di evasione che rende la vita più sopportabile. Provate ad entrare in libreria sotto Natale (il periodo più triste dell’anno) e sarete inondati da storielle smielate già alla terza edizione. Miele a palate che vi coprirà dalla testa ai piedi.

Permettete una polemica?
Sono stufa di entrare in libreria e di vedere sempre gli stessi libri mandati in stampa dalle stesse case editrici. Sono stufa, ma non parlo per per invidia o frustrazione, parlo perchè conosco il meccanismo con cui si lancia un autore. Si prende uno bravo, uno che sa scrivere, e poi lo si obbliga a buttar giù una vaccata che però ha grandi potenzialità commerciali. Il risultato? Il libro vende tantissimo e l’autore viene trattato dalla critica come un coglione. Un coglione che ha fatto i soldi ma pur sempre un coglione.

Perchè dico tutto questo? Perchè Gianluca Wayne Palazzo non è un coglione. E’ un pazzo, ma così pazzo da avere scritto un primo romanzo dove la cattiveria, la falsità, l’amoralità del protagonista la fa da padrone.

Fate uno sforzo e recuperate “Il contrario di tutto“, romanzo d’esordio uscito per le Edizioni Voras nel 2009. Vi troverete faccia a faccia col giovane professore Carlo Antonino, protagonista del libro. Un uomo vigliacco, frustrato, un essere meschino roso dall’invidia, ma una invidia tanto forte che alla fine hai paura che sia pure contagiosa, e allora devi chiudere il libro, contare fino a 10, e poi ricominciare. Perchè questo è forse il miglior romanzo d’esordio che ho letto negli ultimi 10 anni, ma è un romanzo difficile, che brucia, che graffia.

Il contrario di tutto è un romanzo che parla di un gran pezzo di merda, uno che vorremmo prendere in simpatia ma non ci riusciamo, e l’autore stesso non ce ne offre l’opportunità, rinunciando alla classica redenzione del protagonista. No, qui non c’è un lieto fine, e di conseguenza non c’è un potenziale commerciale tanto caro ai grandi editori. Perché – lo ripeto – il lieto fine fa vendere più copie e qui manca. C’è solo una grande storia, un intreccio perfetto, e un protagonista che, nel bene e nel male, non dimenticherete tanto presto. C’è un autore che promette di darci tantissimo, se non si farà abbindolare da qualche imbonitore da Buchmesse, e c’è una casa editrice coraggiosa, la Voras, che sta facendo cose belle.

About Cristiana

Cristiana Danila Formetta è nata a Salerno nel 1972. Scrittrice e blogger, negli Stati Uniti ha pubblicato per la Cleis Press e per Pretty Things. In Italia, ha pubblicato per Addictions e Coniglio Editore. Suoi racconti sono stati pubblicati su diverse riviste, tra cui il magazine Blue e GQ Italia. Il suo ultimo libro è FETISH SEX (edizioni "L'Orecchio di Van Gogh")
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2 Responses to Gianluca Wayne Palazzo e l’amoralità della scrittura

  1. Alessio says:

    sono d’accordo. è difficile trovare dei libri che non siano finiti sugli scaffali per la voracità degli editori-imbonitori. ma mi domando se una cosa del genere sia mai davvero capitata. se la lettaratura vuole essere specchio della realtà un happy end è proprio ciò che le persone chiedono. penso che in italia ci siano cattivi lettori invogliati da pessimi editori che non cercano e non osano. quello su cui non sono d’accordo è cercare il contrario a tutti i costi, il contrario di quello che un lettore medio chiede. in fondo la letteratura è una forma di svago e c’è modo e modo in cui un lieto fine chiude un libro, penso a un “54″ per esempio…

  2. Cristiana says:

    Una precisazione, io scrivo libri medi per il lettore medio, tuttavia non penso che l’happy end sia specchio della realtà. Invece sono d’accordo con te quando dici che la letteratura è una forma di evasione. Quando un sogno è ben confezionato, con una trama che regge, dialoghi ben costruiti, personaggi credibili, ecc. per me è alta letteratura, me ne fotto se stiamo parlando di Henry Miller o di Ammaniti (che venero come un Buddha). Poi se fornisce anche spunti di riflessione per il lettore, tanto meglio.
    Se per cercare “il contrario di quello che un lettore medio chiede” ti riferisci alla politica di alcuni editori che pubblicano libri fuori da ogni target al fine di farsi dire da quei 4 o 5 amici che sono gli unici a tenere alto il vessillo degli intellettuali in Italia, sono cazzi loro. Il problema è che qui in Italia la figura dell’editore indipendente è ancorata al principio del “pubblico solo quello che piace a me, e me ne frego se questo libro lo capiscono solo in dieci”. Ma sono andata fuori tema. Il libro di Palazzo è cattivissimo, ma è scritto con un linguaggio semplice semplice, che ricorda appunto quello di Ammaniti ma senza copiarne lo stile. E’ un buon punto di partenza per educare il lettore a convivere con la meschinità dell’essere umano. Perché la lotta non è la sola risposta, in certi casi è più facile trovare un accordo.

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