‘Mamma…’ ‘Sì?’ ‘Tu gli vuoi bene a papà?’
Continuò a guardare la strada senza rispondermi. Non mi ha mai risposto, mai alle domande più importanti. Il mercoledì veniva l’assistente sociale, un uomo alto e con gliocchiali spessi. Scherzava con papà e beveva il caffè che gli preparava la mamma, per il resto non credo gli importasse molto di noi e di noi sapeva meno cose di quelle che avrebbe dovuto sapere.
‘Mamma…’ ‘Sì?’ ‘Allora,gli vuoi bene a papà?’ ‘Tu gliene vuoi?’ Mi chiese lei mentre parcheggiava la macchina nel vialetto, vicino al bidone dell’immondizia. ‘Io lo odio,’ risposi secco. Lei non disse niente.
(Giuseppe Merico, da “Io non sono esterno”)
Giuseppe Merico, da San Pietro Vernotico (Brindisi), classe ’74. Scrittore e responsabile del settore narrativa della rivista Argo, ha pubblicato “Dita amputate con fedi nuziali” (racconti, Giraldi, 2007) e “Io non sono esterno” (Castelvecchi, Febbraio 2011) e ha scritto per siti e riviste.
E tra il ’74 e il 2007 cosa hai fatto?
Eh, mica facile, sono 32 anni, Gesù Cristo in 32 anni ne ha fatte di cose tant’è che se ne parla ancora adesso, io durerò un po’ meno, solo fino a quando non vi stancherete di me oppure, ed è molto più probabile, quando io mi stancherò di voi. Cosa ho fatto? Sono stato bambino senza sapere di esserlo, poi sono stato bambino sapendo di esserlo, poi ancora sono stato un aspirante adulto che ha imparato a masturbarsi e la prima volta lo ha anche quasi gridato a tutti e poi credo di essere arrivato al porto dei trenta, passando per Bologna che mi ha accolto, o meglio ho fatto in modo che mi accogliesse, nessuna città ti accoglie, si è sempre in troppi e c’è sempre poco spazio, sono arrivato e ho detto, “io sono qui, provate a cacciarmi.” Ci hanno provato, ma senza alcun risultato. Nella domanda successiva ti dico quello che ho fatto dopo.
E cosa è successo tra il 2007 e il 2011.
Ho scritto.
“Io non sono esterno”. Perché e percome.
Perché non lo sono nel modo più assoluto, non lo sono io come non lo è il protagonista della storia, io perché sto quasi sempre nascosto dietro lo sterno, sai, tra le coste o ancora dietro gli occhi che posso aprire e chiudere a piacimento e il protagonista della storia che ho scritto perché così è andata la sua vita, almeno fino a un certo momento, ma non spingiamoci oltre, che i lettori lo scoprano da sé.
E’ la storia di una reclusione. Di abusi sessuali, violenza genitoriale e sentimenti ambivalenti che tagliano le figure dei protagonisti. I buoni che non sono mai buoni del tutto, e i cattivi anche. “Io non sono esterno” è la storia di chi?
Di una famiglia e di un modo di fare e ancora di una parte d’Italia nascosta che puoi trovare in televisione d’estate o sulle guide turistiche, quel Salento con il sole la spiaggia, gli scogli, il pescato, il lungo litorale, i due mari, e ci puoi aggiungere tutti gli stereotipi che vuoi. Il mio Salento invece è buio, è una terra che sprofonda nella sua cocciutaggine, nel suo desiderio di libertà o di possibile libertà che il mare le offre e che il resto d’Italia le nega. Questo in grande, ma il mio è un libro che parla di un piccolo, un piccolo uomo o un piccolo bambino che lotta o si arrende o fa quel che tutti facciamo infine, prende quello che gli viene e lo usa per diventare uomo. E’ la storia di una prigionia, di una doppia prigionia, quella di un bambino segregato nella cantina di casa e quella di suo padre che è legato a lui perché uomo di sangue laddove essere uomo di sangue vuol dire che è capace di uccidere e morire per il sangue di famiglia, un mafioso che cerca in superficie di portare avanti il suo lavoro di uomo che usa la forza per prevalere sugli altri, ma che dentro, o sotto, nella cantina di casa, con suo figlio è costretto a venire a patti con sé stesso fino a capire che tutto quello che ha fatto nella vita è sostanzialmente sbagliato e sarà proprio il prigioniero, il bambino, il figlio recluso a farglielo capire.
E chi vorresti che la leggesse.
I miei familiari, la mia professoressa del liceo, i miei amici che non vedo più e chi gli pare, chi lo vuole comperare.
“Ho cercato una via di mezzo che collocasse la mia narrazione tra una pulp story e una prosa intimista e realista”. Spiegaci.
E’ un romanzo duro con una prosa secca, violenta a tratti e da qui pulp, ma anche profonda nella misura in cui qualcuno e in questo caso il bambino tenuto prigioniero parla della sua vita, di quello che ha dentro e lo fa con l’ingenuità con la quale lo fanno i bambini, quindi intimista. Il realismo invece sta laddove si cerca di descrivere la realtà per quella che è usando metafore che invece di allontanarti, di portarti nel territorio dell’immaginazione, ti spingono a vederla ancor di più a vederla com’è quella realtà, ma ho qualche dubbio su questo, prova ad andare in un supermercato il sabato, ecco, quello è realismo, di quello parlo, niente voli a volte, solo tu che aspetti il tuo turno alla cassa.
Un romanzo che deve fare? Farti venire sete, fame o voglia di scopare? Consolare, intrattenere, farti il solletico? O cosa?
Farsi leggere e farti dimenticare che stai leggendo.
Definisciti.
Giuseppe Merico, 36 anni, un metro e ottantasei (circa), 75 Kg, aspirante essere umano.
T’importa della classificazione in genere dei romanzi?
Nella giusta misura.
Perché?
Possono essere utili se orientano il lettore, vengono usate dai critici e dagli addetti al settore, spesso sono specchietti per le allodole.
Perchè scrivi.
Perchè lo so fare potrebbe essere una risposta, ed è anche quella, in realtà perchè mi viene meglio spiegarmi con le parole scritte che con quelle parlate, troppa emozione, troppo cuore che trabocca e due, ma c’è anche una terza risposta, ho sofferto tanto, mi hanno fatto soffrire tanto se vogliamo metterla così, ma mentirei, ho fatto in modo che soffrissi tanto per la mia incapacità di comunicare e di farmi capire, o trovavo una strada o sarei morto. Ho trovato una strada.
Come lavori quando scrivi un romanzo.
Ho un’idea seminale, butto giù una pagina e mi accorgo che ne chiama un’altra, seguo, passami il termine, un certo “mood” che è il tema portante della storia, un certo sentire che voglio trasmettere. Il mio approccio è diventato più meticoloso adesso che sono al terzo romanzo, per ora voi avete in mano solo il primo, sono diventato più metodico e ho imparato ad usare alcune strategie che rimangono nascoste al lettore.
“Argo”, la rivista di cui ti occupi. Cosa ci si può leggere e dove la si trova.
In Argo mi occupo della narrativa, valuto i racconti che arrivano, invito gli scrittori a scrivere per noi, gestisco i concorsi che teniamo in estate, quelli riguardanti la prosa e faccio recensire i libri. Argo è una realtà complessa e radicata ormai nel territorio delle riviste indipendenti. E’ una rivista contemporanea, adesso ormai sempre più romanzo collettivo, in ogni numero scegliamo un tema d’interesse e attorno a questo tema si sviluppa un discorso che possa comprendere numerosi interventi di artisti, docenti universitari, scrittori, musicisti, giornalisti e altro. E’ una realtà mutevole, mai ferma per scelta ed è anche una voce libera sempre aperta a ogni tipo di contaminazione. La si trova in libreria all’incirca ogni sei mesi ed è edita da Cattedrale.
Che musica ascolti.
Indie Rock, Folk, Post Rock, New Wave, Dream Pop, Alt Rock, Dub, Hip Hop, Indietronica, Elettronica minimale, Shoegaze, Progressive, Trip Hop, Stoner e altro. Ho una collezione abbastanza vasta di cd.
Un autore o un libro che ami alla follia. Uno solo, non barare.
“Da dove sto chiamando” di Raymond Carver.
La prima cosa che hai scritto e che hai fatto leggere a qualcuno, e cosa ti hanno detto.
Un racconto dal titolo “Ezio”. Mi hanno detto che ero bravissimo.
Che stai leggendo.
2666 di Roberto Bolaño.
Che stai facendo.
Sto mettendo la parola fine a questa intervista. Fine.
bella intervista!