NON C’E’ PIETA’ PER NESSUNO

Ecco quello che siamo: siamo un popolo di martiri. Un piccolo popolo, senza patria, nascosti dietro le dune di sabbia o negli anfratti delle boscaglie.
Persone nascoste, senza nome. Un nome che si manifesta soltanto il giorno dopo, quando ormai è troppo tardi.
Ed i tuoi fratelli gridano “all’orrore!”. Gli stessi fratelli che per anni non sapevano nemmeno quale fosse il tuo pensiero, gli stessi fratelli che oggi rimpiangono di non averti conosciuto. Io per prima.
Quella gente che, fissa davanti agli schermi colorati, una bottiglia di birra in mano, fanno lo slalom fra cosce di ragazze e reality show.
Questo siamo: un popolo di cartapesta. Paghi delle nostre belle case, delle nostre auto potenti e dei nostri debiti, purchè si possa apparire ciò che non siamo.
Eppure hai un fratello, quello che non hai mai conosciuto,  che si alza al mattino e spera che il bambino che ha soccorso ieri fra la polvere possa ancora avere un futuro. Quello che ha lasciato tutto per attraversare le trincee, indossare la propria pelle e non chiedere nulla a nessuno. A lui quando “manca la benzina” è solo perchè la camionetta  ha smesso di correre in mezzo alle bombe.
Quello che è armato del suo bisturi e seguita a dire che ogni figlio di questa terra è figlio di tutti. Mio, di te che stai leggendo e di chi non leggerà mai il mio sconforto.
Fratelli che vivono nell’ombra e muoiono sulle pagine dei giornali.  A loro è dedicata la notizia, la stessa che fra poco verrà dimenticata da tutti, soprattutto da noi che restiamo vivi con la morte incollata alle vene e non ce lo ricordiamo mai che abbiamo a disposizione solo un attimo per vivere.
Uomini. Gente comune. Poco più che ragazzi. Nati col desiderio di dare, di fare. Troppo o poco che sia non ha importanza, loro sono li.
Noi a guardare, a commentare, a disapprovare, ma in definitiva a non esserci mai.
Sento piangere le loro madri, i loro padri e le loro compagne. Affossati nell’impotenza, a sorreggere una bandiera che appoggeranno sulle loro bare. Un tricolore nel quale il rosso ha preso il sopravvento e sul quale il nero si sta facendo strada, infido come il demonio.
A voi fratelli invisibili, a voi è dedicato oggi il mio pensiero e la mia parola.
La vostra, non si potrà più sentire.

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LE TRACCE DI UN LENTO CAMMINO

E’ dolcezza, è fragilità, è la forza di stare ancora per mano.
Resto a guardarli, fermo l’immagine, la lascio vibrare nel cuore.
Camminano assieme, uno a sorreggere l’altro,
lo sguardo di latte degli anni che passano,
il passo incerto, senza un futuro, una meta alla quale aspirare.
L’unica certezza è la sua mano, stretta in quella dell’altra.
Gli anni li hanno resi sensibili alla luce, ai raggi troppo caldi del sole,
ombre crudeli sui volti han scavato nel loro profondo,
raggiungendo le nicchie del cuore.
Mani rugose, segnate dal tempo si cercano, per non lasciare che l’altro si possa far male.
Fragili come il cristallo si stringono in un dolcissimo complice abbraccio.
Un lontano silenzio li unisce,
mentre sommesse parole disegnano il loro futuro, che futuro non è.
I vecchi hanno pudore dei loro pensieri, quando sanno di esser guardati.
Sorridono, di tanto in tanto, come se la loro storia fosse uno scrigno prezioso.
Un piede davanti all’altro, con estrema cautela,
mentre le piccole gemme degli alberi raccontano di nuove giovani vite,
che non sapranno vedere.
Ma è così grande la forza che sente nella sua mano,
la stessa immutevole che un giorno d’estate la prese,
per non lasciarla mai più.
Compagno e sorella. Nei tempi di gioia e nei lunghi riposi d’inverno.
Il profumo degli anni che passano ha scritto profonde parole sui volti
ed il mattino s’è spento per lasciare il suo posto alla sera,
che tiepida avvolge il loro destino.
Uniti, quelle spalle ricurve che a fatica sostengono l’aria,
camminano o forse sono già andati via.
Stupende le storie che li accompagnano.
Profondo l’affetto che provano.
Anime anziane che s’amano.
Tienila stretta, abbi cura di lei .
Oh padre, figlio e compagno sorreggimi forte, voglio sentire che cammini con me.

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Fragili costruzioni

Non possiedo. Non ho predisposizione al possedere alcunchè.
Non ho la necessità di sentirmi sicura sapendo di avere qualcosa di mio, qualcosa di materiale.
Ho una casa, o per meglio dire, sarò completamente una padrona di casa fra qualche decennio. Ho inziato a pagarne i primi mattoni da poco.
E’ mia. E’ la rappresentazione della mia nuova vita.
Davvero è così? E’ ciò che ho, che posseggo, che definisce la persona che sono?
E’ certamente il posto dove svegliarmi, compiere gesti quotidiani, adornare secondo un immagine che mi faccia star bene. Il luogo dove sognare, aprire gli occhi al sole oppure chiuderli fra una goccia e l’altra d’acqua piovana, brillante dal mio lucernario.
E’ il debito che ho verso la vita, il mattone sicuro a rappresentare me stessa?
Si, la casa è importante. E’ il luogo dove tornare e stare al sicuro, sognare, accogliere.
Ma è casa ovunque io possa sentire il mio corpo vibrare. Fosse anche sul ciglio di un fiume o nel vento d’aprile. Questo mi riempie, questo mi fa sentire di avere qualcosa.
E’ importante avere una casa, certo, non potrei mai dire il contrario. Ma il prezzo pagato per avere quel posto va ben oltre il suo costo reale. Ogni singolo spazio di queste mie mura è intriso di tristi abbandoni ed ogni più piccolo angolo è custode di scelte, sofferte, a volte nemmeno per mia volontà.
Le conquiste sono ben altro. Sono sicura di potermi guardare in faccia e sorridermi, per ciò che son diventata col tempo. Per quella che poi ho davvero scelto di essere.
Errori a miriadi hanno reso la donna che sono e da questi non smetterò mai di imparare. Ma nulla, nulla di ciò che il possesso significa è così importante per me.
Ho altri valori. Ho altri bisogni. O forse ho solo dei piccoli sogni. Li tengo in tasca da anni, stretti in un pugno che fa fatica ad aprirsi.
I miei piccoli sogni hanno modeste radici. Perchè nulla è davvero importante se non è accompagnato dal cuore.
I miei mattoni non hanno un valore perchè io sono il cemento, per nulla durevole ed ho soltanto il bisogno e la voglia di chiamar “casa” la vita, ovunque essa possa trovarsi.

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FERMATI!!

Fermati!
Fermarsi per qualche istante, respirare profondamente, con tutta la calma possibile.
Sentire la brezza dell’aria accarezzarci le guance, morbidamente, come le mani di un tenero amante.
Sedersi sull’erba, farsi pervadere dall’odore intenso dell’umida terra che ci entra nel corpo ed avvertire un intensa sensazione di pace, lunghissimi istanti di pace assoluta.
Guardare le nuvole rincorrersi alte nel cielo e sentirci sospesi fra i loro racconti mutevoli, immagini bianche di favole perse nel tempo.
Il vuoto assoluto. Non un pensiero a stordirci la mente. Solo il caldo abbraccio del vento. Sentirsi orfani del nostro dolore, in un intenso e languido abbandono, come se anche noi fossimo parte del vento, del sole, del granello di terra.
Provare a sentire stupore nel vedere il rientro delle rondini a casa, come se il loro migrare ci appartenesse, figli di un comune universo. Eccoci, parte della natura, stelo del fiore, acqua nel fosso e gemma sul ramo. Primo vagito, figli di un universo che piange, ferito, straziato, dimenticato.
Fermarsi, in un comune senso di amore per quello che abbiamo, fosse anche solo una piccola rosa o un brandello di stoffa strappato.
Sentire quanto la vita abbia molto da dare anche in uno spazio minuscolo, senza chiederci nulla, pretendendo solo il rispetto.

L’amore di un piccolo cucciolo, il benessere che una carezza ti provoca, il silenzio compagno dei nostri pensieri ed una lacrima d’acqua che cade dal cielo. Semplici cose… che stiamo perdendo nel fuoco e che la terra reclama con tutta la forza che ha.

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Libia: considerazioni “quasi” a freddo.

Ho scritto parecchio nel mio libro su di me, ma mai avrei pensato di raccontare una guerra.Mi è esplosa fra le mani ed è risuonata deflagrando nella testa e nel cuore attraverso poche parole dette:

“Mamma, ci stanno abbandonando”, e poi ancora: “Mamma… se riusciremo a tornare…” Sono parole che una madre non dovrebbe mai sentir dire dai propri figli. Eppure è andata così.

Loro risiedono in un quartiere a circa dieci chilometri dal centro di Tripoli. E’ un piccolo paradiso, casette che si affacciano sul mare, pochi essenziali negozi: un minimarket, il medico, la farmacia. Li vivono tante famiglie, tantissimi bambini, tutti espatriati, tutti lavoratori in quella terra dove il deserto si sta mangiando la vita e l’intonaco… grigio, dello stesso colore della polvere.

La risonanza di ciò che sta accadendo la rende secca al telefono. Mi chiede di parlarle in codice, come nei film, perché sono controllati e non possono parlare chiaramente:

“Com’è il mare li da voi?”

“Sta iniziando a sporcarsi, ma a casa di un nostro collega, il mare è già molto sporco”

Ho il cuore che batte forte. Ha paura. Lo avverto.

Silenzio

Ore ed ore senza sentirla. Le comunicazioni vanno e vengono. Ho un forte senso di nausea, l’apprensione è fortissima. DEVO poter capire cosa le sta accadendo.

Ancora una telefonata (sarà l’ultima):

“Mamma, stanno portando tutti gli italiani via dal nostro villaggio. Ci stanno lasciando qui! Ci stanno abbandonando da soli!! Fai qualcosa!! E’ pericoloso passare un’altra notte qui! Ci stanno sparando!”

Silenzio

“Stai tranquilla, tu tornerai”. E’ quello che sono riuscita a dirle prima che la comunicazione si chiudesse.

Ho fatto di tutto. Ho chiamato chiunque. Ho urlato e minacciato. Qualcuno mi ha ascoltata e forse ha fatto qualcosa. Non importa chi o come… dovevo tirarla fuori dal pericolo, lei i suoi figli e suo marito. Non so cosa si sia mosso dall’Italia. Di sicuro non abbastanza. So che qualcuno è uscito da quella casa sul mare. Ha preso una macchina e si è gettato in strada in mezzo a quei cani pagati che sparavano ovunque. In mezzo a quei cani che mozzavano braccia innocenti, in mezzo a quei cani che violentano donne e bambine.

Si è gettato in mezzo alla guerra per poter salvare la sua famiglia. E’ arrivato da “quelli che contano” ed ha urlato la rabbia contro di loro. Lo hanno ascoltato e finalmente son tornati a riprendere tutti quelli rimasti da soli in quel “giardino di fuoco”.

“Mamma, siamo tutti insieme ora. Dimmi che saremo sul volo di domani mattina. Per favore, dammi questa conferma”

“Si, siete tutti sul volo, me l’hanno già confermato”

“Non ho i documenti, mi hanno bruciato il passaporto. Siamo senza documenti i miei piccoli ed io!”

Le hanno detto: “senza le foto, non possiamo farvi il foglio di via per il rientro!”

Ma come è possibile?? Entrano tutti in questa magnifica Italia, ma non può tornare nel proprio paese un’italiana perché le mancano 2 foto di riconoscimento? Ma come è possibile?

I documenti le arriveranno all’ultimo istante. Quando saranno già in aeroporto, stipati come bestiame, i piccoli attaccati a loro e legati per il terrore di perderli. Solo pochi istanti prima di lasciare l’ipotetica linea che delimita la terra di nessuno dalla terra degli uomini.

Ed eccomi qui. Quattro ore prima del loro arrivo. Ricevuta la conferma dei loro nomi su quella lista Alitalia. La lista… sembra un film già rivisto. Ho una lista che non mi da la conferma della loro presenza sul volo. Ancora ansia, paura. La stessa di tutti quelli che sono qui ad aspettare con me. Mogli, figli, fidanzate e chissà chi altri. Giornalisti ovunque, a caccia di lacrime. Meglio nascondersi ed aspettare l’aereo che arriva.

Eccola. Il piccolo al collo, la piccola nel passeggino che mi sorride, felice… bianca come un vaso di porcellana, gli occhi gonfi ed arrossati. Due giorni senza mangiare qualcosa di sano. Solo biscotti e qualche cucchiaio di miele. Mia figlia non credo abbia avuto la forza di buttar giù nulla. Solo vitamine, mi ha detto… doveva allattare suo figlio. Poco dopo il marito, provato dalla stanchezza. Sono tre giorni che non chiudono occhio per la paura, per i colpi di mitra che sentono, per le bombe che esplodono. Ci abbracciamo, senza parole. Copriamo i bambini con le coperte. Non erano pronti al freddo di questa stagione: era già primavera da loro.

Silenzio. Lo sguardo perso nel vuoto. Nemmeno la forza di tirare un sospiro di sollievo. Quale sollievo? Alcuni di loro sono rimasti ancora laggiù. Alcune famiglie, i loro vicini di casa, i loro bambini, i loro alunni innocenti, Perché il volo era così vuoto? Perché non hanno portato via tutti quelli che potevano? Perché su 180 posti arrivano solo poco più di sessanta persone?

Passano almeno due ore ed alcune parole mi entrano dentro come un pugno violento: “Ho fatto di tutto per mettere in salvo tua figlia ed i bambini. Credimi, non è stato possibile farla andare via prima da quell’inferno. Giuro che non metterò mai più in pericolo la vita di E.”.

E poi ancora:

“Dovrò ritornarci. Non posso restare senza sapere cos’è accaduto agli altri bambini ed alle famiglie che sono rimaste laggiù”. Figli della Libia, alunni di scuola. Bambini innocenti. “Non posso restare senza sapere. Se la scuola dovesse mai riaprire, io sarò li con loro” (senza mia figlia. Lei sorride ed approva, sono anche i suoi piccoli… ma lei giura li non ci tornerà mai più …).

E’ passata quasi una settimana ed ancora non mi sembra vero sentirla al telefono, vederla, abbracciare i suoi figli.

E’ passata quasi una settimana ed io ho bisogno di lasciare andare i pensieri. Ridere, piangere quando mi va. Avere cose semplici da fare. Ho voglia di banalità. Ho voglia di sole e di primule. Di musica ed aria. Di uscire di casa e smorzare l’angoscia che si è attanagliata allo stomaco. Ho voglia di correre e di guardare qualcosa di bello, fosse anche solo l’aurora. Ho voglia di piccole cose, ho voglia di … vita.

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La forza delle donne

Non so come sono arrivata fino a questo punto. Credevo di non farcela.  Ho tirato un lungo, infinito, sospiro ed ho iniziato a fare, organizzare, prendere e lasciare.

Ho teso la mia vita come una corda di violino, sapendo che quello che sentivo era musica, malgrado la mia difficoltà nel pizzicarne le corde. Quando sei in corsa e sai che devi arrivare alla fine, le forze che credevi nascoste si ampliano, ti abbracciano, ti sorreggono. La vita si dipana dal suo groviglio, nodo dopo nodo, fino a formare l’arazzo che avevi immaginato. I colori si manifestano brillanti, al tatto la trama da ruvida diventa seta sotto le tue piccole dita. Fanno male, a volte bruciano. Il filo diventa corda ruvida e tu cerchi di tenderla quasi allo stremo delle forze. Non devi cedere… sei quasi alla fine. Speri che le giornate si allunghino, non solo nel loro chiarore, ma che possano raddoppiare anche nelle ore.  Hai bisogno di tempo per portare a termine il tuo lavoro. Vorresti una strada liscia sulla quale camminare ma i piedi nudi si sono induriti e le pietre non ti pungono più… quasi corri e non te ne accorgi.

E’ la forza delle donne. Quella che nella sofferenza, nel dolore più grande, le porta a sollevare macigni. Quella che non ti da tempo per piangere perché le lacrime arriveranno solo quando tutto sarà sistemato. Quella che ti sale dal cuore, perché nella pancia non c’è così tanta profondità. Quella che anche quando sei sola, ti senti capace di prenderti in mano la vita, rovente, e non sentirne il bruciore. Te ne accorgi solo quando devi dormire. Quando di notte gli incubi ti vengono a trovare, tutti insieme e ti svegli sudata, la mente che non si riposa. Mille domande, mille risposte e la tua mente è lì, ad insidiare quella che sembra fragilità… quanto vorresti lo fosse davvero.

Vorrei essere debole, a volte. Poter dire di non farcela. Sembra che con alcune di noi funzioni questo sistema.  Gran donne, quelle. Ne invidio il loro “non avere pensieri”… forse.

Ma sto costruendo, con tutta la forza che ho e ne sono felice. Perché, malgrado il sentirmi in una tormenta di neve, ubriaca di freddo, potrò firmare quest’opera che sto compiendo da sola. Mi stamperò un nuovo biglietto da visita, o scriverò un certificato di benemerenza, nel quale si ringrazierà il mio nome per tutto il lavoro che ho svolto. Riposerò più tardi. Ora non ho tempo per pensare ai cuscini di piuma. Ora ho una cosa importante da fare prima che spuntino le figlie dagli alberi. Voglio fiorire assieme al tepore della prossima luce.

Questa è la forza che sento… e questa è la forza che ho.

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Il ricordo del Natale

E’ da un po’ di tempo che il Natale ha cambiato la sua atmosfera.

Ho iniziato ad sentire un po’ meno il profumo di abete nell’aria, poco alla volta ma inesorabilmente.
Questa festa è legata ai bambini, alla loro trepidazione, al timore ed alla curiosità di vedere arrivare dal cielo un omone vestito di rosso circondato da renne volanti. Alle luci dell’albero, al rito del suo allestimento, alle canzoni ed al tintinnio dei campanelli che in esse si avvertono. Tutto odora di abete, di legna… anche la neve.
Siamo cresciuti prima noi e poi i nostri figli. Il calore di questa festa, degli amici seduti attorno al tavolo grande s’è perso lasciando il posto a qualcosa che poco ricorda l’amore, non ne è nemmeno il riflesso.
Ma…
Non so in quale angolo della mia vita riesco ancora a sentire il rumore dei pacchetti di carta o i profumi della cucina. Non riescono a spegnersi. Le persone cambiano è vero, le grandi famiglie perdono pezzi per strada. Parole di fuoco ardono i ceppi senza scaldare nessuno, anzi, gelano il sangue e ti lasciano ferite inguaribili.
Ma c’è sempre un omone vestito di rosso che vaga nel cielo, ne sono convinta. Ed a questo proposito, con tutto l’amore che posso, vorrei regalare un sogno a ciascuna delle persone che mi stanno abbracciando. La possibilità di veder realizzato almeno uno dei mille pensieri che sono rinchiusi nel cuore. Non ne sarò io l’artefice casomai s’avverassero, ma il sapere del vostro sorriso scalderà il cuore anche a me.
Sarà come aver lasciato un pacchetto sotto quell’albero per qualcuno che non ha smesso di essere piccolo, che ha conservato il bambino accanto a quell’uomo che è diventato, ed ha il coraggio di vivere anche giocando, malgrado tutto, malgrado il freddo che lo sta accompagnando.
Questo mi auguro per il Natale a venire e per tutti i Natali che ancora vivrò: vestirmi di rosso, vedermi sorridere fra la carta dorata ed essere io, io sola soltanto, a credere che quello che amo è acceso, riscalda, ed è ancora dentro di me.

Buon Natale a tutti voi.

Joh

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Virus dell’HIV: il primo “pirata informatico”

Questa volta voglio proporvi una discussione seria.
Voglio parlare, a ridosso della giornata mondiale contro l’AIDS, della più grande pandemia che l’umanità abbia mai affrontato e della quale, spesso, si tende a dimenticarne la gravità.

Al principio del terzo millennio, l’AIDS rappresenta la più grave emergenza sanitaria a livello planetario, con drammatiche implicazioni non soltanto di tipo medico-assistenziale, ma anche di tipo sociale, culturale ed economico.
Fino ad oggi, si calcola che almeno 25 milioni di persone siano morte di AIDS nel mondo, mentre il numero di individui infettati dal virus HIV viene stimato attorno ai 50 milioni.
La pandemia dell’AIDS è esplosa nei primi anni ’80, sebbene casi isolati, diagnosticati solo a posteriori come AIDS, fossero stati riscontrati già a partire dagli anni ’50.  Presumibilmente originata nel continente africano, l’infezione da HIV si è diffusa nella specie umana con straordinaria rapidità, soprattutto grazie alla trasmissione per contatto sessuale, interessando in breve tempo quasi tutti i paesi a “sviluppo avanzato”, soprattutto gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, e di qui, successivamente, espandendosi alle nazioni “in via di sviluppo”, dall’America Latina all’Asia.
Sebbene negli ultimi anni siano stati compiuti progressi straordinari nel campo della terapia e della prevenzione, soltanto i paesi a sviluppo avanzato hanno finora potuto beneficiare dei frutti di tali progressi.  Infatti i costi della terapia farmacologica non sono assolutamente sostenibili dai paesi in via di sviluppo, nei quali peraltro il basso livello culturale e socio-sanitario rende molto difficili anche le campagne di prevenzione del contagio.  In talune regioni africane la prevalenza dell’infezione raggiunge punte del 30% della popolazione.  Si calcola che in Africa ben 15.000 persone si infettino con il virus HIV ogni giorno.  Inoltre si è calcolato che, fino ad oggi, più di 11 milioni di bambini siano divenuti orfani di madre a causa della mortalità dovuta all’AIDS.
Di fronte ad una piaga planetaria di tale entità, sta crescendo la consapevolezza, sia da parte della classe politica mondiale che delle organizzazioni internazionali, della necessità di mobilitare al più presto tutte le possibili risorse, di ricerca, di assistenza e di sostegno economico, per prevenire un aggravamento irreversibile della situazione nel Terzo Mondo, che porterebbe al collasso di intere nazioni.  In tal senso è particolarmente significativa la presa di posizione dell’ONU che ha lanciato una campagna mondiale contro l’AIDS.  E’ altresì chiara la consapevolezza che, al di là delle campagne di prevenzione socio-culturali, l’unico mezzo efficace per bloccare la diffusione dell’epidemia è lo sviluppo di un vaccino “preventivo” efficace, a basso costo e di facile maneggevolezza anche in condizioni ambientali sfavorevoli.
Dopo quasi 20 anni dalla scoperta del virus HIV, l’agente causale dell’AIDS, purtroppo non è ancora disponibile alcun vaccino efficace per prevenire questa infezione.  Tutte le strategie convenzionali di vaccino finora sperimentate si sono infatti dimostrate inefficaci contro l’HIV.  Le ragioni di questo fallimento vanno ricercate nella straordinaria capacità del virus di eludere il controllo da parte del sistema immunitario.  Innanzitutto questo virus è un formidabile trasformista:  grazie alla sua eccezionale propensità alla mutazione genetica, emergono continuamente nuove varianti che il sistema immunitario non riesce a riconoscere.
A fronte del generale scetticismo sulla possibilità di sviluppare un vaccino protettivo davvero efficace, capace di indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti, esistono numerose evidenze sperimentali che ne giustificano il perseguimento.

E’ proprio di oggi l’articolo apparso su “Scienzainrete” e del quale voglio farvi partecipi. Questo è il link:

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/aids-cauto-ottimismo-il-vaccino-italiano

Nel ricordare che togliere denaro alla Ricerca equivale ad “uccidere l’Uomo nel corpo e nella mente”, vi auguro buona lettura!

Joh

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LA CLASSE INSEGNANTE VA IN PARADISO

Non so se faccio bene  a manifestare questo pensiero ma ritengo, attraverso le mie parole, di esprimere l’opinione di  molte persone che stanno dedicano tempo, cuore e cervello al mestiere di insegnate.

Mi piacerebbe fare uno schema di come la scuola si è trasformata nel tempo e di come la relazione alunno/insegnante sia radicalmente cambiata.


Se sbaglio mettetemi pure una nota sul diario… almeno io la leggerò e ne terrò conto!

:o )

Joh

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FINALMENTE SI VA IN GITA!!!

“Ammmmmmmoooooooreeee  sei pronta?”
“Aspetta un attimo caro,  finisco di sistemare la valigia e scendo”
“Mettici anche la macchina fotografica, non te la dimenticare mi raccomando!!”
“Ma certo caro,  figurati se me la dimentico. Filiiiiiippooooooooo hai finito di fare colazione?? Sbrigati gioietta che siamo già in ritardo!”
“Ho quasi finito mammina!! Ti ricordi di portarmi l’ iPhone che ho lasciato sul comodino in camera?”
“Certo tesorino, figurati se lo dimentico! Ho anche portato la batteria di riserva… non si sa mai!”
“Allora voi due?? Scendete o no?? Il pullman parte fra pochi minuti!!”
“Arriviamo,  arriviamo!!”
“Ammmmmmmooooooreeeeee  ti sei ricordato la piantina del posto e la lista dei nomi dei parenti, che non voglio fare figuracce!!”
“Ma certo Giusy, ho tutto nel borsello: piantina,  lista, penne e blocchetti,  uno per ciascuno di noi!!”
“Bravo! Sei proprio un organizzatore di viaggi meraviglioso!”
“Eccoci pronti, si parte!”

“Tesoro, che emozione… dopo tanto tempo finalmente il viaggio che abbiamo sempre sognato!!!”
“Si… non finirò mai di ringraziarti per questo pensiero così profondo che hai avuto nei nostri confronti….!”
“Eccoci finalmente arrivati!! Macchine fotografiche alla mano: pronti??”
“Siiiiii papà!! Ecco la casa!!! Wooooooooowwwww!!! Cosa  faccio???  Grandangolo o particolare del portone??
“Filippo!! Il particolare del cancello!! Mi raccomando!!!”
“Giusyyyyyyyyyy!!! Ecco la discesa del garage!!! Mettiti davanti  e sorridi!!!”
“Mammminaaaaaaaaaaaa!!! Voglio anch’io la foto davanti al cancello!!!”
“Ecco!! Fermi così!! Bravissimi!!”
“Papà!! Guarda!! Sta arrivando la macchina della polizia con dentro la madre!!!”
“Giusy!!! Corri!!! Fermati davanti al finestrinoooooooo!! Lacrime??? Ci sono lacrime?? Porca miseria ma non piange quella li???”
“Ammmmooooooooreeeeeeeeee  hai visto com’era vestita??? Hai fatto la foto dell’autista?? Ora quando scende gli chiedo l’autografo!! Dove hai messo il blocchetto per gli autografi???”

“Che giornata tesoro! Quante emozioni!! Grazie!!!”
“Figurati!! Avetrana è davvero bellissima!!”
“Ammmmmmoreeeeeeeeeeee….   Stasera tutti davanti alla tv….. non si sa mai: ho sentito dire di un caso a Sassari: amore…. ti piace il mare…?”

Joh

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