Ogni volta che parto per un viaggio oltreoceano, provo la stessa emozione. Preparare un bagaglio più ingombrante delle trasferte di lavoro, dei week end fuori porta o dei borsoni zeppi di pareo e infradito delle parentesi estive, ha un suo retrogusto particolare. Unico e inimitabile.
Ricordo con grande nostalgia un periodo della mia vita in cui all’ingresso campeggiavano due valigie. Una destinata ai capi impalpabili e leggeri e l’altra pronta per le latitudini nordiche. Poco importava quale fosse la stagione. I trolley, con le misure regolamentari per un bagaglio a mano, rappresentavano il primo elemento scenografico per chi varcava la porta dell’appartamento. Un biglietto da visita, quasi a dire: ”sono qui, ma non darmi per scontata.” Mia madre adduceva il nomadismo cronico al volo di rondini che aveva accompagnato la mia nascita, tanto che il primo Pomellato l’avevo ricevuto proprio da lei. Un Dodo d’argento, tuttora mio feticcio,che recava impressa una rondine come marchio. Il viaggiare sarebbe divenuto il mio marchio di fabbricazione.
Partivo con la voglia di tornare, senza sapere quale sarebbe stata la destinazione successiva che avrei scoperto solo rientrata a casa. Il tempo di scaricare la posta elettronica e di azionare la lavatrice. Far scivolare nella borsetta trapuntata il passaporto perso sul fondo di quella di paglia e via, con una nuova carta d’imbarco.
Se mi chiedessero oggi come vorrei vivere, risponderei in giro per il mondo, come in quel periodo meraviglioso, in compagnia dei miei trolley. Poi la vita prende pieghe incoerenti con quello che faremmo, se ascoltassimo il nostro egoismo. E il dover essere vince sul bambino, nascosto in ognuno di noi, che ci porterebbe a comportamenti diametralmente opposti e a scelte antitetiche da quelle che razionalmente prendiamo.
Lunedì tornerò a NY dopo anni di assenza per assaporare il gusto del Natale. Mi specchierò nelle vetrine di Tiffany, mi commuoverò ascoltando la ninnananna dell’orologio di FAO Schawarz (http://www.fao.com/home/index.jsp), pattinerò sotto l’albero del Rockfeller Center (http://www.rockefellercenter.com/), salirò sull’Empire State Building, percorrerò la spirale del Guggenheim (http://www.guggenheim.org), mi scalderò con i mug di Starbucks e cercherò di capire perchè gli scoiattoli di Central Park si intristiscono di Lunedì, salutando le anitre di quel laghetto che aveva, nel suo specchio d’acqua torbida, ispirato domande al Giovane Holden. La sera, esausta, mi addormenterò tra le lenzuola di raso del Waldorf Astoria (www.waldorfastoria.com).
Raggiungerò la Penn Station, e salirò su un treno Amtrack (www.amtrak.com) che, con la sua placida corsa nelle campagne del Massachusetts mi porterà a Boston, dove ho trascorso la prima vacanza da sola. Lì, mi siederò su una poltroncina dell’Opera House (www.BostonOperaHouseOnline.com) lasciandomi trasportare dalle note di Tchaikovsky nel mondo dei soldatini del suo Schiaccianoci. Probabilmente, ricordando i trascorsi sulle punte, quando nel delirio di onnipotenza di ogni bambino, ero certa che Carla Fracci sarebbe sbiadita accanto a me, tornerò a commuovermi.
Piangerò e sorriderò, perchè ci sono viaggi che rappresentano linee di demarcazione in cui essere e dover essere tornano a sfiorarsi. E il bambino che è in me si rimetterà a giocare, riponendo nel cassetto, la vita di compromessi. Saltando sulle piastrelle bianche, eviterà le congiunture con quelle nere, suscitando l’imbarazzo di chi accanto mi prenderà per matta.
In fondo, mutuando un pensiero del papà del Piccolo Principe, certi viaggi sono dedicati “a quei bambini che non se lo ricordano più.”
Perchè è proprio vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi.”
Ci vediamo al mio ritorno.
La vostra inguarabile nataconlavaligia Eleonora