Ieri, la mia avventata affermazione “Io non sono intelligente”, elargita senza preavviso e nesso apparente a due colleghe che tentavano di trascorrere una giornata lavorativa non infestata dalla mia molesta incapacità di prendere decisioni, è stata ovviamente non-compresa. Non andava presa alla lettera, in realtà; non penso, ancora, di avere un’intelligenza meno sviluppata della media. Quello che volevo dire, nello specifico, è che svolgo un lavoro per il quale sono stata scelta non per le mie vere o ipotizzabili capacità mentali, ma per altre motivazioni, prime tra tutte l’affidabilità e quell’innato senso di colpa che mi porta a dire di sì alle richieste più insolite e bizzarre (“Potresti trovare, entro il pomeriggio, un manichino mezzobusto che costi meno di venti euro?”) e a sentirmi inadeguata e per questo particolarmente remissiva se non soddisfo le aspettative altrui, per quanto irrealizzabili o futili siano. Tolto il caso specifico, la frase, plasmata fino a renderla una domanda dotata di senso (“Sono davvero intelligente? E cosa vuol dire esserlo?”) assume dei contorni inquietanti. La mia intelligenza, ad esempio, è una di quelle noiose e poco spendibili, vecchio stampo; una intelligenza-Guerra e pace, va’; superata, retrò. Non ho un’intelligenza pratica, fattiva, spiccia: posso guardare per interi quarti d’ora una scatola e un libro, cercando di risolvere il problema il contenuto è più largo del contenitore senza immaginare di poter ruotare il libro di 90°, o piegarlo su un fianco, o inserirlo in obliquo. Sarei capace, piuttosto, di eseguire laboriose misurazioni e rifilare una per una le pagine e la copertina. Non ho neanche un’intelligenza creativa, quella che, arricchita da un tocco di genialità, porta ad intuizioni brillanti o risposte ficcanti o commenti briosi. Sono capace di leggere un libro di seicento pagine in dieci giorni, sono stata in grado di ottenere buoni voti a scuola e di laurearmi in tempo, posso decidere di studiare un testo astruso o di tentare uno scritto per il dottorato in una facoltà che non è la mia e passarlo, ma, più che frutto di intelligenza, questi risultati vengono da dedizione, applicazione e, spesso, desiderio di rivalsa, voglia di eccellere in qualcosa, spirito di competizione. Il reale motivo dei miei successi scolastici è stata la voglia di far tacere un’odiosa insegnante di lettere che continuava a dire di non poter affibbiare voti più alti del 7, perché nessuno lo avrebbe mai meritato.
Cosa vuol dire, allora, essere intelligenti? Saper sfruttare le proprie doti per raggiungere un risultato? Essere in grado di volgere le situazioni negative a proprio vantaggio? Studiare molto per un concorso, o scegliere chi blandire per vincerlo, ottimizzando tempi e sforzi? Il semi-labrador che vaglia le armi a sua disposizione (sguardo insinuante e languido, abbaio e scodinzolio con ritmo da metronomo, furto con destrezza) per ottenere bocconi succulenti dal tavolo cosa fa, se non dimostrare la sua flessibilità mentale? È più intelligente chi ottiene voti stratosferici a scuola o chi si mantiene sulla sufficienza risparmiando tempo prezioso per leggere, suonare il corno francese, studiare pittura a olio o correre sui pattini? Chi legge libri noiosi o pesanti o astrusi o chi sceglie solo quelli che lo divertono? Tolstoj o Fabio Volo, che ha scritto immani schifezze ma si è saputo vendere bene? Esiste un’intelligenza astratta, quasi da idea platonica? Ed è utile nella vita reale? O è preferibile quel misto di furbizia e mancanza di scrupoli che in siciliano si traduce con l’essere scaltri *mani che fanno il segno delle corna mentre si pronuncia l’espressione*? Come chiedeva un tempo Gianni Clerici riferendosi all’incapacità di Federer di gestire il gioco di Nadal, si può essere dei geni ed anche dei cretini?
Molti si affannano a leggere libri che li facciano sentire straordinariamente intelligenti, o semplicemente colti. Io, nella mia assoluta iper-sensibilità alla noia, me ne tengo alla larga, e continuo a sbocconcellare Le correzioni di Franzen, che mi sta piacendo molto, sebbene sia, a momenti, lungo, lento, pretenzioso.
Infine, esiste una genialità anche nella cucina; a me manca del tutto. Sono in grado di cucinare seguendo le ricette, la tradizione familiare e un minimo di intuito. Stavolta, con i crocchè di latte, ho toppato: la bechamel, corposa e saporita, arricchita di noce moscata e grana grattuggiato, va legata con un uovo, forgiata in polpettine, che vanno poi passate in un misto di farina e pangrattato e fritte. Questa volta i crocchè, tuffati nell’olio, si sono aperti. Che delusione.
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