Meglio, quanta colpa attribuiamo, in maniera più o meno conscia, a chi è malato? In questi giorni, nel corso di una discussione sulla necessità o meno di chiudere al traffico un’area piuttosto estesa della città, mi sono sentita rispondere che la malattia non è una vergogna, né una colpa. Giusto, naturalmente, ma. Ogni volta che un giornale titola Tetraplegica partorisce grazie alla forza di volontà, cosa nasconde questa frase se non un’implicita accusa a tutte le altre donne malate che, prive di cotanto vigore morale, non sono riuscite a portare a termine una gravidanza? In quante occasioni abbiamo sentito dire che qualcuno è guarito da una lunga e penosa malattia grazie alla sua forza d’animo, o per amore dei figli, o perché non ha mollato? Quindi, di conseguenza, chi non ce l’ha fatta è un debole, un menefreghista, un pessimo genitore, una persona incapace di tener duro per raggiungere un obiettivo: in altre parole, se non è morto per colpa sua, poco ci manca.
Quando decidiamo di chiudere al passaggio delle auto una strada, avalliamo più o meno consciamente il ragionamento che qualcuno, anziani, disabili, persone dalla motilità ridotta, non potrà metterci piede. Stabiliamo che, per il bene di alcune persone, siano pure la maggioranza della popolazione, qualcun altro venga privato del diritto di fare qualcosa: fosse pure di percorrere quella strada, magari brutta assolata lontana scomoda, ma. Siamo sicuri che sia questa, la soluzione al problema del traffico o dell’inquinamento o della generale gradevolezza di una città? In molte parti del mondo ci sono interi quartieri chiusi alle auto: non penso che sia una scelta giusta. Anche il fatto che alcune zone possano essere percorse con automobili munite di appositi tagliandi è di per sé discriminante, umiliante, emotivamente faticoso: lo dico per esperienza. A sedici anni, in seguito a una sciocca caduta durante l’ora di educazione fisica, mi sono fatta parecchio male a un piede già operato; mi sono rotta tre legamenti, ho sofferto un bel po’, ho tenuto la gamba dolorosamente bloccata per molti mesi. Non potevo camminare, se non per tratti brevi. A maggio, Francesco Guccini ha suonato a Palermo, e io mi sono precipitata a comprare il biglietto; ho scelto una maglietta che mi stesse bene, ho infilato la gamba avvolta nel suo sudario di plastica e cinghie in un paio di jeans carini e mi sono fatta accompagnare al palasport. Lì ho scoperto che non si poteva accedere in auto: o meglio, io, in quanto temporaneamente malata, potevo farlo; gli altri no. La sensazione sgradevole degli sguardi altrui che frugavano attraverso i finestrini per capire il perché del mio ingresso trionfale mi è rimasta appiccicata addosso per tutto il concerto. Mentre Guccini ruggiva, io ringhiavo. Non deve essere piacevole doversi sottoporre ogni giorno a un simile trattamento, dover spiegare e motivare che sì, devo passare perché non posso deambulare, devo essere accompagnata lì e poi ripresa, ho bisogno di un pass ad hoc. Non è questa la mia idea di libertà.
Quando parlo di strade chiuse al traffico, mi riferisco allo sbandierato progetto di interdire alle auto la zona del lungomare di Mondello: l’unica reale spiaggia di sabbia accessibile ad anziani e disabili della città. Di Mondello parla Giorgio Vasta nel suo romanzo Spaesamento, che ho cominciato da poco e che mi sta piacendo davvero moltissimo. Lo stile è equilibrato, incisivo, chiaro, non-pirotecnico ma straordinariamente interessante. E il suo sguardo su Palermo è straniante e dolce, ostile e tenero, da entomologo-di-buon-cuore, ecco.
Quanto alla ricetta, un condimento per la pasta adatto all’estate siciliana: peperoni tagliati a striscioline e saltati con olio, olive verdi, capperi dissalati, caciocavallo saporito e una spolverata di pangrattato abbrustolito sopra: semplice, rapido, gustoso.
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