“Lontano, barche più grandi solcavano l’acqua col brontolio soffocato dei diesel. Ecco finalmente l’acqua scura del porto frammista alle chiazze iridescenti del petrolio, agli avanzi marci del pesce di scarto, ai residui di cassette di legno, a brandelli di sughero, a mezzi limoni spremuti, a un’altra quantità di melma galleggiante. Un mare dall’odore corrotto, pungente, insano. Un odore che a Donato piaceva, che riconosceva come quello del suo porto o d’ogni porto, in verità”(1).
Puglia, 1964. Donato Merari si è appena laureato in giurisprudenza, ed è pronto ad entrare nello studio dello zio, avvocato penalista. Per prendere servizio, però, deve aspettare la fine dell’estate, una di quelle fulgide, interminabili, indolenti estati che solo nel sud Italia… ma l’immobilità, si sa, può diventare pesante, e a poco servono le puntatine al mare col vecchio amico Antonio e i piccoli svaghi che il paese ha da offrire. È così che, per ammazzare il tempo, o forse per una sua innata curiosità(2), Merari si mette a indagare sul passato del giovane Romeo Sitri, personaggio enigmatico che nasconde dietro a un legittimo riserbo le tracce di un lontano fatto di sangue.
“Falso poliziesco” che ha per oggetto l’indagine su un delitto avvenuto quindici anni prima dell’abbrivio, e che porta in filigrana le tracce di una giovanile passione per la magistratura(3) -qui rappresentata dal brillante giudice Annunziata-, il libro di Mattencini è in realtà meglio inquadrabile come romanzo di formazione(4): pur laureato in giurisprudenza, Donato pare infatti non aver mai riflettuto sul valore della privacy; a indagine ultimata, si troverà a ragionare sul prezzo pagato per soddisfare la propria curiosità – un’infrazione della sfera privata di Romeo- e sulle conseguenze che questo genere di infrazioni può avere in una comunità ristretta come quella di un paese(5).
Splendide le ambientazioni tracciate, talvolta, con un gusto da “noir mediterraneo” prima maniera(si veda, per esempio, la citazione d’apertura di questa recensione), e perfetti i personaggi, tutti credibili e ben costruiti, dai protagonisti ai comprimari(6); a convincere, però, più della trama, più dei personaggi, e più ancora dell’ambientazione, è lo stile dell’autore: sì, perché la penna di Mattencini è una penna affilata a una scuola d’altri tempi, o forse solo d’altri luoghi(7) (almeno per noi che viviamo al nord e, per dirla con Paolo Conte, “abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna”); sia come sia, lo stile di Mattencini riesce ad essere raffinato ma non altisonante, scorrevole e piacevolmente polveroso, alto, ma soprattutto “altro”, irriducibile alle varie scuole e tendenze del romanzo poliziesco italiano contemporaneo, anche perché, paratesti a parte, I segreti degli altri ha molto del roman-roman, e molto poco del poliziesco…
I segreti degli altri di Gianni Mattencini è edito da Giulio Perrone.
(1)Gianni Mattencini, I segreti degli altri, Giulio Perrone, Roma 2016, p. 9.
(2)O forse, come avverte il narratore con movimento che pare più un’auto-giustificazione del protagonista, per una sorta di “sfida alla conoscenza di ciò che gli si era voluto nascondere” (Ivi, p. 99).
(3)Dell’autore ancor prima che del personaggio? Così pare di poter indurre, anche perché, come ci informa il risguardo di quarta, Gianni Mattencini, magistrato da molti anni, pubblico ministero e poi giudice, oggi presiede la Corte d’Assise del Tribunale di Bari.
(4)Eppure, questo è bene chiarirlo fin da subito, quanto a solidità e articolazione della trama investigativa, I segreti degli altri non deluderà neppure i lettori più esigenti.
(5)Così il racconto poliziesco passa, come in ogni romanzo di formazione che si rispetti, in secondo piano rispetto al progresso morale del protagonista.
(6)Si veda, per esempio, la segretaria Mariapasqua, talmente ben evocata da risultare quasi una presenza palpabile.
(7)Il ricorso al dialetto riguarda solo alcuni dialoghi; semmai è l’uso di un certo giro di frase a suggerire un radicamento (anche linguistico) del romanzo sul territorio.