Stefano Lorefice: Il giorno della iena

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«Prendo dalla mia ventiquattrore […] la maschera di Cartesio. Che poi io mica lo so se la faccia della maschera è proprio quella di Cartesio. Mica c’era la possibilità di fotografarlo al periodo, qualche ritratto olio su tela e basta. Comunque, la prendo e me la metto. Il matto fa lo stesso ma con la maschera di Kierkegaard, e ora assomiglia a un matto con la faccia di Kierkegaard e la voce da checca isterica, anche lui con una ventiquattrore. E, mentre le persone realizzano più o meno cosa sta succedendo, e con gli occhi spalancati ci guardano, recito il mio monologo preferito: “Bene, signorina, riempia le nostre ventiquattrore, con calma. Lei, signorina, tenga le mani bene alzate, so perfettamente quale bottone magico vorrebbe schiacciare…”» (1)

Da qualche parte, tra Milano e la provincia, un piccolo campionario di incredibili e immaturi personaggi in bilico tra la tarda adolescenza e l’età adulta sta per entrare in azione; ma per fare cosa? E perché? Che legame c’è tra gli addetti alle consegne del “Mago dello spiedo”, Kierkegaard e Cartesio? Chi è la misteriosa “Iena”? Che cosa importa al fantasma di un partigiano delle abitudini sessuali di un autore di testi radiofonici? E della raccolta differenziata? E che c’entra Parigi?

L’idea che l’esito di un montaggio alternato debba sempre e comunque essere un incontro risolutivo è talmente vecchia e radicata nel cinema di genere (e non), da aver superato lo stato di semplice cliché, in favore di quello di vero e proprio luogo comune narrativo; in ambito letterario, la situazione non è molto migliore: il tardivo ricongiungersi di personaggi a lungo separati, spesso (troppo spesso) prelude all’inattesa soluzione, al definitivo chiarimento degli eventi. L’espediente è ormai talmente tipico che la possibilità di una persistente apertura dell’intreccio, di una residua, voluta, confusione dei vari spaccati del mondo diegetico offerti al fruitore per sollecitarne l’impegno interpretativo, non sfiora affatto la coscienza del lettore.

Eppure, nella realtà, le cose vanno diversamente: anche volendo prescindere dagli ‘“intrecci” polizieschi(2), difficilmente gli eventi si offrono alla nostra comprensione in ordine rigorosamente cronologico, e privi di punti oscuri. Potrebbe mancarci un tassello; forse eravamo distratti nel momento in cui la realtà ci offriva uno o più “indizi” fondamentali(3); magari una momentanea attenuazione della nostra capacità d’empatia ci impedisce l’immedesimazione, precludendoci la comprensione del punto di vista dell’altro (di “un” altro, nel caso la situazione coinvolgesse più persone); forse chiediamo conto dell’antefatto a “testimoni” reticenti, o a protagonisti pronti ad occultare i veri moventi del loro agire.
Fatto sta che, nella “vita reale”, le cosiddette “soluzioni”, difficilmente si trovano dietro l’angolo, e la comprensione (ogni minima comprensione) sembra l’esito di un certo sforzo ermeneutico, piuttosto che una semplice, passiva, “raccolta di dati”.
Tenendo per buona questa premessa, si dovrà convenire sul fatto che, così come ogni sequenza casuale di eventi richiede un impegno soggettivo allo scopo di trasformarsi in “serie”(4), per poter essere definita “realistica” in senso proprio, una narrazione debba essere incompiuta, incerta, apparentemente priva di soluzioni, bisognosa dell’attenzione del lettore.

Nel ristretto (ma esemplare) campo del romanzo d’indagine(5), l’ormai più che cinquantennale (sull’argomento si vedano le riflessioni inserite da Raymond Chandler nel suo “The simple art of murder“, pubblicato nel 1950) transizione dalle costruzioni enigmistiche e pacificanti delle origini  alle  forme più moderne e “realistiche” è un processo non lineare e tutt’altro che garantito(si consideri, per esempio, il riaffacciarsi dell’ottimismo gnoseologico illuminista, testimoniato dal successo delle narrazioni incentrate sull’investigazione scientifica).
Stando così le cose, a trovarsi di fronte ad un romanzo come “Il giorno della Iena”, che, a dispetto dell’occasionale comparsa di un fantasma nel mondo diegetico, risulta molto più realistico di tanti romanzi privi di “eventi paranormali”, non si può far altro che rallegrarsi.
È vero: la sovversione dell’ordine cronologico e la riorganizzazione dell’intreccio rispetto alla fabula attraverso l’inserimento di una serie di analessi e prolessi costituiscono una formula alla base di una serie pregevoli e notissime opere,  “di genere” e non (in particolare, volendo restare in ambito noir, viene facile associare -per motivi che non è lecito rivelare fino in fondo rivelare fino in fondo- “Il giorno della Iena” a “Rapina a mano armata” di Lionel White); certo, neppure la costruzione per pezzi brevi, corredata dagli usuali slittamenti della voce narrante (da quella “americana” e colloquiale di “Fattore Lomo” a quella quasi neutra del “Prologo”; da quella romantica di “Sono stato neve” a quella puntigliosa di “Tic Tac Baby” ) e l’alternanza dei regimi di focalizzazione sono una novità; ma sovversione e messa in atto dei citati stratagemmi narrativi non rispondono, qui, ad un’esigenza d’intrattenimento, e non mirano a ridestare la curiosità del fruitore; no, qui ci troviamo di fronte ad un cosciente, un deliberato lavoro decostruttivo che tende ad una temporanea illeggibilità strutturale(6). Lo scopo ultimo dell’autore sembra quello di porre il lettore di fronte ad un’inevitabile (e inconciliabile) alternativa tra incomprensione e impegno. Ed è questa, la vera innovazione messa in atto da Stefano Lorefice.

Per questo i personaggi, che il lettore sa (o crede di sapere, per convenzione del genere), destinati ad incontrarsi ed interagire, si incrociano appena, o intrattengono relazioni reciproche difficilmente ricostruibili; per questo, i moventi non si spiegano mai del tutto, o quando lo fanno, assumono un’inquietante patina di banale quotidianità (si pensi a Lomo, che mette da parte i soldi per andare a Londra, e pensa che siano solo affari suoi se arrotonda con “qualche lavoretto”). Per questo, gli spostamenti sono nascosti e si perdono tra le pieghe del testo, per riemergere solo qua e là, in corrispondenza dell’azione; per questo documenti e rapporti di polizia, che, con la loro idiozia linguistico-burocratica (perfettamente ricostruita; si veda l’uso dell’agghiacciante verbo “sconoscere”), spezzano il tessuto narrativo, non contribuiscono alla soluzione, se non in minima parte ecc.. e a ben vedere, il tentativo di venire a capo della vicenda impone un determinato atteggiamento; una vera e propria etica della lettura.
Certo, questo magmatico flusso di brandelli narrativi in cerca di collocazione, non avrebbe l’effetto che ha, se non fosse sostenuto dalla penna fortunata, precisa, persino accattivante (tanto che, a dispetto della forma disintegrata, si resta attaccati alle pagine) dell’autore. Ma poi, il materiale per una solida ricostruzione dell’intreccio(7) c’è (o meglio ci sarebbe, solo a volergli dedicare tutta l’energia necessaria)… credetemi sulla parola, oppure aprite “Il giorno della Iena” e preparatevi ad un paio di letture consecutive.

Il romanzo “Il giorno della Iena”, di Stefano Lorefice, inserito nella bella collana “I libri di Belasco”, diretta da Gianluca Morozzi, è edito da Eumeswill edizioni.


(1)Stefano Lorefice, “Il giorno della Iena”, Eumeswil edizioni, Broni 2010, p. 138.
(2)E quindi, volendo uscire dal piano narrativo, e sciogliendo una metafora che però in un’ottica post-moderna suona molto naturale e tutt’altro che ardita, l’arco di eventi che va dall’ideazione di un determinato crimine alla sua traduzione nella pratica, ed eventualmente dall’inizio delle indagini alla chiusura del caso, risolto o irrisolto.
(3)“Cornuto davanti allo specchio di un altro. Ho fatto il gesto di toccarmi in testa, come a cercare le tragiche protuberanze […] Ora, se stai con una donna da cinque anni, se dopo tre la storia s’incrina, se tu te ne accorgi dopo altri due anni di questa faccenda e se te ne accorgi, come dicevo prima, a casa del tuo amico, dopo una sorta di confessione velata su di un fantomatico gommista di nome Sergio…” scrive Lorefice a proposito di “distrazioni”(Ivi, pp. 115-116).
(4)Si pensi ai vari tentativi (per es. biografici) volti a rintracciare, a posteriori, un senso unitario, una teleologia, un carattere compiutamente parabolico in un insieme di eventi disposti in maniera semplicemente cronologica. (Si potrebbe pensare, tenendo per buone alcune annotazioni di Lotman, al conferimento di “senso” -contenuto semantico- a strutture non espresse in forma linguistica, ma aventi un’”apparenza” semiotica).
(5) il termine, non molto (o per nulla) adatto a definire “Il giorno della Iena” è comunque il più generico concesso alla lingua italiana per indicare l’intera classe dei romanzi vertenti su eventi criminali, e, per questo, ben si presta a questo tipo di generalizzazioni storiche.
(6)L’illeggibilità è “solo” strutturale, perché, presi in maniera isolata, gli undici capitoli del romanzo, che oscillano tra l’esilarante e il poetico, l’onirico (o simbolico??) e il realistico, funzionano alla perfezione.
(7)Come si dice sempre in questi casi, l’intreccio sarebbe persino cinematografabile, ma, del romanzo di Lorefice, non ci si aspetta affatto una trasposizione: un po’ perché l’operazione richiederebbe a regista e sceneggiatori un’inusuale impegno ermeneutico, e un po’ perché, ridotto sullo schermo, “Il giorno della Iena”, che vive della sua grandiosa caoticità, finirebbe per sembrare un semplice noir post-tarantiniano.

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