I settecento scalini – Capitolo uno – La fuga/V

V

Gli scalini erano scolpiti nella pietra scura, annerita da un fuoco sconosciuto. Ad ogni passo briciole di pietra si sfaldavano, alzando una polvere sottile.

Man mano che salivano l’aria si faceva più calda e umida; scavalcarono due creature che giacevano riverse, dilaniate dai colpi di spada; non c’erano fenditure sui muri, ma solo profonde incisioni, simili a graffi impossibili, in una lingua sconosciuta.

Il gigante, o più precisamente il mezzo gigante, saliva tre gradini alla volta, senza incertezze. Aveva il busto piegato in avanti, pronto all’attacco.

Il prigioniero lo seguiva a due passi di distanza, con il fiato corto. Si guardava intorno, cercando un segno, un punto cardinale, un appiglio per la sua memoria corrotta, senza trovarne. Quelle scritte non gli dicevano niente, così come il guerriero che lo precedeva.

Sentiva i passi felpati della Veggente, dietro di lui, ne avvertiva la presenza letale, ma avanzava lo stesso. I nemici, per ora, non erano loro. Ne percepiva la forza, la disciplina, e ne era colpito.

Perché erano venuti a salvarlo?

- Ci siamo, – disse il gigante, fermandosi alla fine delle scale, di fronte ad un porta in metallo.

Era ornata di borchie e spine appuntite. Alcune macchiate di sangue.

- Aspetta, Solomon, – lo fermò la donna, raggiungendolo.

Superò il prigioniero sfiorandolo appena, il suo tocco era come seta. Posò i palmi delle mani sulla porta chiusa, stando attenta a non ferirsi, e abbassò la testa.

Il prigioniero si sentì avvolgere da un’energia sconosciuta, i capelli corti gli si rizzarono sulla nuca. Poi tutto finì, come era iniziato.

- Andiamo, – disse la donna, spalancando la porta.

La luce bassa del tramonto li investì in pieno, accecandoli.

Poi, pezzo per pezzo, il mondo tornò a fuoco.

Le torri alte, diroccate, a formare un pentagono; il largo cortile inclinato; la statua decapitata al centro. Decine di sbarre arrugginite e contorte che spuntavano dal suolo come aculei. Gli scheletri, a decine, armati di spade e archi.

E una donna, in armatura dorata, che menava fendenti con precisione, armata di una spada di fuoco.

Una freccia si conficcò a mezzo metro dal braccio del prigioniero, e i particolari ripreso ad essere quel che erano: una fuga senza speranza.

Solomon, il mezzo gigante, spostò il prigioniero dietro di sé.

- Lyra, – chiamò, mostrandosi alla donna in armatura.

Altre tre frecce sibilarono, mancandoli di poco.

- Da questa parte, – indicò la Veggente, – via, corriamo.

Da quella parte c’era un arco mezzo crollato, quello che una volta doveva essere stato l’ingresso della cittadella. Non c’erano difese.

Si mossero insieme, vicini, spalla a spalla. Uno scheletro sbucò da un cumulo di rovine. Li fronteggiò con le sue orbite vuote e una spada smussata. Prima che riuscisse ad attaccare, la daga del mezzo gigante gli tranciò un braccio. La Veggente colpì con la stessa rapidità, decapitandolo.

Il vento ululava attraversando le rovine, in una lugubre ode. Il clangore delle armi e il raschiare dei piedi dei nemici si univano al canto.

Lyra recitò un’invocazione, e un muro di fuoco divampò tra lei e i nemici. Poi corse veloce verso i compagni.

Le frecce grandinavano attorno al loro con la Veggente che cercava di deviarne al direzione, alzando le mani e scacciandole come fossero insetti.

Erano ormai a pochi metri dell’arco quando la terra prese a tremare: lunghe crepe squarciarono la pietra, creando profonde fenditure.

Rallentarono, per non rischiare di cadere. Ma l’uscita era vicina, e al dì la della cittadella si stendeva un immenso deserto di cenere. Cinque cavalli sbuffano e nitrivano, pronti al galoppo.

Un grido.

Il prigioniero interruppe la corsa e si voltò.

La Veggente era in ginocchio. Da una crepa era scivolato fuori un groviglio di muscoli e tendini sanguinolenti dalle sembianze umane, e con gli artigli le stringeva la caviglia. Lei si divincolava, senza riuscire a liberarsi.

Il prigioniero attaccò senza pensarci.

La lama affondò nel braccio della creatura, che mollò la presa.

Poi si alzò di colpo, e rispose all’attacco. Con gli artigli ferì l’uomo al petto, e con le bocca cercò di morderlo con i suoi denti appuntiti. Da quei muscoli senza pelle colava un liquido denso, come sangue coagulato.

Il prigioniero arretrò di un passo.

La Veggente si stava rialzando, ma altre di quelle mostruosità stavano sbucando dalle fenditure, una dopo l’altra.

Il prigioniero tentò un affondo, ma il suo avversario fu più veloce, con un solo movimento evitò il colpo e ferì ancora.

Poi alzò entrambe gli arti per un ultimo attacco mortale, ma all’improvviso si immobilizzò, del sangue iniziò a sgorgare dalla sua bocca. E crollò al suolo.

Dietro di lui un uomo magro, avvolto da un mantello color cenere, stringeva un pugnale dalla lama incantata.

- Edwin, – disse facendo un piccolo inchino. – per servirla. Ora conviene proprio che ce ne andiamo.

Insieme alla Veggente raggiunsero gli altri, che li aspettavano sotto l’arco in rovina.

Gli scheletri e gli altri abomini si avvicinavano, ma le cavalcature erano pronte a condurli lontano.

Montarono in tutta fretta, e partirono al galoppo.

 

Sono libero, pensò l’uomo.

Stringeva le redini, mentre il cavallo galoppava in quell’infinito deserto di cenere.

Non sapeva chi fossero quei quattro combattenti, né perché avevano rischiato la vita per salvarlo. Domande che andavano ad aggiungersi a tutte le altre.

Ma per ora l’unica cosa che esisteva era il vento e il corpo del cavallo teso allo spasimo.

E la cenere che sia alzava intorno a loro, in nuvole enormi e minacciose, come appena prima di un violento temporale.

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I settecento scalini – Capitolo uno – La fuga/IV

IV

-Ne arrivano altri?

-Dalla porta nord.

- Lyra?

- Se ne sta occupando, ma dobbiamo sbrigarci.

- Edwin dove si è cacciato?

- Ha attaccato due creature, al cancello, poi è scomparso.

- Sarà andato a frugare tra i cadaveri. Non capisco perché Lyra lo voglia con noi.

- Ci ha guidato fin qui. Non dimenticarlo

Le due voci si avvicinavano, insieme ai loro passi. Pesanti e decisi. Il rumore del metallo di un’armatura, il frusciare di una bisaccia, il gocciolio del sangue sul pavimento.

E’ malvagio. Non mi fido di lui.

- E’ un assassino. E tanto basta. Ora taci, dovrebbe essere vicino.

Il silenzio non esisteva più. Bisbigli di altri prigionieri, grida di dolore, altri passi, e lontano il rumore inconfondibile di una battaglia. Aprì gli occhi. Ancora accecati dall’esplosione. Era disteso in terra. qualcosa era successo, l’esplosione l’aveva spinto contro il muro, facendogli perdere i sensi. Provò a muovere le mani, poi le gambe. Digrignare i denti. Dolore, ma a quello era abituato. Chiuse gli occhi e li riaprì appena. Ombre. Confuse. Che si delineavano sempre più. 

Due ombre. 

Due voci. Un uomo e una donna.

Non abbiamo più tempo.

- Aspetta. Credo di averlo trovato, lo sento.

- Sbrigati, dannazione.

I passi sempre più vicini. Ormai nella cella. Accanto a lui. Li avvertiva più che vederli. Uno enorme, la sua ombra lo investiva come una notte senza luna. La donna era esile. Ma la sua voce era un rasoio dalla lama affilata.

E’ lui?

- Sì.

- Aiutami ad alzarlo. Dobbiamo portarlo via.

Sentì mani decise stringersi attorno alle sua braccia; la sua mente si mosse rapida, così rapida che sembrò che il tempo stesso rallentasse, che le voci intorno si dilatassero, assumessero forme lunghe e viscose, i movimenti un interminabile alzarsi della marea. Sentì dentro di sé una forza sconosciuta pronta a balzare, fredda e letale. Ma non solo. Sentì anche una calma glaciale, precisa, diretta a cogliere ogni opportunità.

Non capiva cosa cercassero quei due combattenti da lui, ma se l’avessero condotto fuori da quella prigione, allora li avrebbe lasciati fare. Almeno per ora.

- Svegliati maledizione, – disse il gigante strattonandolo.

Aprì completamente gli occhi.

A pochi centimetri dal suo, il volto del gigante era immenso; occhi enormi lo fissavano con rabbia. Una lunga cicatrice pallida gli divideva il viso.

- Siamo venuti a liberarti, – sussurrò la donna, di fianco a lui. – Appoggiati a noi. Adiamo.

Riuscì solo da darle un’occhiata veloce, notò che non era umana. Aveva capelli nerissimi legati in una coda di cavallo che arrivava fin quasi al suolo. Il viso appuntito, gli occhi bianchi, all’apparenza ciechi. Una veggente.

Il corridoio era stretto, invaso da ciò che rimaneva delle porte squarciate dall’esplosione.

Mani scheletriche si allungavano come a tastare l’aria di quella improvvisa e insperata libertà. Mani vogliose, che brillavano nella luce fioca.

Non c’erano torce, una luminescenza malsana saliva dal terreno creando un bosco d’ombra.

Si mossero in fretta, nonostante facessero fatica a camminare. Sorpassarono il corpo di una creatura dilaniata, ancora sanguinante, senza fermarsi.

Il fuggitivo sbirciò all’interno delle celle: vide occhi nel buio guardarlo con stupore poi con odio crescente. Feroce. Famelico. Ma nessuno li bloccò.

- Ce la fai a camminare da solo?

Avevano raggiunto le scale.

Il gigante era alto almeno due spanne più di lui, torace largo, coperto da un’armatura di pelle e scaglie. Lo scrutava, valutandone le reali condizioni, come un cavaliere osserva la giumenta che lo porterà in guerra.

- Credo di sì, – rispose l’uomo.

Si sorprese a sentire la propria voce, arrochita dal troppo silenzio.

- Sì, – ripeté, assaporando il suono di quella parola.

Il gigante estrasse una lunga daga, e guardò in alto, da dove arrivava il frastuono della battaglia.

Il prigioniero d’istinto si tastò il fianco, in cerca di un’arma.

- Prendi.

La Veggente gli porgeva un lungo pugnale dalla lama ricurva.

Non era molto, ma poteva bastare.

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I settecento scalini – Capitolo uno – La fuga/III

III

 Il silenzio che di solito veniva riempito dall’incessante e fosforescente vita del sottosuolo, quel giorno era spesso e pesante. Assordante. Vuoto.

Come se ogni cosa, la pietra dura, la terra macchiata di urina, la porta di ferro, tutti gli insetti e i mangiatori di cadaveri stessero trattenendo il respiro.

L’uomo si alzò in piedi, si appiattì contro la porta di ferro e ci posò sopra l’orecchio.

Era fredda. Percepiva però una leggera vibrazione scorrerle attraverso.

Qualcosa di muoveva, lontana ma inequivocabile.

Con le dita cercò i contorni della piccola guardiola. Rispetto alla porta era una fine lastra di ruggine. Forse era venuto il momento di tentare qualcosa.

Inspirò a fondo, toccò con il palmo il piccolo rettangolo di metallo, e colpì.

Il rumore riempì la cella, i corridoi, in un’esplosione improvvisa.

L’uomo si allontanò dalla porta, si accovacciò nel buio e rimase in ascolto.

Aveva male ai timpani, tanto il frastuono del metallo aveva perforato il silenzio.

Aspettò di sentire i passi delle creature, pesanti e goffe, minacciose.

Trattenne il respiro.

Pian piano il silenzio scese come neve tornando a coprire ogni cosa.

Cosa stava accadendo?

Dov’erano finite le guardie? Quelle creature che aveva intravisto dal misero rettangolo della guardiola; gli occhi biliosi, il fetore che entrava a zaffate? Non era mai successo che non si facessero sentire per tanto tempo, né che non punissero una qualsiasi insubordinazione, fosse un insulto, un gesto, una preghiera. Lui ne portava ancora le cicatrici. Le sentiva, lunghe e smussate sul braccio. I loro artigli e il loro veleno.

Era la prima volta che le vedeva ma sapeva di conoscerle, quelle maledette creature del buio. Quando lo avevano punito, erano entrate nella cella circondate da un buio ancora più fitto, oleoso, allucinante. Ricordava però di averle smembrate, in un passato imprecisato, una ad una, a decine. Con la stessa facilità con cui si falcia l’erba. Ma forse il suo non era altro che un sogno, un desiderio nato dalla rabbia e dall’impotenza.

Si avvicinò alla finestra di metallo e picchiò di nuovo, con tutta la forza che aveva.

Il boato di nuovo esplose, ma questa volta non lasciò che si spegnesse.

Colpì ancora, e ancora: sentiva le dita sanguinare e il metallo piegarsi.

Poi la finestrella saltò via, come un proiettile.

Lasciò che il respiro tornasse normale e si mise ancora in ascolto.

Il solito silenzio spesso percorso però da una vibrazione costante, come una crepa.

Sbirciò dalla finestrella.

Una fredda luminescenza arrivava dal corridoio, serpeggiando fino alle celle. Lasciò che gli occhi si abituassero a quella luce: vide le porte delle altre celle, a decine, il corridoio in pietra nera e, in fondo, scorse quelle che potevano essere delle scale che salivano.

Una via di fuga.

Infilò il braccio nella breccia, cercando un appiglio, qualcosa su cui fare leva, per aprire la porta. Non trovò altro che metallo.

Studiò la cella di fronte a lui, e vide che sulla destra c’era un incavo, una fessura. Forse la serratura, comunque qualcosa.

Sentì bisbigliare, e la voce di qualche prigioniero – umano e meno – alzarsi, chiedersi cosa stesse accadendo. Qualcuno iniziò a picchiare contro le pareti, a gridare.

Doveva sbrigarsi.

Provò a raggiungere con la mano la fessura sulla porta. Allungò il braccio il più possibile. La spalla gli doleva, sentiva l’articolazione tendersi, il ferrò arrugginito segargli l’ascella.

Con la punta delle dita avvertì la fessura.

Si spinse ancora più a fondo.

Poi arrivò l’esplosione.

E tutto si fece bianco.

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I settecento scalini – Capitolo uno – La fuga/II

II

Nel silenzio della prigione, erano i minuscoli rumori a riempire il vuoto.

Gocce d’acqua che scivolavano lente sulle pareti, andando ad accasciarsi sul pavimento; i passi di una guardia nel corridoio; le grida di dolore e disperazione di qualcuno, a qualche cella di distanza. O i suoi passi, uno e mezzo per la precisione, avanti e indietro, i balzi a fiato trattenuto, le flessioni contate e misurate per conservare l’energia. Per esser pronto.

Per cosa?

Fissava le sue mani stringersi attorno all’aria, soffocandola, senza vederle davvero, percependone i contorni, nulla più.

I primi giorni un dolore lancinante aveva sventrato le sue carni, le sue viscere, e portato via la coscienza. Il presente non esisteva, si confondeva continuamente con sogni di dolore e odio, vendetta, e ancora odio. Viveva pochi momenti di veglia, ansimante e contratto, poi il dolore tornava, la coscienza fluiva via, disperdendosi in mille schegge taglienti.

Avvertiva il punto di origine di quel dolore, proprio al centro del petto, e toccandolo ne percepiva i contorni, come un tatuaggio di cui non comprendeva la forma.

Le domande che lo avevano perseguitato in quei brevi momenti di lucidità erano sempre le stesse, se le ripeteva come una cantilena, un mantra. Dove mi trovo? Chi mi ha rinchiuso in quella tomba? E perché?

Poi, lentamente, tra bile e sangue, il dolore si era attenuato, come una febbre che piano guarisce, e lui era tornato padrone del suo corpo.

Non della verità.

Le domande erano state sostituite da una più importante e pressante.

Lui, chi era?

Ma se la sua identità era importante, aveva capito che lo era ancora di più fuggire da lì. Chiunque fosse e qualsiasi delitto avesse commesso.

Capire chi era per poi morire o impazzire lì dentro non era di alcun conforto.

Così aveva scoperto che poteva arginare il panico, rinchiuderlo in una parte sconosciuta di sé e tenerlo a bada.

E aveva iniziato a rivivere.

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I settecento scalini – Capitolo uno – La fuga/I

Dal pagliericcio si mosse qualcosa.

Un fruscio, poi un topo sbucò nel buio, correndo verso il muro. L’uomo si mosse fulmineo. Un attimo prima era disteso, il respiro regolare di chi sta ormai dormendo da tempo. Un secondo dopo le sue unghie si conficcavano nel pelo ispido del roditore, fino ad arrivare al suo cuore in tumulto.

Aveva fame.

Non si ricordava da quanto non gli portassero da mangiare, giorni, forse. Aveva succhiato dalle pareti l’umidità che si raccoglieva agli angoli. I suoi occhi si erano ormai adattati a quel buoi continuo.

Ecco, pensò guardando il corpo del roditore, mi sto trasformando in un topo. Nulla più. Un maledetto topo.

Scagliò il corpo dell’animale contro una parete, vide il suo corpo afflosciarsi sul pavimento di terra dura. Seguito da una scia di sangue scuro.

Con le mani toccò le pareti, cercando i segni che aveva inciso per calcolare il passare del tempo da quando si era svegliato.

Tre mesi.

Tre mesi di buio assoluto, scandito dall’aprirsi della minuscola guardiola, dove una creatura sempre diversa gli buttava dentro cibo avariato e acqua avvelenata.  Tre mesi o forse qualcosa di più.

In tutto quel buio assordante, giorno dopo giorno si era ripreso. I muscoli paralizzati si erano via via sciolti e gonfiati di nuovo. I sensi si erano affinati, le unghie appuntite come artigli, ma soprattutto la sua mente aveva smesso di spegnersi d’improvviso, lo stato di veglia non era più un susseguirsi di lampi, accesi e spenti. Per quanto fosse rimasto incosciente non lo sapeva, come non sapeva perchè fosse stato rinchiuso in quella prigione.

Soprattutto, non ricordava chi fosse.

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Body of evidence

Solitudine Ci sono indagini in cui le ombre si fanno solide, assassini sfuggenti  diventano reali, volti riconoscibili, nomi e cognomi. Gli indizi sono pietre preziose, le testimonianze pezzi di un puzzle e l’anatomopatologo il tuo più grande amico. Così, la ricerca di giorni, mesi, a volte anni, assume un senso, quasi un risarcimento.

E poi ci sono i casi come questo.

Borgaro.
Mattino presto.
Il freddo gela ancora le ossa degli operai al lavoro sulla strada. La Torino-Caselle, una lingua d’asfalto ancora ghiacciata, qualche rattoppo da fare, l’inverno è ancora lungo.
I due posano gli attrezzi nell’erba, oltre il guardrail, spostando i cespugli, svelando qualcosa che li lascia sgomenti.
Lì, seminascosta dalle sterpaglie, c’è il corpo di una donna.

Arrivo con gli Agenti della Stradale.
Qualche settimana fa è morta una prostituta, è stata uccisa, e potrebbe essere lo stesso assassino, non si sa mai.Appena vedo il corpo, orrendamente sfigurato, capisco che non può essere lo stesso caso.
Il cadavere è quello di una donna anziana, minuta, ricurva su se stessa.
Il volto è irriconoscibile,  l’assassino deve aver infierito più e più volte, forse per nasconderne l’identità, forse per rabbia o per un tardivo senso di colpa.

Intorno a noi si sente solo lo sfrecciare della auto sulla strada, il rombare degli arerei che atterrano, poco distante. Nessuna parola.
E’ come se fossimo in ascolto, in attesa di una rivelazione, di un segno.
- Di certo non è morta da poco, – rompe il silenzio il medico legale, arrivato da poco.
L’incanto si rompe, e tutti si mettono a lavoro.
Tranne gli operai, ancora frastornati, appoggiati al guardrail.

Me ne vado, in auto ripenso a quel corpo indifeso chiedendomi chi possa aver commesso un omicidio del genere. E come. Una vecchia donna, inerme, indifesa.
Non c’erano segni di arma da fuoco, né ferita da taglio. Non nel corpo, almeno. Quanto al viso…

Ci sono indagini che si sviluppano al contagocce. Una pioggia rada che inumidisce appena la strada. Tu sei lì, ma per quanto ti muovi le cose non cambiano.
Altre invece sono una pioggia d’aprile.
Ti inzuppano fino al midollo, e quel freddo che senti non ti abbandona che  giorni e giorni dopo.

Faccio qualche domanda nella sezione persone scomparse.
In questi casi bisogna partire dalla vittima, e non ci vuole molto a capire di chi si tratti.
Alian Chen, cinese, di settantasei anni. Scomparsa l’undici giugno.
Il figlio ha sporto denuncia, ma troppo tardi.
Infatti qualche giorno dopo la sua scomparsa, i carabinieri hanno fermato un’anziana signora ad una stazione di servizio. Era sola, ma non stava male. Sorrideva, e annuiva rassicurante a tutte le loro domande. L’han lasciata lì, non c’era alcuna denuncia di scomparsa, e lei sembrava così sicura di sé, con quella gentilezza che toccava il cuore.
Così è rimasta sola, in quella stazione di servizio.
Poi è scesa la notte.

Finisco di leggere il rapporto e tutto diventa più chiaro.
Non sono passate che dodici ore dal ritrovamento del cadavere e già il puzzle si ricompone.

Esco dalla stazione di Polizia e incrocio il figlio della donna.
Mesi prima aveva anche messo una ricompensa per chi avesse ritrovato sua madre.
L’hanno ritrovata due operai, ma ormai non c’era più niente da fare.

Lascio l’auto e raggiungo a piedi dove è stato trovato il corpo di Chen.
Il nastro della Polizia vibra nevrotico al vento. Al centro della zona, l’erba schiacciata a formare una vaga figura umana. Minuscola e sola.

Non c’è nessun assassino da stanare, in questa indagine.
Solo cause naturali, il freddo, la fame, e un malore improvviso.
E la solitudine.
Il suo volto è stato sfigurato dalle intemperie, non c’è mistero, non c’è enigma da risolvere.
Solo un’amara sensazione, umida come quest’erba.
Solo il Caso, che a volte ghigna in incontri e coincidenze degne di una piccola tragedia della solitudine.

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Le coincidenze dei corpi

Sorrido, nonostante tutto. Oggi mi sento vivo.
Ho un appuntamento, e il giorno stesso sembra gioire con me.  La luce del mattino entra dalla finestra in una lunga onda dorata, bagnando il pavimento lucido, il tavolo e questa sedia scomoda su cui sono seduto.

Cosa unisce due uomini, entrambi scomparsi nel nulla due anni fa, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro?

Alessandro Nizzia era un uomo tranquillo, viveva nella Casa dell’Ospitalità di Ivrea, una comunità alloggio per persone affette da problemi psichiatrici. La sua vita di routine era semplice, fatta di piccoli lavori quotidiani, le medicine, a volte la rabbia, altre un sorriso pieno d’affetto. Aveva cinquantacinque anni, Alessandro, quando un giorno di novembre del duemilanove è scomparso. Senza dir nulla, o forse solo accennando un tornerò.

Aspetto che sia mezzogiorno, aspetto, sono già pronto. Ho indossato il maglione nuovo, grigio chiaro, la camicia blu, a righe. Ho indossato il mio sorriso migliore. A loro piace. Si sentono accolti, e poi ho la voce. Calda, li circonda come un abbraccio. E’ così facile…

Ezio Lanzarone non era poi tanto diverso da Alessandro Nizzia. Se li si guarda in viso, c’è qualcosa che li accomuna al di là dei tratti somatici, della calvizie incipiente di uno, dei capelli disordinati dell’altro. Forse qualche ruga, o un misterioso riflesso nei loro sguardi.
Chi è Ezio?
Anche lui è un malato psichiatrico, che fino al ventun luglio del duemilanove viveva a Villa San  Secondo, a Moncrivello – provincia di Ivrea. Villa San Secondo è una struttura sanitaria. Non poi troppo diversa dalla Casa dell’Ospitalità.
E dopo il ventun luglio, che fine ha fatto, Ezio?
Nessuna notizia. Scomparso.

Almeno fino ad un sabato, era novembre duemilanove, quando il suo corpo – smembrato – viene ritrovato da un agricoltore in un terrapieno a pochi metri dalla Dora, nelle campagne di Borgomasino, vicino a Ivrea.

Chiudo la porta con quattro mandate, raddrizzo lo zerbino, mi tolgo la polvere dalla scarpa destra. Guardo l’ora: sono puntuale. Lo sarà anche lui, come sempre. Lo sono sempre.
Fuori, Gianni mi saluta con la mano, da dentro l’edicola, ricambio il saluto. Sento le voci della strada farsi sempre più lontane, un brusio indistinto che lentamente scompare, lasciando il posto al suono ritmico e chiaro del mio cuore, che rimbomba nell’abitacolo.

Due giorni dopo il ritrovamento del corpo di Ezio, Alessandro Nizzia scompare nel nulla. Per lunghi ed estenuanti mesi.
Fino a pochi giorni fa.
Il suo corpo viene scoperto per caso da due cacciatori.
Il cadavere – smembrato, anche il suo – è stato ritrovato in un terrapieno a pochi metri dalla Dora, nelle campagne di Borgomasino. Come quello di Ezio. Esattamente come quello di Ezio.

Le coincidenze iniziano a trasformarsi in qualcosa di più.

Due uomini, Alessandro ed Ezio,  entrambi affetti da una patologia psichiatrica, sono scomparsi a pochi mesi di distanza uno dall’altro. Tutti e due vivevano nella provincia di Ivrea.
Tutti e due – i loro corpi, almeno -ritrovati nello stesso, maledetto posto.
A pochi metri di distanza, entrambi smembrati.

Lo vedo. Sta uscendo dalla clinica. Saluta gli educatori. Pochi si accorgono davvero di come è felice. Un suo amico lo sta aspettando, ma nessuno lo sa. E’ il nostro segreto. L’ha custodito fin’ora, e tanto basta.
La sua ombra lo precede, leggermente sbilenca.

Esco dall’auto e gli faccio un cenno. Sono qui, gli dico.
Sono qui.

Dopo il secondo cadavere – quello di Alessandro – sono stati riaperti i fascicoli di tutti i pazienti psichiatrici scomparsi e mai più ritrovati.
Perchè Alessandro ed Ezio possono non essere stati i primi, e forse non saranno nemmeno gli ultimi.

Perchè qualcuno è lì, nell’ombra.
Qualcuno dagli artigli affilati, dalle zanne ricurve.
Qualcuno di noi, in attesa.

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Cold case e assassini seriali

Immaginate un laboratorio, i toni non sono quelli scintillanti di CSI Miami, mancano soprattutto i neon, verdi, azzurri, che nel telefilm ammanta ogni cosa, dalle prove, ai testimoni, agli assassini.
Di certo c’è del grigio, in questo laboratorio, immagino anche scaffali sbeccati, agli angoli, il ronzio costante di qualche strumento, dei frigo sempre accesi.
Ma nonostante la penombra, c’è un cuore che è lo stesso, sono chip, è tecnologia, microscopi, computer.

Non sempre arrivare alla soluzione di un omicidio, o del volto di un serial killer, porta all’arresto di qualcuno. Ad una sentenza, ad una condanna. A volte però è la verità ad essere importante. Più di qualsiasi pena.

Partiamo da un trapano.
E da una donna. Clotilde Zambrini. Settantatré anni.
Siamo nel 2003 e Torino si sveglia macchiata da un omicidio efferato. Un’anziana donna è stata uccisa, selvaggiamente, con un trapano. Non un colpo di pistola, una lampada, una mazza, ma con la punta di un trapano.
La Polizia indaga. Tra tutto quel sangue, paradossalmente ci sono pochi indizi. Qualche frammento, o poco più.

C’è anche qualcosa – qualcuno – il cui nome compare anche sui rapporti di un altro delitto. E’ stato interrogato per la signora Zambrini, ma il suo volto non è nuovo.

Siamo nel 1997, sempre a Torino. Un’altra vittima, sempre un’anziana signora, Maria Carolina Canavese. E tra le persone interrogate, coinvolte o meno nei fatti, lo stesso nome.

Due donne, uccise, a distanza di sei anni, un unico filo conduttore.

Torniamo a quel laboratorio. Che rispetto al 1997, al 2003, si è trasformato. Ora, riesce a vedere l’invisibile, il dna, e trasforma i sospetti in certezza, e non solo. Unisce due tracce di sangue, due anziane uccise, ad una terza. Con una sicurezza estrema, unica.

Perchè il Dna non mente.
“Un serial killer o assassino seriale è un omicida  plurimo, di natura compulsiva, che uccide, con una certa regolarità nel tempo, persone spesso a lui totalmente estranee. La natura compulsiva dell’azione, in genere del tutto priva di movente, è spesso legata a traumi nella sfera emotiva  e/o sessuale.”

E ancora:

“Tecnicamente si considera “serial killer” chi compie tre o più omicidi distribuiti in un arco relativamente lungo di tempo, intervallati da periodi di “raffreddamento” durante i quali il serial killer conduce una vita sostanzialmente normale.

Tre o più omicidi.  Tre anziane donne.
Un unico assassino, o meglio, un assassino seriale.

Due vittime a Torino. Una a Genova, perchè è nel capoluogo ligure che il killer ha colpito la prima volta, usando un trapano, la sua arma, la sua firma.

Ma solo oggi, a distanza di anni, in quel laboratorio che è più grigio che rigato di neon fluorescenti, si è riuscito a dare un volto certo all’assassino.

Lui, è un uomo di cinquant’anni, di origine Marocchina. In quegli anni aveva svolto da tutte e tre le vittime dei lavori di manutenzione, di piccolo artigianato. Non c’era molto altro a collegarlo alle donne, c’erano sospetti, sì, ma nient’altro. Fino ad oggi.
L’assassino non è però stato arrestato. E’ morto, ormai cinque anni fa.

Ma non fa niente.
La verità è quella che ci interessa.
Nel rispetto delle vittime, per noi stessi.
Perchè non importa quando, la verità viene comunque fuori, e lentamente ma progressivamente, come una cometa, la scienza sembra avvicinarsi al cuore stesso del male, e chiamarlo con tutti i nomi, e cognomi, di cui è capace.

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Silenzio

Il velo di nebbia cala, finalmente, ma ciò che rimane è assurdo e desolante.

Marina Patriti, dicono gli inquirenti, è stata uccisa. Quel giorno di febbraio, forse il giorno dopo. Non è fuggita, non è solo scomparsa. E’ stata uccisa.

Come al solito, tutte le storie, tutte le tragedie, hanno lo stesso schema, i moventi sono pochi. Nei romanzi, nella vita, è uguale.

Amore, vendetta, gelosia.

Mischiate i tre ingredienti, come hanno fatto i Carabinieri che hanno indagato, e ne esce un nome. Maria Teresa Crivellari.

Era l’amante di Giacomo, marito di Marina. Per due anni hanno condiviso un amore clandestino.  Poi, più nulla, almeno per lui.

Amore, dicevamo, contaminato dalla gelosia, si trasforma in vendetta.

Non aveva accettato di essere stata accantonata, non per quella donna, sua moglie. No, non poteva accettarlo. Così aveva iniziato con le minacce.

Messaggi in continuazione, di chi non accetta, di chi si sta allontanando da una realtà, chiusa in una stanza di ricordi e speranze. Una stanza dalle pareti rosse e nere. E viola.

Dietro all’omicidio di Marina non c’è solo lei. Ci sono complici, che hanno aiutato, nascosto, forse ucciso.

Rapimento, omicidio volontario e occultamento di cadavere.

Tre reati che già a scriverli ti tremano le mani, o ti proiettano in un telefilm americano, non nella provincia di Torino, non qui da noi.

Ecco, la nebbia si è alzata, ma il cielo rimane una lastra di metallo scuro, da cui non filtra nemmeno un raggio di sole.

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Si alza la nebbia

Novembre, la nebbia si alza in lunghe spire avvolgendo gli alberi, le strade, i campi incolti. Le persone. La nebbia ha avvolto Marina Patriti nove mesi fa. L’ha inghiottita una mattina di febbraio, portandola via dai suoi familiari, da un marito, da tre figli.

La nebbia.

Cammino per le strade di Bruino, ogni passo mi riporta indietro di un giorno, ottobre, settembre, agosto, così via, ogni passo la nebbia si disperde, ci avviciniamo a una vita passata tra alti e bassi, come la vita di tutti. O forse no.

Perchè una mattina, il 18 febbraio, qualcosa si incrina. O meglio, si spezza. E’ mattina, c’è nebbia, come oggi. Martina esce di casa, con la figlia. L’accompagna all’asilo.  Come ogni mattina. Poi, la spesa.

Gesti quotidiani che però, quella mattina, forse nascondono altro. Giacomo, il marito, è al mercato. Lavora, come sempre. Qualche messaggio con la moglie, tutto normale, fino all’ultimo, alle 12,43.

Vai a prendere il bambino a scuola che me ne sono andata.

Lui, Giacomo, non si scompone. Conosce la moglie, hanno condiviso quasi venticinque anni della loro vita, ne hanno passate tante. E’ già capitato che Martina reagisse così, magari dopo una lite, o un periodo difficile.

Poi, però, una vicina di banco, gli porge qualcosa. Un portafogli. Una lettera. Dice che glieli ha dati sua moglie. Ma quello non è il suo portafogli. Ne è certo. La lettera, invece,quella sì.

Me ne sono andata via… non ti preoccupare dei bambini, un giorno capiranno.

Ci sono anche le chiavi della macchina. La nebbia, intanto, invece d ritirarsi, con il giorno, si infittisce.

La sera Giacomo decide di avvertire i Carabinieri. Ha trovato l’auto della moglie. Abbandonata in uno spiazzo, a Villarbasse. C’è la spesa fatta, c’è il sedile del guidatore spostato in una posizione che non è quella di Martina.

E c’è il silenzio, e i dubbi.

Il tempo passa, giorni che portano domande, le dilatano fino allo spasimo, si contorcono, diventano nebbia.

I carabinieri, intanto, indagano. Le possibilità sono molte, alcuni particolari rendono il vetro della realtà opaco, lo sporcano di dubbi. Come un’eredità, trovata nel conto della donna. Seicentomilaeuro. E un amante. Che un tempo aveva diviso la coppia. Domande, ancora domande. E il tempo che passa, gocciola via giorno dopo giorno, nove mesi.

A Bruino, oggi, la nebbia non accenna a disperdersi. Rimane la voce di un marito, in attesa. E noi, a seguire le tracce di Martina, inseguendo i suoi sogni. I suoi incubi. Inseguendo noi stessi. Le nostre paure più oscure. Perdendoci nella nebbia.

Come sempre.

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