Una riflessione sulla crisi attuale

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Nel quadro di una sempre più crescente globalizzazione, la fine della prima decade del primo secolo del terzo millennio è stata contraddistinta dall’insorgere di una crisi economica e finanziaria che non ha avuto eguali nel secondo dopoguerra.

L’affacciarsi di nuove potenze economiche sulla scena mondiale, quali la Cina ad esempio, è stato accompagnato dall’arresto dello sviluppo delle economie di diversi stati europei quali Spagna, Grecia ed Italia mentre in altri casi si è avuto un sensibile ed indiscutibile rallentamento (vedi il caso della Francia, dell’Irlanda e, anche se in misura assai più contenuta della Gran Bretagna). Salva da questo scenario di sostanziale depressione, almeno per il momento, è stata la Germania che, forte di una politica di protezione sottile ma efficace, ha mantenuto ampi spazi operativi anche per via di un sistema industriale forte e ben strutturato.

L’effetto della Cina o dell’India sui mercati mondiali è stato dovuto alla loro possibilità di avere costi bassi, ai fini del prodotto finito, nei settori dell’energia e del lavoro.

Gli inizi della prima decade erano stati contrassegnati dall’avvio della nuova fase della Comunità Europea costituita dal varo della “moneta comune” con la sola esclusione della Gran Bretagna, della Danimarca e della Svezia che non hanno aderito, conservando la propria divisa monetaria de quo ante.

Indubbiamente, la disponibilità di una moneta comune ha avuto effetti benefici sulla interscambiabilità entro la Comunità e ha rafforzato l’economia del Vecchio Continente nei rapporti con il resto del mondo, ma tali effetti, innanzitutto iniziali, alla lunga hanno avuto effetti indesiderati di rilevante gravità e peso.

Infatti, mentre alcuni paesi, in forza di sistemi nazionali produttivi e non, particolarmente, forti sono riusciti a controllare efficacemente l’aumento dei prezzi al consumo, conseguente alla introduzione della nuova divisa comune, e a mantenere, sostanzialmente, invariato il valore del denaro, altri si sono trovati con una moneta con valore “forzoso” che non rispondeva all’effettiva valutazione conseguente al rapporto valore moneta-prezzi corrispondenti. In breve, ed è il caso italiano, pur avendo il cambio lira-euro il livello di 1.936,27 lire per 1 euro, in realtà uno stipendio di due milioni di lire, divenuto di circa mille euro, ha finito con l’avere il valore di mille euro pari a un milione di lire. Questo dimezzamento del valore della moneta è stato dunque pagato come dimezzamento di stipendi e salari ed è stato accompagnato da un raddoppio dei prezzi al consumo dove ciò che costava diecimila lire ha raggiunto il prezzo di dieci euro.

Se a questo evento, invero già drammatico, si aggiunge una politica di controllo della circolazione del denaro, praticata a livello europeo dalla BCE che ha limitato la stampa di nuovo denaro, con forte controllo anche sui tassi e sulla gestione del credito alle imprese ed ai cittadini, ecco emergere tutti i connotati dello sfacelo che sta alla base della attuale crisi congiunturale.

Le economie più deboli, infatti, per mantenere i parametri stabiliti dall’Unione Europea hanno dovuto attuare una stretta creditizia e fiscale che, alla lunga (circa il periodo che va dal 2008 ad oggi), ha portato le stesse in una situazione dalla quale è difficile uscire anche per i problemi industriali e produttivi che derivano dallo scenario maggiore e cioè dalla globalizzazione alla quel si è fatto cenno in premessa.

Una riduzione degli investimenti, con la stretta creditizia e fiscale hanno avuto effetti devastanti su economie sempre più terziarizzate e meno vocate alla produzione di beni. Se prendiamo il caso del Nostro Paese, osserviamo che, tra la fine del ‘900 ed il 2010, sono state moltissime le imprese che hanno trasferito i propri impianti all’estero (si pensi al caso delle acciaierie del tipo delle ex-Sant’Eustachio o comunque similari) oppure hanno ceduto a Società Estere i propri stabilimenti (ad esempio la Terni e la Thyssen-Krupp oppure Ansaldo e Nuovo Pignone, o ancora porzioni del gruppo Fiat). Ciò ha significato l’anticamera dell’uscita, se non l’uscita vera e propria, da settori strategici della produzione siderurgica, metallurgica, aeronautica e dell’industria energetica. Se a ciò si unisce lo scarso controllo protezionistico attuato sul settore primario, la diminuzione delle incentivazioni al settore delle fonti rinnovabili, una protezione quasi paranoica sul sistema bancario, gli elevati costi di gestione dell’apparato pubblico e un aumento di pressione fiscale, quasi esclusivo, sui ceti medi con l’aggravamento della tassazione sui beni primari, soprattutto immobiliari, ecco che allora si delinea una crisi di difficile soluzione che risente soprattutto della mancanza di investimenti.

Situazione analoga a questa risale alla crisi del 1929 con la sensibile differenza che all’epoca, l’intervento del Governo USA ebbe effetti rilevanti. Infatti, l’Amministrazione Roosevelt, fidando sulle dottrine di Keynes e sul suo programma (New Deal), avviò una politica di controllo economico e di investimento che portò il Paese a sviluppare l’immenso potenziale su cui poté fare affidamento dieci anni dopo sul limitare dello scoppio del secondo conflitto mondiale.

Il quadro delineato appare fosco e, purtroppo, l’assenza di personalità di spicco e di carisma gioca un ruolo ulteriormente negativo.

Tuttavia, se i costi dell’apparato pubblico fossero efficacemente controllati e così il gravame fiscale, lasciando da parte i ceti finora dissanguati e puntando ai patrimoni sinora rimasti intoccati, per una errata politica di protezionismo del “ricco verso il povero”, se si operassero interventi allentando progressivamente la stretta creditizia, controllando l’aumento dei prezzi al consumo e rivalutando stipendi e salari con ovvia attenzione all’occupazione, avviando un programma di investimenti a medio-breve termine e, successivamente, a medio-lungo periodo, facilitando gli investimenti da paesi esteri sul nostro territorio, recuperando spazi operativi nei settori strategici (non ha senso uscire dal progetto del “caccia europeo” se poi si finisce col comprare gli F35), aumentando gli investimenti a sostegno (anche lottando nelle sedi eurocomunitarie più opportune) dell’agricoltura riqualificando anche gli usi energetici nello stesso comparto, potenziando l’industria agroalimentare associata al settore primario aumentandone l’efficienza e l’economicità produttiva, migliorando il credito alle attività artigianali e commerciali, avviando nuove iniziative tese a recuperare spazi ed accessi sul mercato dei Paesi ad Economia Avviata o in Via di Sviluppo si dovrebbero avere i margini operativi per arrestare il declino economico nazionale e cominciare a controllare l’evoluzione della crisi economica e finanziaria recuperando inoltre le capacità produttive del Paese.

Unendo a queste azioni, un congruo miglioramento dei servizi pubblici legato ad una politica di investimento ed ottimizzazione, ecco delinearsi anche un miglioramento generale della gestione dell’apparato dello stato.

I settori ovviamente sarebbero quelli: dei trasporti (potenziamento delle vie di mare e delle vie ferrate per i trasporti a lunga distanza con gestione intermodale unita a quello su gomma), sia di merci che di persone (per quest’ultimo privilegiare il treno sia su tratte lunghe che brevi ed indipendentemente dalla sua velocità); della sanità (con ottimizzazione della distribuzione sul territorio dei nosocomi e delle unità complesse in funzione non solo delle aggregazioni provinciali o regionali ma dell’effettivo bacino di utenza da servire); della scuola e dell’università (con potenziamento della ricerca e delle funzioni didattiche migliorando anche lo stato degli operatori del settore); dell’occupazione con azioni mirate nella formazione e nel recupero degli esodati ancora in età lavorativa e di ampliamento della offerta formativa ed occupazionale per i più giovani; dell’energia (attraverso un riequilibrio della bilancia energetica verso l’estero con la riqualificazione dell’intero sistema nazionale).

Resta un dubbio da chiarire: chi sarà il Franklin Delano Roosevelt della situazione? Oppure abbiamo solo in giro gli spettri di Cromwell?

About storia

Ingegnere meccanico, dottore di ricerca in energetica, professore a contratto alla Facoltà di Ingegneria e alla I Facoltà di Architettura "L. Quaroni" dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", si occupa di studi di impatto ambientale, paesaggistici e urbanistici. Si interessa di letteratura, storia, disegno e fotografia.
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