V
Gli scalini erano scolpiti nella pietra scura, annerita da un fuoco sconosciuto. Ad ogni passo briciole di pietra si sfaldavano, alzando una polvere sottile.
Man mano che salivano l’aria si faceva più calda e umida; scavalcarono due creature che giacevano riverse, dilaniate dai colpi di spada; non c’erano fenditure sui muri, ma solo profonde incisioni, simili a graffi impossibili, in una lingua sconosciuta.
Il gigante, o più precisamente il mezzo gigante, saliva tre gradini alla volta, senza incertezze. Aveva il busto piegato in avanti, pronto all’attacco.
Il prigioniero lo seguiva a due passi di distanza, con il fiato corto. Si guardava intorno, cercando un segno, un punto cardinale, un appiglio per la sua memoria corrotta, senza trovarne. Quelle scritte non gli dicevano niente, così come il guerriero che lo precedeva.
Sentiva i passi felpati della Veggente, dietro di lui, ne avvertiva la presenza letale, ma avanzava lo stesso. I nemici, per ora, non erano loro. Ne percepiva la forza, la disciplina, e ne era colpito.
Perché erano venuti a salvarlo?
- Ci siamo, – disse il gigante, fermandosi alla fine delle scale, di fronte ad un porta in metallo.
Era ornata di borchie e spine appuntite. Alcune macchiate di sangue.
- Aspetta, Solomon, – lo fermò la donna, raggiungendolo.
Superò il prigioniero sfiorandolo appena, il suo tocco era come seta. Posò i palmi delle mani sulla porta chiusa, stando attenta a non ferirsi, e abbassò la testa.
Il prigioniero si sentì avvolgere da un’energia sconosciuta, i capelli corti gli si rizzarono sulla nuca. Poi tutto finì, come era iniziato.
- Andiamo, – disse la donna, spalancando la porta.
La luce bassa del tramonto li investì in pieno, accecandoli.
Poi, pezzo per pezzo, il mondo tornò a fuoco.
Le torri alte, diroccate, a formare un pentagono; il largo cortile inclinato; la statua decapitata al centro. Decine di sbarre arrugginite e contorte che spuntavano dal suolo come aculei. Gli scheletri, a decine, armati di spade e archi.
E una donna, in armatura dorata, che menava fendenti con precisione, armata di una spada di fuoco.
Una freccia si conficcò a mezzo metro dal braccio del prigioniero, e i particolari ripreso ad essere quel che erano: una fuga senza speranza.
Solomon, il mezzo gigante, spostò il prigioniero dietro di sé.
- Lyra, – chiamò, mostrandosi alla donna in armatura.
Altre tre frecce sibilarono, mancandoli di poco.
- Da questa parte, – indicò la Veggente, – via, corriamo.
Da quella parte c’era un arco mezzo crollato, quello che una volta doveva essere stato l’ingresso della cittadella. Non c’erano difese.
Si mossero insieme, vicini, spalla a spalla. Uno scheletro sbucò da un cumulo di rovine. Li fronteggiò con le sue orbite vuote e una spada smussata. Prima che riuscisse ad attaccare, la daga del mezzo gigante gli tranciò un braccio. La Veggente colpì con la stessa rapidità, decapitandolo.
Il vento ululava attraversando le rovine, in una lugubre ode. Il clangore delle armi e il raschiare dei piedi dei nemici si univano al canto.
Lyra recitò un’invocazione, e un muro di fuoco divampò tra lei e i nemici. Poi corse veloce verso i compagni.
Le frecce grandinavano attorno al loro con la Veggente che cercava di deviarne al direzione, alzando le mani e scacciandole come fossero insetti.
Erano ormai a pochi metri dell’arco quando la terra prese a tremare: lunghe crepe squarciarono la pietra, creando profonde fenditure.
Rallentarono, per non rischiare di cadere. Ma l’uscita era vicina, e al dì la della cittadella si stendeva un immenso deserto di cenere. Cinque cavalli sbuffano e nitrivano, pronti al galoppo.
Un grido.
Il prigioniero interruppe la corsa e si voltò.
La Veggente era in ginocchio. Da una crepa era scivolato fuori un groviglio di muscoli e tendini sanguinolenti dalle sembianze umane, e con gli artigli le stringeva la caviglia. Lei si divincolava, senza riuscire a liberarsi.
Il prigioniero attaccò senza pensarci.
La lama affondò nel braccio della creatura, che mollò la presa.
Poi si alzò di colpo, e rispose all’attacco. Con gli artigli ferì l’uomo al petto, e con le bocca cercò di morderlo con i suoi denti appuntiti. Da quei muscoli senza pelle colava un liquido denso, come sangue coagulato.
Il prigioniero arretrò di un passo.
La Veggente si stava rialzando, ma altre di quelle mostruosità stavano sbucando dalle fenditure, una dopo l’altra.
Il prigioniero tentò un affondo, ma il suo avversario fu più veloce, con un solo movimento evitò il colpo e ferì ancora.
Poi alzò entrambe gli arti per un ultimo attacco mortale, ma all’improvviso si immobilizzò, del sangue iniziò a sgorgare dalla sua bocca. E crollò al suolo.
Dietro di lui un uomo magro, avvolto da un mantello color cenere, stringeva un pugnale dalla lama incantata.
- Edwin, – disse facendo un piccolo inchino. – per servirla. Ora conviene proprio che ce ne andiamo.
Insieme alla Veggente raggiunsero gli altri, che li aspettavano sotto l’arco in rovina.
Gli scheletri e gli altri abomini si avvicinavano, ma le cavalcature erano pronte a condurli lontano.
Montarono in tutta fretta, e partirono al galoppo.
Sono libero, pensò l’uomo.
Stringeva le redini, mentre il cavallo galoppava in quell’infinito deserto di cenere.
Non sapeva chi fossero quei quattro combattenti, né perché avevano rischiato la vita per salvarlo. Domande che andavano ad aggiungersi a tutte le altre.
Ma per ora l’unica cosa che esisteva era il vento e il corpo del cavallo teso allo spasimo.
E la cenere che sia alzava intorno a loro, in nuvole enormi e minacciose, come appena prima di un violento temporale.