C’è un linea di demarcazione, un perimetro emozionale superato il quale la mente getta la spugna e il dolore si diffonde per il corpo. Non si tratta più della carezza aspra della malinconia, non è l’urto prolungato della mancanza, è una spina che si fa rompighiaccio e con movimento rotatorio, lento ma inesorabile si fa strada smembrando i muscoli, attaccando le ossa, attorcigliando le viscere che riversano tra gli organi liquidi acidi.
E’ come se tutte le sofferenze si fossero date appuntamento proprio lì, sotto il nostro scheletro d’ulivo e senza remore o timidezze si esprimano appieno, mentre dalla caverna infuocata e spalancata della nostra interiorità fuoriesce un urlo profondo e secolare, imperituro e sordo che parla di tutte le sofferenze del mondo.
Il vento soffierà, la pioggia cadrà e il sole continuerà a sudare, poi l’acqua si raccoglierà fino a raggiungere il mare, il vento darà sollievo alle inutili pene e il sole abbraccerà la notte nel momento dell’abbandono.
La quiete si riavvicinerà, placida come l’onda che si ritrae dalla battigia dopo averla bagnata, lasciando indietro solo per pochi istanti la sua ombra.
Allora le ferite smetteranno di gridare e le loro smorfie di dolore si trasformeranno in sorrisi, prima vacui, poi consistenti e sfacciati, assertivi della loro forza.
Giada