Questa volta vi propongo un esperimento: posto una recensione di The Dark Side Of The Moon scritta in stile Pink Floyd. Vuole essere un omaggio ad uno dei miei gruppi preferiti e la traduzione poetica di tutte le emozioni che hanno saputo regalarmi.
Universi filosofici rarefatti, tappeti sonori sospesi nel tempo e un prisma psichedelico in copertina danno vita, nel 1973, ad un capolavoro eterno al di là dei confini di genere: The Dark Side of the Moon.
L’ottava e innovativa opera dei Pink Floyd, 45 milioni di copie vendute e una permanenza in classifica da capogiro, costituisce una vera e propria esperienza musicale da vivere completamente, utilizzando tutti i sensi a nostra disposizione.
Con questo concept album, lo space rock della band inglese tocca finalmente il suolo terrestre e si destreggia con problemi più umani. I testi di Roger Waters descrivono infatti il lungo e difficile cammino dell’uomo, sempre in equilibrio precario, nel tentativo disperato di andare al di là di una semplice esistenza, con negli occhi un desiderio irrealizzabile di infinito. Ed ecco allora che si parla di ansie, ossessioni, paure e tutto il lato oscuro della vita quotidiana.
Registrato nei famosi studi di Abbey Road con la supervisione di Alan Parsons, vede la partecipazione di tutti i membri del gruppo e l’utilizzo di tecniche di registrazione innovative e sperimentali per l’epoca. E’ infatti un sintetizzatore a far impazzire la frequenza delle note nel brano On The Run. Ci troviamo qui di fronte a suoni impalpabili e a volte incomprensibili, tutto il caos del mondo che prende vita nel battito di un cuore o in una risata.
Tra i marchi di fabbrica di questo album, spiccano sicuramente il suono della chitarra di David Gilmour, aperto e cristallino che si allunga e si deforma, i vocalizzi di The Great Gig In The Sky e i silenzi e le pause di Us And Them, struggenti e comunicativi. Questa è la magia dei Pink Floyd che ci porta al lato oscuro della luna dove la forza di gravità e le connotazioni temporali non esistono.
Ascoltando quest’opera visionaria tocchiamo infatti tutte le emozioni del creato, fino ad arrivare all’elogio della follia di Brain Damage e alla condizione umana dell’Amleto di Shakespeare, quella “quiet desperation” di Time, che fa scorrere dentro di noi ansie e nevrosi, senza però privarci della volontà di espressione.
http://www.youtube.com/watch?v=MYiahoYfPGk