Recensione di Seia Montanelli
Di modi per cominciare una storia noir, non è che ce ne siano poi molti. Si può aprire le scene con l’apprendistato criminale di un personaggio, o mostrando gente che prepara un colpo; si può raccontare la storia di un fuggiasco, o inscenare un atto di ingiustizia che esigerà una terribile vendetta. Oppure, si può far sparire qualcuno, come nel romanzo “Quo vadis, baby?” di Grazia Verasani, o nel film “Angel Heart” di Alan Parker.
“I cinquanta nomi del bianco” di Franco Limardi è un noir che ha avuto buoni riscontri di pubblico e critica – dopo essere stato in concorso al premio Scerbanenco, è in corso di traduzione in Germania – e comincia, appunto, con una scomparsa (anche se noi sappiamo, per dirla con Marlowe, che “la ragazza è morta”). Un sottogenere del noir che inevitabilmente punta la lente d’ingrandimento della narrazione su coloro che si muovono sulle tracce di chi è sparito (in questo caso, una ragazza di nome Grazia); la tradizione esige che il segugio, o i segugi se ve n’è più d’uno, scoprano poco per volta scampoli di informazioni sulla persona che stanno cercando, e svelando i retroscena della sua vita apprendano dettagli che li spingano a confrontarsi con i luoghi bui della loro stessa anima. Questo tipo di narrazioni ci dà occasione di riflettere su quanta parte della nostra storia affondi le sue radici in un comune destino umano, al punto che nel romanzo “La passione del suo tempo” di John Le Carré il protagonista viene ammonito in merito al fatto che egli non sta cercando il suo amico scomparso per ritrovarne le tracce ma per diventarlo.
“I cinquanta nomi del bianco” rispetta in pieno, si può dire, questa tradizione. Anzitutto nei toni del racconto, che divide i suoi personaggi tra due categorie di soggetti: l’umanità degradata e quella dolente. Da una parte abbiamo individui sofferenti, soli, feriti dalla vita; dall’altra abbiamo antagonisti privi di scrupoli, sovente volgari anche nell’eloquio. Ciò che riscatta gli individui, sembra dirci con ciò Limardi, è anzitutto il sentire di avere un’anima ferita; tale consapevolezza può darci strumenti di riscatto, anche nella sconfitta.
Sulle tracce di Grazia si muovono in quattro: un ex detenuto improvvisatosi investigatore, un commissario in fine di carriera (e questi possiamo metterli tra i dolenti); mentre sul fronte opposto, quello dei degradati, ci sono un killer appartenente a una cosca di camorristi e un direttore di banca legato alla malavita organizzata. I quattro agiscono in una città resa spettrale dalla neve che cala su di essa, ove l’alleato può farsi nemico in un istante e, per contro, in altre circostanze può essere proprio l’avversario a offrire una insperata occasione. Climi alla Olivier Marchal, personaggi che vagano per la trama con movenze lente e nichiliste, e comprimari che inevitabilmente parlano la lingua dei mediocri o dei perdenti. Il nome del cineasta francese non è fatto a caso: Limardi usa una gestione cinematografica degli schemi narrativi (la vicenda è raccontata seguendo di volta in volta ciascuno dei quattro impegnati nell’indagine) e soprattutto dei tempi, con alcuni bruschi passaggi dal presente al passato che sarebbero perfetti in un film, ma che in un libro possono causare qualche momento di confusione al lettore.
Sul piano stilistico, risulta aspra il giusto la lingua usata dai personaggi nei dialoghi, costruita su un registro affine a quello del parlato con ampi prestiti dialettali; anche se a volte essa stride con i momenti di intenso lirismo prodotti dall’autore in talune descrizioni. C’è quella che sembra essere una volontà esplicita, da parte di Limardi, nel mescolare forme stilistiche diverse, dal botta-e-risposta serrato a un incedere descrittivo che generalmente non ci si aspetta in un romanzo noir. Questa scelta ha indubbiamente una sua forza (più volte il lettore si trova ad essere spiazzato da un repentino cambio di stile) ma forse qualche colpo di lima qua e là avrebbe giovato sul piano della scorrevolezza.
Menzione d’onore per la resa dei conti finale, dove realisticamente hanno la meglio i più forti e meglio organizzati (che non racconto chi sono, per non rovinarvi il gusto) anche se il libro si chiude su una sequenza che la dice lunga su come nessuno, tantomeno i vincitori, possa avere la meglio sul destino, né sapere dove questo andrà a parare.
Il romanzo I cinquanta nomi del biano, di Franco Limardi, semifinalista al premio Scerbanenco, è edito da Marsilio.