Il compositore austriaco Gustav Mahler (secondo me il più grande del Novecento e uno dei più grandi di sempre) aveva un problema non da poco: fu sempre criticato enormemente per la sua musica, in vita come dopo la sua morte, più o meno fino agli anni ’50 (lui morì nel 1911).
Nella sua strenua difesa di Mahler, il compositore Schönberg ebbe a dire che le critiche non diventavano altro che il riflesso di ciò che il critico pensava di poter fare se fosse stato al posto del compositore. Un pensiero in cui mi ritrovo appieno, e ho allargato la riflessione alla scrittura. Forse mi si chiarisce il motivo per cui faccio sempre fatica a condividere le critiche o i giudizi sui romanzi. Ecco quanto ho pensato.
Quando si giudica un’opera forse non si fa altro che giudicare se stessi; e analizzare le imperfezioni di uno scritto si trasforma spesso in una mera analisi delle proprie categorie personali. Quel romanzo non ha un gran mordente? La causa è da ricercare soprattutto nel fatto che il critico ama maggiormente opere dal mordente sicuro e deciso. Quell’altro romanzo ha un finale debole? Magari l’incapacità del critico sta nello scoprire il motivo per cui l’autore ha voluto dare un simile finale, concentrato com’è sull’ombelico delle proprie aspettative. E così si potrebbe continuare all’infinito. L’analisi spezza l’insieme, che è l’unico vero aspetto che vada giudicato e condiviso: il senso del tutto.
Indubbiamente le opere hanno una struttura che può essere analizzata in qualche modo oggettivo, ma diciamoci la verità: non frega nulla a nessuno che si parli di ciò che è oggettivo, quando si parla di un’opera. Si vuole vivere di passione e di rapimento. Chi tiene così tanto ad analizzare un romanzo smembrandolo o giudicandone i limiti e i difetti, non fa altro che gridare al mondo il proprio narcisistico Ego.
Oppure ha speso 20€ per un libro che si è rivelato deludente nella migliore delle ipotesi e ora esercita il suo diritto di critica.
Certo, il diritto di critica sempre! Ma la mia è una riflessione che va oltre, e si incentra sul meccanismo che il lettore mette in atto quando commenta, soprattutto quando pensa di fare una recensione.
Ciao Fabrizio! Lavorando su Joyce e sull’incredibile produzione della letteratura critica sulla sua opera, devo dire che un’idea sulla critica me la sono fatta anch’io. Per questo motivo condivido quello che pensi tu. In realtà, la critica letteraria sarebbe molto più sincera e coerente con se stessa se ammettesse che un buon lavoro di critica è quello che dirama dall’opera e percorre il sentiero del sentire personale del critico, e non quello di un’impossibile oggettività dell’autore o del testo. Una persona è ontologicamente “soggettiva” e di conseguenza lo è il suo pensiero.
Perciò un lavoro di critica, secondo me, è quello che aggiunge significati, che smembra i testi, che li proietta o che li collega, ma sempre ammettendo che è una persona diversa dall’autore ad essere ispirata dall’opera per crearne un’altra.
Diversamente da questo non sarebbe critica ma mero – e comunque soggettivo – giudizio.
Esattamente d’accordo con te, Luca. A patto di ricordarsi anche che l’opera, dopo essere stata smembrata, dev’essere riconsiderata come un “unicum” che vuole consegnare un senso.