Boss: una grandissima serie per un canale in ascesa

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Eliminiamo subito due dubbi: il primo è che Boss tratta di un argomento assolutamente banale; mentre il secondo è che Boss è stato uno dei gioielli della stagione televisiva.

L’argomento sono le magagne politiche, lo sporco che si cela dietro una maschera all’apparenza pulita e rispettosa. Come detto, niente di originale. Da sempre la politica interessa cinema e tv e da sempre i politici ci sono stati descritti come cattivi, manipastati, manipolatori.. sicuramente dietro c’è una scelta produttiva riguardo l’interesse. Mi spiego: una serie o film che racconta di un politico buono non attrae spettatori. Una serie o film che tratta di politici corrotti invece sì. C’è una sorta di attrazione/interesse verso il male, ma soprattutto da sempre il pubblico/la gente crede e teme le dietrologie e i tranelli politici. Materiale fertile, per un pubblico fertile.

Ma cosa fa di Boss un piccolo capolavoro? Piccolo perchè dura appena otto episodi, e capolavoro perchè la sapienza di linguaggio filmico, la dosatura del ritmo, le soluzioni estetiche/descrittive, la scrittura di una trama a incastri complicatissima e soprattutto le interpretazioni sono ai massimi livelli. Il granello di sabbia piccolo, ma determinate che trasforma una serie banale in questa bellissima opera è la malattia del protagonista Tom Kane, sindaco di Chicago. Un nome che è tutto un programma: Tom ricorda quel Tony Soprano che vive fresco nella nostra memoria, e Kane è uno dei personaggi più famosi della storia del cinema. Quel Kane di Citizen Kane che ha segnato uno dei momenti di svolta della storia del cinema. Dicevamo della malattia, perchè la malattia è quel qualcosa che ci fa cambiare prospettiva su tutta la serie perchè noi vediamo un uomo di potere che lotta streanuamente per rafforzare la propria immagine pubblica, per nascondere la propria debolezza fisica. Un uomo abituato al potere e ad avere tutto sotto controllo, non può tenere sotto controllo una malattia degenerativa e incurabile, quindi si rifugia in quello che può controllare con più violenza e spietatezza di prima, alimentate da una frustrazione per l’incapacità di combattere un male che ti divora da dentro. E’ ovvio che questa specie di forbice che si crea non può che peggiorare: più la malttia avanza, più il sindaco Kane sarà spietato e bisognoso di sicurezza. Un divario tra dimensione pubblica e dimensione privata che non può che aumentare di puntata in puntata.

Bandito ogni sentimentalismo, ciò che resta è la pura forza di autoconservazione dell’individuo. Termini come moralità, etica, politica non sono presenti, e se la politica è un gioco sporco Boss non ha paura di sporcarsi le mani. La cura con cui ci descrive il meccanismo della macchina istituzionale è perfetto. Nessun giudizio, nessuna retorica. E’ così che vanno le cose. E allora i politici diventano marionette nelle mani del suo staff, le conferenze stampa diventato un luogo in cui il politico fa la sua parte e dice esattamente quello che vuole, la tv diventa uno strumento politico e la stampa in toto viene ridotta a semplice organo di un’informazione controllata. Tutto è strumentalizzato. Alla fine Kane vince, ma è una vittoria amara perchè ha dovuto sacrificare tutto e tutti, compreso il suo io privato, quello malato. Perchè oltre ai suoi collaboratori, una messa alla prova (fallita) e l’altro giustiziato perchè portatore di una verità (e di un buon senso) che Kane non riesce ad accettare e allora bisogna cancellarlo con tutta la forza possibile, per non vacillare. Oltra anche alla moglie, ricattata e costretta dopo aver scoperto tutti i suoi tentativi di tradimento, oltre a questi Kane perde anche la figlia, e la sacrifica consapevolmente. Una perdita violenta per noi spettatori, per come ci viene descritta. E una perdita grave per Kane perchè perdendo la figlia perde anche quel canale per avere le medicine “off the records” e di conseguenza perde contro la malattia. Una malattia che è simbolo del decadimento del personaggio, che non a caso ci viene presentato nel finale di stagione a casa, per terra, in preda alle convulsioni.

Boss non è una serie facile. Niente cliffhanger a fine puntata o trovate ad effetto. Il ritmo è cadenzato ed estremamente cupo. A istanti di grande tensione si alternano momenti di riflessione, con la regia che ci porta vicinissimo ai volti, spesso proprio sui dettagli. Questo è un po’ il segno stilistico cha aveva dato Gus Van Sant alla prima puntata: primi piani e dettagli sottilineati da una colonna sonora che in altre parti è praticamente assente. Interviene infatti solo per sottolineare le parti più emotive, quelle in cui il racconto si ferma per descriverci il paesaggio interiore dei personaggi. Per il resto il commento sonoro si trasforma un’estremizzazione di suoni diegetici: il rumore del traffico, i passi di qualcuno, il respiro di un personaggio. Boss è l’ennesima prova che i telefilm come li conoscevamo un tempo, non esistono più. Le regole della serialità televisiva sono cambiate. Oggi la serie utilizza un linguaggio sofisticato. E in tutto questo gli Emmy si avvicinano, e qui abbiamo una miglior serie drammatica e miglior attore in una serie drammatica.

Michele Comba

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