templare

-    Buon giorno Sir Gawain dormito bene?
-    No, mio fedele Sfunciuni, questi incubi mi perseguitano
-    Vedo che non si è ancora fatto la barba
-    Ho atteso in effetti
-    Allora le poso qui la colazione, è meglio se si rasa prima di mangiare, sa bene anche lei che viene meglio. Dove lo cerchiamo oggi il Graal?
-    Che tempo fa fuori?
-    Piove
-    Allora oggi lo cerchiamo in garage
-    Ma Signore, mi permetto di ricordarle che in garage ci abbiamo già guardato
-    Non sul soppalco mio caro Sfunciuni, non sul soppalco
-    Ma Signore, là ci sono solo fumetti
-    E chi lo sa? Chi lo può affermare con certezza mio fedele servitore?
-    Vuole prima farsi la barba e la colazione gliela riporto dopo? Il caffellatte si fredda.
-    La barba, Sfunciuni, la barba. Hai idea di cosa significhi farsi la barba?
-    Sì, mio Signore, me la faccio ogni mattina
-    No tu non lo sai caro Sfunciuni, la tua mente è troppo semplice per comprendere cosa realmente significhi farsi la barba
-    Non mi pare cosa complicata signore. Si tratta di eliminare quei peli per avere un migliore aspetto
-    Usi quello elettrico?
-    Un bilama, Signore
-    Ah, bravo. Pure io uso le lamette. L’elettrico mi irrita la pelle. E oggi, caro Sfunciuni, mi devo ancora fare la barba.
-    Come le dicevo, Signore, posso anche tornare più tardi. Il caffellatte alla peggio lo riscaldo nel microonde.
-    Tu non capisci mio povero Sfunciuni
-    Lei insiste così tanto Signore che ora credo davvero di non capire
-    La barba, Sfunciuni, tu agiti la bomboletta per pelli sensibili e poi premi il tasto e scarichi una noce di schiuma sulla punta delle dita della mano sinistra. La faccia l’hai già bagnata con l’acqua calda. Stendi la schiuma e ti guardi nello specchio. Tutte le luci sono accese per non lasciare scampo a nessun pelo. Perché la rasatura sia perfetta e la pelle poi risulti liscia liscia per il piacere delle dame quando affondi la faccia tra le loro mammelle. Ti guardi nello specchio e nulla è ancora compiuto. La schiuma ti ricopre le guance e il mento e il collo e hai questa aria da Babbo Natale anche in piena estate. L’ultima volta, ieri, ho esitato. Ho alzato il rasoio con timore. Per la prima volta ho avuto piena coscienza di quello che stavo facendo. Una completa resa al tempo. La barba cresce e noi la tagliamo. Non c’è quasi mai vera consapevolezza in questo. Vogliamo tornare belli mentre i peli vorrebbero indicare la nostra trascuratezza. È un rituale alla Sisifo. Meno faticoso certo. Molto meno faticoso. Mi segui Sfunciuni?
-    Non ne sono sicuro mio Signore
-    Hai una mente bambina Sfunciuni, mio fedele vecchio culattone. È tanto che non scopi?
-    No messere. Giusto ieri giù al capanno, dove ci troviamo con i compari a bere, Sigrfied ha portato un ragazzino di tredici anni. Due occhi celesti grandi grandi. Tenerissimo.
-    E te lo sei fatto Sfunciuni?
-    A me è toccato per terzo.
-    Ti è piaciuto?
-    Molto Signore, ma ora mi dica cosa devo fare della colazione, ormai il caffellatte è appena tiepido.
-    Non ti curare della colazione. La barba, una volta fatta è tutto finito, capisci?
-    No
-    La faccia è lustra, pulita, adatta a essere portata in pubblico. Sino al giorno dopo è finita. Fatta. Morta. Non ci devi più fare nulla dopo avere steso un velo di dopobarba. Quando hai finito ogni gesto è concluso, passato, trascorso. Per sempre. Lo capisci per sempre Sfunciuni?
-    Ma Signore, domani le toccherà rifarla
-    Non capisci Sfunciuni. Quell’attimo, quei momenti, non ci sono più. Quei peli spariscono nel lavandino e nelle fogne. Si perdono tra i ratti e la merda e i detersivi.
-    Non ci vedo nulla di male mio Signore. Ma lei è così strano oggi, si sente bene? Vuole che le chiami un medico?
-    Oh, Sfunciuni, sarebbe meglio un prete allora
-    Si sente così male?
-    È un dolore dell’anima. Una piena consapevolezza della verità
-    Nostro Signore, mi permetta, dice che la verità ci renderà liberi
-    La verità è la morte Sfunciuni. Tutto finisce.
-    Forse se ci fosse il sole lei non farebbe questi discorsi Sir Gawain
-    Mio vecchio culattone che faceva il ragazzino mentre ve lo inculavate?
-    Piangeva mio Signore
-    Anche le sue lacrime non sono per sempre
-    Diventerà certo uno di noi. Ci sono capanni ovunque nella foresta. È sicuro che allora oggi il Graal lo cerchiamo in garage?
-    Sì Sfunciuni, sul soppalco
-    E la colazione?
-    Passamela qua sul letto
-    Senza riscaldarla
-    Non discutere Sfunciuni
-    E la barba messere?
-    Me la faccio crescere, Sfunciuni, me la faccio crescere.

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croce

Sei tu che mi fai rabbia e nemmeno ti basta merda che dirti merda è un santo complimento alla faccia dell’olocausto. Hai idea di quanta voglia ho di bestemmiare per colpa tua? Timorato di Dio sono. E di bestemmie ora ne direi un rosario. Specialismi veneti evoluti che cazzo ne vuoi sapere? Tu che cazzo ne sai di come vanno le cose? Ormai mi basta che fiati, che sposti un bicchiere. Ormai basta che occupi spazio per darmi fastidio. Tu non sei protetta dalla legge. Tu non sei protetta da un cazzo. Te la senti la paura nella figa? Te la sei poi rasata come ti ho detto? Testa di figa. Quel fumetto. Cosa volevi? Resuscitare il mio interesse per il tuo acume?  Il mio interesse è sprofondato in Cina dove lo hanno cotto e mangiato con i serpenti. Fammi vedere la fica. Tira su. Che cazzo ci fai con le mutande addosso? Ma allora lo vuoi davvero che io faccia un colpo apoplettico per la rabbia e finisca all’inferno nel mio rosario di bestemmie merda che sei merda che sei merda che sei merda! Morto mi vuoi. Lo vedi in che stato sei? Non ti fai senso da sola? Lo vedi come ti sei ridotta? Vacca indiana. Culo ossuto. Ci infilerei il dito per piegarlo a uncino e strappartelo fuori tutto. Cazzo piangi? Fai schifo. Pulisciti quel naso da puttana. Lo hai preso il miele? Che hanno i lacci? Stretti troia? Passettini fai i tuoi passettini e vallo a prendere. Ti tagliano le caviglie? Fai i passettini che mi piace come lo muovi e come ti dondolano le tette. E fammela sentire chiara la voce quando piangi. Merda. Voglio il sonoro. Se non mi dai il sonoro ti schiaccio la testa nella porta del frigo. Così poi il cervello che ti salta fuori dalla nocciolina me lo metto direttamente su un ripiano. Lo sai che sto per rompere tutto. Tutto a pezzi e schegge da infilarti sottopelle. E a manciate nella figa. Mazzetti schiacciati e piantati dentro col martello di gomma grosso che poi te lo schianto nel culo. Ecco. Brava. Porta qua il miele e versami tutto il vasetto sul cazzo. Sull’inguine sui peli sul cazzo e sui coglioni. Bene. Fallo colare bene. Coprimelo tutto ecco. Adesso dammi il vasetto. Guarda che fine fa il vasetto. Cazzo salti? Ti ci vedi? Lo hai mai visto un vasetto contro il muro? Poi voglio vedere un po’ di rosso. Strisce rosse per terra come bava di lumaca. Dai tuoi piedi. Tagliati. Poi ci cammini sopra sai? Come? Non muovere la testa come una vacca dillo di sì. Brava, ecco, così. E ora basta. Leccalo. Piano piano e se me lo fai venire duro ti strappo la mascella a calci e te la pianto in gola come ho fatto con la bambina. Guardala là la bambolina con la testa rotta. Mi dovrò decidere a buttarla. Altro ritrovamento, altre indagini, altro terrore. Mi piaccio sai? Guarda i miei stivali. Ti piaccio con solo quelli addosso? Belli neri vero? Hanno la punta di ferro come quelli da lavoro. Ti piacciono? Quanti calci credi che mi serviranno per staccarti la mascella. Lecca piano. Pompinara. Lecca piano. Poi ti apro a metà. Continua. Sai che ho sonno? Ecco brava se piangi forte mi rilasso proprio. Continua così e vediamo se anche oggi arrivi a sera.

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tuo padre

All’inizio è tutto più facile quando tuo padre è lo spacciatore. Ne rubi poca per non dare nell’occhio. Maniche lunghe anche in estate. Qualcuno ci fa caso. Forse sa. Forse no. Tu non dici. Anzi. Dici che va tutto bene. E infatti va bene ma solo finché la quantità è modica. Poi tuo padre se ne potrebbe accorgere. E. Allora devi andare dai suoi colleghi. Che chiacchierano sempre troppo. E poi soldi. Che per quelli rimedi un appartamento. Dove la dai. Ma come ci rimani quando il cliente che suona è tuo padre?

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fai il bravo

Il Fast Food è davanti alla Banca e io li vedo quelli che escono dalla banca. Conosco il giro come lo conoscono tutti. Vedo le borse che portano in mano e so esattamente quali sono gonfie di soldi. Lo sanno tutti quali sono. I miei problemi psicologici sono quelli di un precario. Contratto a progetto. Il progetto è friggere hamburger e patatine. Con la cuffia. Soffro di eiaculazione precoce. Oppure non vengo mai e mi si smolla. Un cazzo precario insomma. Alla mia morosa piace bere. Aspirante alcolista nota. Una volta mi ha detto che sono impotente. Sono andato su Wikipedia a vedere di cosa si tratta scientificamente. Una questione psicologica appunto. Ho vent’anni ed escludo a priori altre patologie erettili. Comunque li vedevo quelli che uscivano dalla banca. E c’era una bella figa. Usciva il mercoledì. Sempre di mercoledì. La sua borsa era tra le più gonfie. Non conosco e non voglio capire certi meccanismi. Io dovessi riciclare i soldi li metterei in mano a uno che fa body building, karate, kung fu. La bionda invece aveva la pistola. Lo ha capito subito cosa volevo. Passamontagna d’estate non è normale. Ma. Lavoro di fronte e un minimo di precauzione per la faccia mi pareva necessaria. La pistola l’ho vista, calcio e canna, ma il mio pugno nel mento è arrivato prima. Stesa. Ho preso la borsa e ho cominciato a correre nell’assoluta libertà della legge inesistente. Avevo la bici in piazza e pedalando veloce son tornato a casa con quella. E la borsa appesa al manubrio. Pedalando veloce. Niente targa. Per due giorni non ho mangiato, non ho dormito e non ho risposto al telefono. L’ultima voce che usciva dalla segreteria telefonica era della mia morosa e diceva: scei fhuori dalha miha vitha. In ogni caso niente sirene e macchine bianco azzurre a circondare la casa. Un delitto perfetto. Ho aperto la borsa e in banconote da cinquecento ho contato un milione tondo di euro. Duemila banconote esatte. Avevo il mondo alle calcagna. Ma. Il mondo non sapeva chi ero. Siamo tanti. Con un passamontagna sei anonimo. E. Per la violenza in strada ci sono solo indifferenza e paura. Sicuramente la mia azione determinerà una svolta nel riciclaggio. Non so quale e non so quando. Che mi interessa? Mi sono licenziato dal Fast Food e ho comperato delle tele al Colorificio Sanmarinese. Tele grandi. Due metri per tre. Da portare sul portabagagli della Uno con l’elastico. E ho comperato cinquanta barattoli di tempera acrilica nera. Per dipingere adopero una forchetta. Ne ho fatti un centinaio di quadri neri e da tempo in chat conoscevo Ibiza con cui facevo sesso virtuale. Le ho parlato dei miei quadri e lei ha parlato del fatto che conosce un critico d’arte. Scopano sul serio loro. Ho conosciuto sia Ibiza che si chiama Irene e il critico che è venuto con lei a casa mia. Insomma. I quadri neri sono diventati famosi. Io sono diventato famoso. Ho fatto una scultura con la mia prima forchetta e l’hanno venduta per ottomila euro. La vecchia morosa vorrebbe tornare con me e mi lascia biascicanti messaggi in segreteria. Io voglio stare solo. Al massimo contattare Ibiza ogni tanto. Perché sinceramente. Mi pare tutta una follia di cui non ci ho capito un cazzo. Mio padre è morto. Mia madre ha sessanta anni e mi ha visto in tv. Mi ha detto che lei me lo ha sempre detto che a fare il bravo ci si guadagna. Sempre. E io me lo sento che sono stato bravo. Ma accumulo soldi più che posso. Ho ancora la bici e viaggio con la Uno e faccio vita ritirata. Artista autodidatta e tenebroso. Finché dura. Perché come dicevo. Mica può essere chiara la situazione se tutti i tuoi quadri sono neri.

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amore mio adorato

- Claudio mi ha mandato questa lettera, tieni leggila
- È bella come le altre?
- Sono preoccupata, leggila ad alta voce
- Se ti fa piacere
- Sì, ti prego
- Amore mio carissimo, mia amata Giulia, già dagli incipit delle mie lettere ti sarai resa conto che uso parole che, se fossi a casa, non mi sentiresti mai pronunciare. Eppure non c’è nessuna enfasi in esse, ora. È così che ti sento. È così che mi manchi. Comincio a temere che questa guerra non finirà mai. Quelli che i capi definiscono ribelli sono ormai metà della popolazione e tentare di tenerli sotto controllo con le armi mi pare sia diventata una impresa disperata e disperante. Sì. Almeno noi soldati la sentiamo così. Stando almeno alle parole che ci scambiamo tra commilitoni, io e Mario, sempre attenti a non farci sentire dai superiori. Come sai i nostri nemici hanno armato anche i bambini e non lo hanno certo fatto per intenerirci. Questi bambini sono abili, veloci, efficaci. Micidiali insomma ed è solo grazie all’intervento di Mario, che mi copriva, che uno di loro non mi ha piantato una palla in fronte l’altro ieri. Mario lo ha ucciso. Li uccidiamo. Personalmente ne ho uccisi già otto e il più piccolo avrà avuto si e no dieci anni. Dobbiamo farlo perché si tratta di noi o loro. Capisci? Riesci a capire? L’orrore che si delinea in queste nostre azioni di repressione e rastrellamento è una cosa a cui non possiamo permetterci di pensare troppo. Loro sono il nemico. La colpa è della gente che li ha armati. Non è nostra. Non posso pensare nemmeno per un istante che sia anche colpa nostra, ma penso che per me sia una fortuna non ricordare i sogni che faccio. Mario mi dice che la notte parlo e sono agitato. Eppure dormo. Ogni notte dormo. Mi sdraio e crollo e ora ti chiedo come stanno i nostri figli. Come va il grande a scuola? E il piccolo si sveglia ancora di notte? Mi manchi tanto davvero. Qui gli altri frequentano i bordelli, ma io e Mario con una puttana non ci andiamo. Per quanto mi riguarda non è questo che mi serve. Io voglio te. Mi manchi e ti penso. E a volte pensarti mi eccita tanto che mi devo soddisfare da solo. Per farlo penso alle volte che vengo in licenza. Sono già passati tre mesi dall’ultima. Penso a come aspettiamo con ansia che i bambini dormano per buttarci a letto. Io e te. L’ultima volta col vino è stata fantastica. Forse la notte sogno anche te. Sicuramente ti sogno. Ma non ricordo. Non ricordo nulla e credo che alla fine sia meglio così. Ora ancora non so quando ci potremo rivedere. Quando ti potrò riabbracciare e baciare. Uccidere è diventato normale. Certo un soldato sa che questo può fare parte dei suoi compiti. Eppure non pensavo che sarebbe diventata una cosa quotidiana. Una cosa a cui mi sarei abituato. Guardo i corpi stesi nella polvere o nelle stanze delle case che perquisiamo e non provo nulla. O noi o loro. Dopo una sparatoria da cui noi usciamo tutti senza un graffio ci capita di sorridere, a volte di ridere, soddisfatti. È questo il nostro lavoro adesso. Siamo una missione di pace. Portiamo la pace. Ci penso sempre perché come sai all’inizio temevo di non reggere. Di impazzire. Il volto di quel bambino sta impresso a fuoco nella mia corteccia cerebrale. È sbucato da dietro l’angolo. Era già pronto, ma ho premuto il grilletto per primo. Poi ho vomitato. Quante volte te l’ho raccontata questa scena? Nei dettagli. Partendo dall’inizio. Oppure solo il finale o per sommi capi. Solo accennandola. Con quel vomito ho buttato fuori qualcosa che prima avevo e che ora non ho più. Sento una piastra fredda al suo posto. Non so cosa fosse e non so cosa sia adesso. So solo che mi permette di andare avanti e di farti arrivare sul conto i soldi che ci servono a pagare il mutuo e a fare vivere decentemente i nostri figli, e te. Avessi terminato gli studi forse farei un altro lavoro. Ma questi sono ormai pensieri remoti. Amore mio adorato. Ora non so più cos’altro aggiungere anche se in realtà le parole non bastano mai. Le parole non possono riempire il vuoto che sento se non in piccola parte. Per il tempo che mi portano via mentre le scrivo. Vorrei essere lì. Con te. Adesso. Guardarti in faccia e tenerti la mano. Abbracciarti forte. Potrebbe tranquillamente passare un altro mese prima che io possa tornare in licenza. Forse due. I ribelli sono agguerriti e il nostro impegno è sempre più richiesto e urgente. Sono lontani insomma i giorni in cui ci si limitava a presidiare la caserma. Ti dico cose che sai. Te le ripeto perché farlo mi fa sentire in contatto con te. Ora usciamo in missione ogni giorno, anche due volte al giorno. Con me c’è sempre Mario. Con lui mi sento al sicuro. Lui mi protegge e mi copre le spalle. Stiamo parecchio assieme. Parliamo. Ridiamo. Sì. Troviamo la forza per ridere e anche questo non mi fa impazzire. Ecco. Ora suonano per il rancio.
A presto mia adorata.
Tuo Claudio
- Che dici?
- Ma Mario non è l’amico che gli hanno ammazzato il secondo giorno che stava là?
- Sì, lui

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la finestra

L’avevo intravista qualche volta mentre entrava nel cortile accanto. Sì era trasferita lì da poco. Da sola, pareva. Già la conoscevo. Di vista certo. Solo di vista. Alle casse del supermercato io mi mettevo sempre in fila dove la cassiera era lei. E. Quando non c’era. Quasi mi dispiaceva. Non poterla guardare sempre più da vicino. Zoomando in avanti mano a mano che i carrelli passavano oltre. Vedere sempre più distintamente i suoi occhi e le sue labbra. Poter sbirciare nella sua scollatura mentre passava i prodotti sul lettore ottico. Certo senza vedere nulla di particolare. Ma con estremo piacere per forme che mi appagavano profondamente. Da vicino cercavo di indovinare il suo profumo. Quando allungava il braccio per passarmi il bancomat. Mette il profumo sui polsi. Poi una sera mentre andavo a buttare la spazzatura ho girato la testa verso il gruppo di case dove abitava e, nella più vicina alla mia strada, si è accesa una luce. C’era lei. Dietro la finestra. Al telefono. È stato così che mi è venuta l’idea di cominciare a chiamarla. Per sentire la sua voce. Per provare anche questo piacere. Visto che il grazie buongiorno detto alla cassa non mi poteva certo bastare. Ma cosa mi poteva bastare? Nulla che fosse troppo poco. E tutto mi pareva troppo poco. Così una sera che già faceva buio mi sono addentrato nel suo cortile e ho spiato nome e cognome sul campanello. Il fatto che la casa fosse una bifamiliare mi ha facilitato il compito. Così con nome e cognome stampati in mente sono tornato a casa e ho cercato il numero sulle pagine bianche. Il nome della via corrispondeva. Ho esitato. L’ho annotato su un post-it e ho preso il cordless. Dal cassetto ho preso il binocolo e mi sono spostato alla finestra della cucina che dà proprio da quella parte. La luce da lei era già accesa. Ho fatto il codice per rendere il mio numero riservato e poi ho composto il suo numero. L’ho vista arrivare dentro al binocolo e alzare la cornetta. La vedevo bene. Non come alle casse, ma bene.
- Pronto – ha detto
E sono stato zitto.
- Pronto chi parla?
- …
- Chi è?
- …
- Pronto
- …
- Che scherzo del cazzo – ha detto e ha riattaccato
Dentro al binocolo l’ho vista fissare per qualche istante la cornetta e poi andarsene. Da quella sera l’ho chiamata ogni sera. E. La sua voce si è fatta via via sempre più allarmata. L’ultima volta, gridando, ha minacciato di denunciare il fatto alla polizia postale se non la smettevo. Questo mi ha spaventato. Ho smesso di chiamarla. A volte passavo davanti al cordless e mi fermavo a fissarlo. Indeciso e timoroso. Una volta ho composto il suo numero e poi ho posato il telefono. Da allora mi sono limitato a guardarla alle casse. Non osavo intavolare un discorso. Nemmeno commentare la temperatura o il tempo. Sono timido. Poi alla festa del quartiere stavo con un amico e la abbiamo incrociata. Stava assieme a una amica. Lui le conosceva e ci ha presentati.
- Ma io ti ho già visto – mi ha detto lei
- Al supermercato
- No, abiti vicino a casa mia
- Vero – ho detto io, cercando di ricordare se quando la chiamavo avessi mai fatto l’errore di tenere la luce accesa.
Ma lei ha sorriso. Così con la sua amica si è unita a noi e siamo andati a bere una birra che un poco ha sciolto la mia timidezza. Sorrideva. Mi sorrideva. Strano non mi avesse mai notato al supermercato se mi sorrideva a quel modo. Ci andavo anche due volte a settimana dopo che avevo smesso di chiamarla. Chiacchierando è venuto fuori che ci piaceva il cinema.
- Scambiatevi il numero – ha detto il mio amico notando quella reciproca simpatia
- Dammi il tuo che ti chiamo io – ha detto subito lei
Ero sorpreso. Molto. Le ho dato uno dei miei biglietti da visita. Quelli che ho disegnato io sottolineando il fatto che li avevo disegnati io.
- Carino – ha commentato
Da quella sera ogni sera ho passato del tempo alla finestra della cucina, col binocolo e il cordless vicini. Ad aspettare. Vedevo la sua luce accendersi e spegnersi. Poi una sera la luce si è accesa. Lei ha preso la cornetta e poco dopo il mio telefono ha squillato. Avevo il cuore in gola. Dopo la serata al cinema con lei ce ne sono state altre. Cinema e concerti. Un sacco di cose in comune.
- Come mai vivi sola in una casa così grande? – le ho chiesto una sera, fuori di casa sua, dopo che l’avevo riaccompagnata
- Non ho parenti. L’ultimo, il nonno, mi ha lasciato dei soldi che uniti agli altri mi ha permesso di comperarmi questa casa. Mi piace avere spazio.
- Pure io vivo solo
- Per te è diverso
- Perché?
- Lo sai che tempo fa mi telefonava un maniaco? -
Mi è saltato il cuore in gola, ma ho mascherato molto bene l’emozione che mi voleva contagiare la voce. Complice la poca luce dell’abitacolo non ha notato la mia espressione.
- Che faceva? Respirava? – le ho chiesto per dissimulare
- No nulla, chiamava e basta. Poi ha smesso. Ma uno di questi giorni faccio la denuncia e dai tabulati scopro chi era – ha detto seria
- E perché, se non ti chiama più?
- Magari starà infastidendo qualcun’altra
- Magari no
- Non lo so. Certa gente non si deve permettere. Certa gente non deve esistere
- Io lascerei perdere
- No. Chiamava ogni sera. Ero terrorizzata
- E perché non lo hai denunciato prima?
- Avevo paura. Ma ora ci sei tu – ha detto e mi ha baciato

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seguimi

Non lo so perché lo faccia, ma tuo marito guarda dentro il mio piatto. Mangia nel suo e guarda nel mio. La porzione che mi sono preso. Abbondante. Mi piace mangiare e mentre lo faccio lui mi parla del colesterolo e della glicemia. Sono due anni che non faccio le analisi. A me non importa. A lui sì. Me lo chiede e gli rispondo. Fa una faccia perplessa. Vuole essere allarmante. Ma io mi verso un bicchiere di rosso e tu mi chiedi di versarlo anche a te. Cafone che sono. Dovevo chiedertelo. Sorridi mentre alzi il bicchiere. Sorridi a me. Prima. E poi a lui di rimando. Dopo avere bevuto. Ma lui non lo nota nemmeno. Mi chiede da quanto tempo ho smesso di fare sport. È un anno esatto dico. Si vede dice lui. Sei ingrassato dice.
- Sì di quattro chili e mangio e bevo di più.
- Dovresti pensare di più a te stesso. Prenderti cura di te
- È quello che faccio, me la godo
E subito dopo averlo detto sento il tuo piede contro la mia gamba. Ti guardo e slacci un bottone della camicetta. Bianca. Non si vede nulla più di prima. Ma
- Che caldo – dici
Lui nemmeno ha visto quello che hai appena fatto. Non è geloso? Non lo so. Guarda me e continua con consigli e ammonizioni. È più in forma di me. Non ha un grammo di pancia. Ha i capelli e io no. Lui è più sano di me. Ma il tuo piede sale lungo la mia gamba, si ferma alla patta, e preme un poco. Ti guardo sorpreso. Tu sorridi. Togli il piede
- Vado a rifarmi il trucco – dici
Subito non capisco. Sono tardo.
- Anche io devo andare in bagno – dico poi a tuo marito
Dopo averti guardata da dietro mentre ti allontanavi dal tavolo.
- Così finisco la mia porzione e poi passiamo al secondo – dice lui che continuando a parlare sempre ha ancora mezza roba nel piatto.

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ahahahah

- Cosa ha da dire a sua discolpa?
- Nulla. L’origine è il dolore. Urla tua madre e urli tu. Io. Cerco rimedio. Parlo di me, che di voi, sinceramente, non mi frega un cazzo. Io. Adattamento continuo tra ciò che vorrei e ciò che è. Regole. Educazione e analgesici. Analgesici per il dolore. Il primo. Il mal di denti. Ho avuto un dentista nazi quando ero piccolo. L’anestesia fa più male del trapano diceva. E io. Urlavo. Urlavo. Urlavo. E lui trapanava e diceva ridendo che facevo scappare gli uccellini. Odio puro e distillato. Per lui. Camice bianco. Imprinting. Per il resto della vita. Per i camici bianchi. Credo. Io credo. E rido di quello che credo. Perché è poca cosa. Camici bianchi. Dolore. Ansia. Sospetto. Prevenzione. Prevenzione. Parola terribile e fondamentale. Quante cose ci sono da prevenire. Ma. riusciremo a prevenirle tutte? Ahahahahahah. No. E all’asilo ero in bagno e non mi sapevo pulire. Madre madre madre. Gridavo alle suore. Sì, rispondeva una voce di bimba. Madre madre madre. Gridavo. Suor Cinerina è entrata nel cesso, lei, voce di bimba, e prima di pulirmi il culo mi ha pestato. E. Ho pianto. Pianto. Pianto. Ma. È così. Che si. Cresce. E crescendo ho sviluppato l’odio. Indistinto. Per tutti. Ogni volta che una delle mie bombe fa una vittima io sono felice. Le preparo con tanta cura sapete? In modo che risultino anonime e accattivanti al tempo stesso. Poi le metto in posti insoliti. Isolati. Dove piazzarle è uno scherzo. Poi aspetto. A volte mesi. A volte giorni. Sono confezionate bene. Resistono a tutte le intemperie. Acqua, neve, gelo, sole. Non fanno nulla. E. Aspetto con ansia. Ho dalla mia gli analgesici. A volte qualche goccia di Valium. Lo so che la mia logica non è la vostra. Per voi sono malato. Ma dove mi sono malato? Sono nato malato? Come mai mi sono malato? Voi lo sapete?
- Ha altro da aggiungere?
- No
- Cosa si aspetta adesso?
- Spero tanto nella pena di morte

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- Sì
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nozze


Suona il campanello. Data l’ora sai che è lui. Ha le chiavi, ma gli piace farti correre ad aprire. Per quanto tu faccia presto lui a denti stretti ti chiede sempre cosa stessi facendo e qualsiasi cosa tu risponda subito arriva il primo schiaffo. In faccia.
- Che fai con quelle mani? Che credi di fare con quelle mani? Vuoi ripararti? Ti vuoi riparare? – dice sopra agli altri schiaffi mentre entra.
Spesso va così. Specie nel fine settimana. Il giorno peggiore è il venerdì. Non lo sai il perché. Poi arrivano i pugni e se cadi arrivano i calci. Cerchi di non cadere, ma se il pugno colpisce lo stomaco o il fegato il k.o. è sicuro. I calci non te li dà in faccia. Preferisce la pancia e la schiena. Al pronto soccorso con tre costole rotte hai detto che sei caduta dalle scale.
- Basta, basta, basta
Quando dici basta pare che lui si ecciti e picchi più forte. Così ora. Lasci uscire solo i lamenti. Hai detto che lo lasci. Una sera che non ti ha picchiata hai preso coraggio e glielo hai detto. Ha detto che se lo fai ti cerca, ti trova e ti uccide. Lo ha detto calmo. Con un tono che ti ha convinta. E hai paura. Sai che ne è capace. Ora ti sanguina il naso. Lui con te ha smesso e si è seduto a tavola. Tieni un fazzoletto sotto al naso e con l’altra mano lo servi. Poi vai in bagno e ti lavi la faccia. Ti guardi allo specchio. Non piangi. Controlli il naso. Lo sciacqui ancora con l’acqua fredda. Non sanguina più. Dalla tasca davanti dei jeans tiri fuori la cannuccia di biro tagliata a metà. Dalla tasca posteriore sinistra estrai la bustina. Apri la bustina e la appoggi sul bordo della vasca da bagno. Ti inginocchi e con la cannuccia sniffi. Un colpo per narice infilando la cannuccia nel mucchietto. Non frazioni più. Non fai più le righe. Infili la cannuccia nella polvere e tiri. Quasi subito ti senti meglio. Poi ti senti donna. Poi ti senti figa. Torni di là e sei pronta per la cena. Lui ti parla di una causa che ha vinto e del fatto che al negozio è arrivata la collezione autunnale. È calmo ora. Si è versato un bicchiere di rosso e poi un altro. Ti chiede come è andata in libreria. Le nozze sono fissate per marzo. La convivenza serve a capire quanto si sta bene insieme.

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