Cuccioli.

Sono un’appassionata di gialli, si sa: ne leggo moltissimi, alle uniche condizioni che non siano troppo truculenti né troppo lunghi, date le mie personali propensioni alla paura e alla noia. Tra gli autori contemporanei che mi piacciono di più, stretto tra Malvaldi e Manzini e Mc Call Smith e Camilleri, c’è Maurizio de Giovanni. L’ho conosciuto per caso, leggendo Il senso del dolore in una anonima edizione dalla copertina nera, venduta in edicola insieme a un quotidiano; mi è piaciuto, l’ho comprato e regalato e consigliato, ne ho parlato con molte persone, ho decantato il suo stile asciutto e insieme lirico, la sua articolata costruzione dei personaggi, il suo indagare con delicatezza l’animo umano. Ho aspettato con trepidazione l’uscita degli altri volumi della serie, ho applaudito saltellando su e giù quando è stata annunciata la nascita della collana dedicata ai Bastardi di Pizzofalcone, ho letto e apprezzato anche quella. Però. Adesso sono a tre quarti di Cuccioli, e mi sento vagamente irritata.

Premetto che non c’è niente di più sciocco e irrispettoso del giudicare un libro prima di averlo finito di leggere, e magari lasciato sedimentare, e sicuramente quello che ho tra le mani è un bellissimo giallo, con un buon ritmo, una trama ben costruita, incalzante senza essere ansiogeno, dallo stile personale e riconoscibile. Però, ecco, tutte le pagine di riflessioni dal tono vagamente poetico e allusivo, che all’inizio trovavo irresistibili, adesso cominciano a darmi l’orticaria; l’impressione che mi comunicano è la stessa di quando, a un concerto, il chitarrista inizia un interminabile assolo di cui sembra molto fiero, ma che annoia a morte il pubblico. La sensazione è che l’autore si sia divertito e compiaciuto molto a scrivere quei brani: un bel po’ di più, questo è certo, di quanto stia facendo io nel leggerle. E anche il “riassunto delle puntate precedenti”, la tendenza allo spiegone che de Giovanni ha sempre avuto, sta diventando davvero esagerata: ma è così necessario ribadire, ogni volta, quale sia il ruolo, la situazione personale e familiare, l’umore tipico, l’abbigliamento, i vizi e le paure e le ansie e le manie di ognuno dei personaggi? Se Camilleri si sentisse in dovere di chiarire ogni volta chi sono Livia, Fazio e Catarella, non lo troveremmo un po’ tedioso? E tutta la storia dei suicidi-che-non-sono-suicidi non è di stucchevole falsità? Ma soprattutto, è mai possibile che il protagonista dei libri di de Giovanni sia sempre conteso tra due donne, una incarnatrice del sacro focolare domestico e l’altra del brivido della trasgressione? Ripeto, de Giovanni mi piace molto, i suoi libri ancora di più: è per questo, forse, che temo che scada nel manierismo, nel voler ripetere all’infinito se stesso, nel rischio di non saper cambiare marcia. È bello che un autore abbia una voce personale, che lo distingua e caratterizzi: il pericolo, però, è che ripeta sempre la stessa frase. Detto ciò, non posso che dire che Cuccioli è un romanzo di alta scuola: leggetelo, davvero.

Nei romanzi di de Giovanni si percepisce sempre la presenza di Napoli, la si tocca e annusa e assapora ad ogni pagina. Adesso che è quasi Natale, sogno un pranzo a base di paccheri al ragù, con la carne di maiale succosa, tenera e saporita da mangiare per secondo, ben irrorata di salsa. Una vera goduria.

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