distanze

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La prima volta è capitato al telefono. Mi stavo giustificando dicendo che quella mattina ero preso male e che tu mi avevi frainteso. In effetti pure io avevo interpretato male il tuo rapporto epistolare con Marco. Ti avevo detto che lui aveva preso per buona la tua finzione e che questo ti parava il culo. Perché così con lui potevi permetterti di non uscire allo scoperto come invece ti costringevo a fare io. Che poi costringere, con una testa come la tua, è una parola grossa. Chi ti smuove mai? Così insomma, per rimettere le cose a posto, ti stavo dando la mia versione e per avvalorare il fatto che ero veramente preso male ho aggiunto che avevo mollato tutto quello che stavo facendo ed ero andato in piscina.
- A guardare i culi! – hai detto tu che eri per strada, alludendo a quello che ti avevo scritto su Skype.
- Che poi la gente si gira e guarda me – avevi aggiunto ansimando perché correvi per prendere il treno. – Una signora mi ha guardata male – hai detto sempre con un tono di voce alto per la corsa di fretta.
E io sono scoppiato a ridere. Sì certo. La cosa mi divertiva. Ma non era solo quello. Nella mia risata c’era anche una difesa. Sentire la tua voce che mi diceva che andavo in piscina a guardare i culi mi aveva leggermente spiazzato. Come mi fossi sentito nudo. Di colpo. Senza preavviso. Senza averlo chiesto. Come una sorta di piccola violenza. Mentre stavamo parlando d’altro mi avevi strappato le mutande e me le avevi buttate via. Senza vera intenzione e assolutamente senza malizia. Ma lasciandomi col culo di fuori. Come fosse normale. Ma non per me. Che di colpo mi sentivo a disagio e per dissimulare scoppiavo a ridere. Poi la discussione è continuata e la mia risata ti è passata inosservata. Ci stava benissimo nel flusso di parole. C’era anche il fatto della signora che si era girata. Non potevi minimamente sospettare che, una volta tanto, ero stato io a sentirmi in bilico sulla soglia. Quella soglia del pudore che sostengo di varcare con estrema facilità. Perché sono spontaneo. Perché dico tutto. Ai limiti della sfacciataggine, a volte. Una volta tanto ero stato io ad avere avuto bisogno di nascondermi. Ed ero stato abile. Non ci hai fatto caso. Ma. Ci ho fatto caso io. E questo mi ha incuriosito. Attirato. Per la maggior parte del tempo siamo così distanti. In due città diverse. E per i modi con cui comunichiamo la nostra intimità risulta spesso simulata. Quella intimità che io quasi pretendo e che tu rifuggi. Stavolta mi avevi messo all’angolo. La cosa mi sorprendeva.

La seconda volta è stata a quel concerto per pianoforte a casa di amici comuni. Abbiamo dovuto vestirci eleganti. Io in modo classico. Da pinguino, più o meno come tutti gli altri maschi. Tu in modo inaspettato. In decolleté. Che si vedevano le spalle nude. Eccitante per me che le poche altre volte che c’eravamo incontrati, complice l’inverno, ti avevo sempre vista in dolce vita. Così dopo il concerto ci siamo seduti accanto sul divano e abbiamo cominciato a parlare. Mi volevi dire di un nuovo libro che avevi appena scoperto e che ti stava tanto entusiasmando. Te ne avevo parlato otto anni prima. Te ne eri dimenticata. Poi ci hanno offerto lo champagne e immediatamente le tartine. Così abbiamo avuto la lingua occupata in altro. Per un po’.
- C’è una stanza con le pareti fuxia in questa casa – mi hai detto quasi sottovoce, rompendo il nostro silenzio.
- Fuxia? – ho ripetuto sorpreso.
- Velluto e broccati. Al piano di sopra – hai aggiunto.
Io ti ho guardata masticando ancora, io mastico tanto.
- Perché non mi chiedi di andarci? – hai detto guardando avanti.
Ho sentito un tuffo al cuore.
- È una camera – hai detto fissando il pianoforte a coda.
- Ci vedranno salire la scala assieme – ho detto io a mezza voce.
- Tu chiedimelo – hai risposto.
- Adesso? – ti ho chiesto stupidamente.
- Fallo! – hai detto girandoti verso di me.
E mi sono sentito morire.

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