La classe operaia non va in paradiso: Acciaio

Nel 2010, mentre l’allora primo ministro negava i morsi della crisi e sproloquiava su “ristoranti sempre pieni”, Silvia Avallone esordiva con il romanzo “Acciaio”: “volevo che si parlasse del lavoro che sembrava dimenticato, non raccontato. La classe operaia l’avevo lì davanti, ma sembrava non esistesse più”. Non a caso, il romanzo fu un grande successo editoriale: mezzo milione di copie vendute, traduzioni in 18 lingue, numerosi premi tra cui il Campiello Opera Prima e un prestigioso secondo posto allo Strega.

Oggi, a due anni di distanza, in un contesto profondamente mutato, vede la luce l’adattamento cinematografico dell’opera, a firma del documentarista Stefano Mordini.

Durante la torrida estate 2001, nei palazzoni popolari di Piombino, le giovanissime Anna e Francesca, corpi in mutamento e cuori in subbuglio, si tengono strette per resistere a una realtà brutale e sconfortante, a un degrado che è l’unica forma di quotidianità che conoscono. Attorno a loro un orizzonte opprimente di povertà e abbandono, tanto fisico quanto affettivo: tra padri violenti e madri rassegnate, tra bollette da pagare e ordinarie frustrazioni, tra coetanei immaturi e adulti incapaci di ascoltare, sognare l’evasione verso un futuro felice e lontano (felice perché lontano) sembra essere l’unico modo per sopravvivere.

Su tutto incombe la grande fabbrica Lucchini (già Ilva), un colosso affacciato sul mare della cittadina toscana che domina totalmente la vita di chi la circonda. Un rapporto ambiguo di odio e amore (come ambigua è, del resto, ogni forma d’amore raccontata) lega ogni personaggio all’imponente acciaieria, a cominciare da Alessio, il protettivo fratello di Anna, che nella fabbrica riversa ogni speranza di riscatto e di felicità. Purtroppo però, alla fine, la classe operaia non va in paradiso.

Presentato alle Giornate degli Autori a Venezia 69, “Acciaio” si propone, senza polemiche né sensazionalismi, come l’onesto ritratto di una classe sociale spesso trascurata nel nostro recente passato. Classe (o contesto) sociale che, sembra dirci il film, influenza e definisce una condizione esistenziale. Mordini vuole tessere un legame forte tra la desolazione delle periferia proletaria di Piombino, tutta miseria e ruderi fatiscenti, e il vuoto interiore che minaccia sia il futuro delle protagoniste, sia il presente di Alessio e dei suoi coetanei.

Infatti il percorso di formazione di Anna e Francesca, lolite inquiete alle prese con paure, angosce e pulsioni sessuali, si accompagna alla documentazione della vita di fabbrica di Alessio, con turni duri, cassaintegrazione e qualche lavoretto “sporco” per arrotondare, approdando ad un’unica amara morale: la fabbrica uccide, metaforicamente e non.

Purtroppo, da questo punto di vista, il film non regge il confronto con la drammatica realtà che ogni giorno sentiamo riportata da stampa e tg, con le lotte sindacali e le cronache dei casi Ilva o Alcoa, e fallisce ogni ambizione sociologica, spesso eccedendo in toni fatalistici e morbosità pruriginose.

Mordini, indiscutibilmente, sa filmare corpi e luoghi (fotografia eccellente di Marco Onorato), ma i suoi personaggi, così ricchi e complessi nelle pagine della Avallone, restano sbiaditi e senza spessore nonostante le convincenti prove degli attori. Il difetto è tutto nella sceneggiatura firmata dal regista e da Giulia Calenda, con il contributo dell’autrice stessa, che non sviluppa e approfondisce la domanda più interessante, pregnante e dolorosamente attuale di tutto il film: perché il futuro deve essere sempre altrove, da un’altra parte?

Stefano Guerini Rocco

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