“… L’uom dal saggio avvisar cantami, o Diva, Che con diverso error, poi che la sacra Ilio distrusse, le città di molti Popoli vide ed i costumi apprese. In suo core egli pur di molti affanni Nel pelago soffrì, mentre cercava A se la vita, ed ai compagni suoi Comperare il ritorno…”
Così Giacomo Leopardi tradusse l’incipit dell’Odissea e in quel “cantami o Diva”, che riecheggia dell’altro canto dell’Iliade, sta il richiamo alla singolare grandezza dell’eroe, il figlio di Laerte che in gioventù fu con gli Argonauti in Colchide, che, ancora oggi, in un altro tempo, costituisce ancora una figura forte, potente, unica. Il distruttor di Ilio dalle alte mura, il facitor di inganni che, tuttavia, mai ingannò sé stesso, è il prototipo dell’uomo solo che sa di non poter condividere i suoi drammi personali con nessuno, perché di tutti dovrà privarsi per il divino disegno che lo vuole inerme nelle mani del Fato! Eppure a questo freddo compagno di Diomede, maestro di scaltrezze e di discorsi contorti, non mancarono le lacrime quando, nella reggia del re dei Feaci, si scioglie il legaccio del suo cuore quando il cantore cieco narra della perduta Ilio, scomparsa fra le fiamme della distruzione operata dagli Argivi orgogliosi… Eroe freddo ma al quale non manca la capacità di commuoversi e provare una sorta di “pietas” ante litteram che sarà più propria dell’altro eroe errabondo, quell’Enea che si lascerà alle spalle la città in fiamme, così come si lascerà dietro il pianto disperato fino al grido di morte di Dido, la sfortunata regina dei fenici che fondarono Cartagine.
“Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse…”
I versi di Foscolo sembrano un canto sommesso che nasce dalla riflessione d’un Odisseo diverso che cerca il porto sepolto nel quale arenarsi e trovare pace! E ancora, dalla divagazione operata da Saba,
“Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d’alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore…”
emerge la dolorosa constatazione che esiste un viaggio che, è poi la vita, che è sempre più odissea! Odisseo è figura, sempre più, dell’uomo inquieto del nostro tempo, un uomo che si pone domande e che sfida il cileo per aver risposte, ma spesso non riesce ad avere se non “il segno di Giona…” Ed eccolo allora, con i pochi compagni, a dar di sprone al viaggio supremo verso una conoscenza assoluta, unica ed ultima…
Eccolo, allora, a dire che “de’ remi facemmo ali al folle volo, …infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso!”
Anche nella fine ultima, conserva il senso del dramma della sua vita. Una vita spesa sino all’ultimo nella ricerca di sé e del senso della vita. Misterioso Deckard che lotta contro i Lestrigoni o contro i ciclopici Nexus 6 che sono il suo doppio, quel doppio a specchio nel quale confluiscono i dubbi suoi… Anche lui, Odisseo ha veduto cose strabilianti che nessun altro aveva visto o mai vedrà ed ha visitato altri mondi, discendendo anche nel Tartaro buio, mondi che nessuno potrebbe immaginare e che egli ha fissato come bevendone l’immagine disciolta nelle acque della fosca palude stigea. Odisseo versatile e scaltro e purtuttavia Odisseo solo, silenzioso, meditativo che dall’eroe violento dell’Iliade diventa il silenzioso navigante che cerca la via di casa per tornare alla bruta foza solo per liberare la sua casa dai Proci orgogliosi. Alla fine stanco, del lungo vagare e del lungo guerreggiare, si abbandonerà tra le braccia della sposa e, prima della fine, compirà l’estremo viaggio fino alla terra dove non conoscono il mareper tornare, infine, alla sua Itaca e sulla spiaggia che lo vide partire giovanissimo per Ilio dalle alte mura, rimarrà silenzioso ad attendere quella morte “…che gli verrà dolce dal mare…”, lo stesso mare che aveva solcato e che non l’aveva vinto in vita, l’avvolgerà in un abbraccio rispettoso che lo consegnerà davvero alla immortalità dei secoli a venire, dandogli quella eternità che i suoi dei, invidiosi come solo potevano essere i simulacri avvolti nelle nebbie dell’Olimpo altissimo, gli avevano negato o avevano cercato di negargli.
Così Emmet (nell’Ulisse di Joyce) potrà dire: “Quando la mia patria avrà il suo posto tra le nazioni della Terra, allora, e non prima di allora, il mio epitaffio sia scritto…”
Mi colpisce assai la maniera con la quale il personaggio Odisseo viene presentato… In fondo Ulisse o Odisseo è un po’ metafora di ogni uomo che lancia la sfida al creato in cerca di un quid in più…