Con grande piacere comunico ai lettori l’imminente uscita di Un’educazione parigina, romanzo di Roberto Saporito, per la collana digitale ePop di Perdisa editore. La nuova versione(a) del romanzo, finora inedito ma già al centro di una serie di entusiastiche recensioni, sarà disponibile dall’11 febbraio.
Con l’occasione, ripropongo la mia recensione, già pubblicata su queste pagine lo scorso 5 luglio.
(L’autore Roberto Saporito in una foto di Franco Giaccone) I palazzi un po’ deprimenti della periferia di Parigi mi annunciano che in qualche modo sono arrivato alla fine del mio viaggio. È un quartiere altamente degradato e che un po’ mi spaventa. Transitando davanti ad una vetrina di un negozio di moto vedo la mia immagine riflessa ma non mi riconosco. Freno quel tanto che mi permettono i poco seri freni a bacchetta della bicicletta e torno indietro. Quello che si specchia è un barbone in bicicletta, quello che si specchia è un maleodorante e poco raccomandabile individuo. Quello che non è, è che non sono io, quantomeno non l’io che conoscevo prima di intraprendere questo folle viaggio in bicicletta dal sud della Francia. Il cartello malridotto con su scritto PARIS, con la R centrale quasi del tutto cancellata, mi strappa un sorriso, o comunque un suo esile parente(2). Il “primo io”, proprietario di un sushi bar a Nizza (ereditato da Keiko, una vecchia amante ormai defunta), approda a Parigi con l’idea di aprire un secondo ristorante a Bastille, proprio “dietro alla piazza” (3). Il “secondo io” arriva a Parigi in bicicletta, al termine di un viaggio tanto immotivato quanto folle(4), condotto, forse, all’inseguimento del fantasma di un vecchio amore di gioventù, nella speranza (inconscia, salvo tardivi sprazzi di autocoscienza) di poter “creare un futuro per cancellare un passato ingombrante e fastidioso da ricordare […] partendo da un passato […] piacevole”(5). Il “terzo io” è un ex-terrorista espatriato a Parigi chissà quando e chissà come. Anche se porta ancora sulle spalle gli spettri del terrorismo e i ricordi indelebili di una ragazza impiccatasi anni prima nel carcere di Cuneo, ormai si sente al sicuro in un Marais che lo ha “assorbito” e reso “un po’ invisibile”, come ha fatto con tanti altri “ex-terroristi o presunti tali”(6)… Saporito decide di dare ai tre protagonisti dei suoi romanzi Eccessi di realtà/ Sushi Bar, Carenze di futuro e Millenovecentosettantasette/ Fantasmi armati una “seconda possibilità di essere raccontati”(7), mantenendoli anonimi(8) e costringendoli a testimoniare in prima persona e al presente (l’eterno presente di chi vive in un mondo ormai privo di teleologia), una triplice assenza di certezze, di scopi, di fulcro, di storia. Nell’alternanza delle voci che si inseguono e nella varietà dei casi, queste tre non-vicende(9), le storie di questi personaggi alla deriva (in cerca di un senso o forse inconsciamente persi nell’attesa che il passato torni per salvarli o crollar loro addosso) in una Parigi “un po’ da ricchi e un po’ da rifugiati e un po’ da scappati di casa e un po’ alla moda e un po’ decadente e un po’ frutto di una propria elaborazione mitologica”(10), si impongono all’attenzione del lettore come un campionario ristretto ma di valore quasi universale; proprio come succedeva con i racconti della raccolta Generazione di perplessi (11). Se ogni intreccio è selezione, taglio arbitrario all’interno del flusso del reale (autobiografia, reportage ecc.), o di un reale possibile (finzione), qui l’autore, istituendo una sorta di “turni” di narrazione, organizza il prodotto dei suoi tre “tagli” in una trama che illumina e porta allo scoperto proprio l’arbitrarietà della scelta: la composita e irregolare sovversione dell’ordine temporale non risponde a un tentativo di costruzione enigmistica, di creazione di suspence o di effetti sorpresa(12), ma trova la sua unica giustificazione nella decisione autoriale di imporre una regolarità all’alternanza delle voci narranti(13). La prosa di Saporito, apparentemente semplice, è come al solito coltissima, fitta di rimandi inter-testuali autoctoni e alieni che spesso (anzi, verrebbe da dire la maggior parte delle volte), in un ennesimo gioco d’autore, esulano dai testi citati nell’inconsueta bibliografia preposta al testo(14): tracce di Gailly, certo, ma anche spettri di Echenoz, ombre di Djian, vaghi sentori da B. E. Ellis, e forse persino reminiscenze da Arancia Meccanica (quella di Kubrik, e non quella di Burgess) nel taglio cinematografico e nell’accelerazione di una scena di sesso a tre… Se l’originalità di Generazione di Perplessi(15) consisteva nell’imporre al modello post-moderno una brusca sterzata verso l’esistenzialismo volta a riportare in primo piano il “contesto” (in opposizione al personaggio-testo) attraverso la costante frustrazione delle aspettative dei protagonisti, sul finale di Un’educazione parigina, la cosa si ripete in maniera altrettanto brusca, netta e inequivocabile. Ne emerge l’immagine fin troppo chiara e dolente di un “umano” (solidarietà? amicizia? affetto?) che soccombe sotto il peso del potere e della storia, come a sottolineare che auto-scrittura, auto-poiesi o bricolage (inteso in senso identitario), sono strumenti concessi (forse persino “spinti”) dal potere, fruibili all’interno di una “nicchia” (16), utili a distrarre da un “reale” che sarebbe poco definire deficitario, ma per il resto del tutto inadeguati(17)… A questo punto, verrebbe voglia di chiedere all’autore se crede che la scrittura possa ancora svolgere un ruolo positivo, progressivo o addirittura rivoluzionario; se la “denuncia”, rivesta una qualche funzione; se la cultura abbia poi un qualche impatto positivo, o se la figura dello scrittore non si riduca, oggi, a quella di un solitario perso in un’inattuale pratica ascetica; in un impegno individuale che non ha scopo né funzione al di fuori di se’. Ma chissà poi che non ci sia modo di farlo… magari nel corso di una qualche presentazione di questo romanzo che, ci auguriamo, troverà presto un editore.
(a)Nella versione di prossima pubblicazione, le tre voci narranti (e i tre intrecci) dell’inedito sono stati ridotti a due.
(1)Nota: Come si recensisce un romanzo inedito? In questo caso la cosa è molto semplice: né più né meno come uno edito; senza concessioni né considerazione per il fatto che il testo in questione non sia stato editato ma solo auto-editato (il che, quando si ha a che fare con Un’educazione parigina, non è un problema: Saporito è un professionista, e si vede) e che non abbia superato i meccanismi di selezione attraverso i quali le opere generalmente accedono al mercato editoriale…
(2)Roberto Saporito, Un’educazione parigina (o qualcosa del genere), inedito, 2012, p.21. (3)Ivi, p. 11.
(4)“Quello che devo fare a questo punto è trovare un nuovo motivo, un senso al mio andare in bicicletta a Parigi” si legge a p. 14, e, man mano che le pagine scorrono, il viaggio del “secondo io” si manifesta come una via di mezzo tra una deriva surrealista e il perdersi -psicologico E geografico- di Victoire, protagonista di Un Année di Echenoz.
(5)Ivi, p. 22.
(6)Ivi, p. 15.
(7)Ivi, p. 8
(8)Come si addice a tre sconosciuti che, pur arrivando quasi a sfiorarsi, si muovono senza convergere sullo sfondo indifferente di una grande città…
(9)La mancanza di quello “sviluppo” generalmente connesso alla nozione di trama rende problematica l’applicazione del termine a questi tre romanzi nel romanzo…
(10) Ivi, p.16
(11) Roberto Saporito, Generazione di perplessi, Edizioni della Sera, Roma 2011.
(12)Nella deprimente quasi-inutilità di ogni avvenimento, lo sfiorarsi dei personaggi produce un tiepido effetto sorpresa che lascia (volutamente) indifferenti.
(13)Il contrasto tra la vanità delle azioni dei tre personaggi (innominati e pertanto quasi impersonali) e la radicalità della scelta autoriale (si realizza, qui, una sorta di coincidenza tra “autoriale” e “autoritario”) sembra forzare la convivenza di un piano più strettamente esistenziale (e anzi esistenzialista) con uno livello metanarrativo e “demistificante”: da un lato c’è la volontà di raccontare una serie (anzi tre serie) di scelte prese o non prese, di azioni spesso poco più che incidentali, favorite o osteggiate dal caso o persino dalla struttura politica e sociale; dall’altro la chiara coscienza che ogni racconto è pur sempre una finzione, tanto ben testimoniata dall’eccessiva, anti-naturale e anti-cronologica aritmetica dell’alternanza, “espediente” (sia preso il termine in maniera molto lata) narrativo che ha un ché di nouvelle vague. Sembra di rivedere gli anti-illusori stacchi sporchi di Godard, o gli sguardi dritti in macchina (quelle occhiate dirette con le quali gli attori svelavano l’esistenza di un pubblico) inseriti in barba alle regole del découpage classico…
(14)Consigli di lettura, Ivi, p.7
(15) Come nella già citata raccolta, anche qui, in questa ennesima, riuscitissima, incursione tra le paure, le ansie e le miserie di una “generazione di perplessi” che, vivendo nell’era post-moderna ha assunto, suo malgrado, una posizione anti-storica e sovra-temporale, caricando del peso dell’eternità tutti i suoi drammi, non mancano le sarcastiche strizzate d’occhio, intratestuali (si veda il caso dello scrittore Tommaso Ferro, costretto a fingersi gay per trovare il successo) ed extratestuali, allo stato dell’editoria nazionale: Un’educazione parigina è stato proposto a molti recensori con l’idea “un po’ post-moderna” -così argomentava l’autore nella mail d’accompagnamento delle bozze- di far recensire un romanzo inedito. Non so che effetto abbia fatto la proposta agli altri recensori, ma, per quanto mi riguarda, dato che permetteva di ribadire che chi si occupa di letteratura sul web -in particolare chi scrive recensioni- non è un pubblicitario non retribuito, o ancora peggio un “pappagallo” -si veda Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo, Minimum Fax, Roma 2011, traduzione di Matteo Colombo-, e allo stesso tempo di riaffermare che la buona letteratura spesso sfugge (a)i canali dell’editoria tradizionale, a rischio di rimanere inedita, l’ho accolta come un vero e proprio invito a nozze…
(16)Che, come Marx insegna, si sottrae al sistema capitalista, ma gli resta funzionale
(17)Come a dire che, a dispetto di ogni sforzo, limitandosi a “riscrivere” il testo (se stesso), il soggetto non può modificare il contesto, né sottrarsi alla sua soverchiante pressione.
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