Scrivere del West per uno che è stato bambino negli anni ‘60è un vecchio sogno.
A quei tempi la produzione dedicata ai ragazzi (quella che i genitori consentivano di leggere nei romanzi e nei fumetti e di vedere al cinema e in tv) era nella maggior parte dei casi incentrata sull’epopea della conquista dell’ovest americano. C’erano sì altri generi avventurosi o fantastici ma il West era, a ragione o torto, considerato innocquo dagli educatori, basato su una solida tradizione che garantiva una violenza spettacolare ma non esasperata, poche donne e sempre vestite e una dirittura morale dei protagonisti. Una roba da bambocci, insomma. Nulla di più sbagliato per chi si avventurava tra le pagine dei romanzi e dei fumetti, per chi guardava i film anche molto prima che arrivassero Leone e Peckinpah. Ma erano cose che i genitori non riuscivano a cogliere. C’era invece un senso di libertà, di rivolta, un anelito alla vita selvaggia che noi riuscivamo a cogliere e alimentava sogni e fantasie che altri neanche immaginavano. Poi vennero i western moderni, quelli europei e con loro molti romanzi e addirittura qualche fumetto che mostravano una Frontiera più violenta, malinconica, dove c’erano femmine come Raquel Welch e Ursula Andress che di restare vestite proprio non ne volevano sapere, un’epopea di Desperados che sparavano producendo schizzi di sangue al rallentatore. Un West crepuscolare di eroi vecchi, cinici, gente che rifiutava il Sistema. A suo modo era rivoluzionario. Per me che cominciavo a scrivere da dilettante però il West restava un orizzonte lontano. Se non si riusciva a entrare nel mondo delle sceneggiature dei fumetti nostrani, la pubblicazione era quasi impossibile. Ricordo che nei Grandi Western della Longanesi, collana che proponeva classici ma anche romanzi più recenti con la loro buona dose di sesso e violenza, Mario monti che era il curatore pubblicò un suo romanzo “La fulminante comitiva a cavallo” che era un “western italiano” e non un western all’italiana. Una vicenda di briganti borbonici, che mi piacque ma mi fece capire che quel miracolo che aveva aiutato Leone a portare al cinema un genere americano, era quasi impossibile sulla pagina scritta. Non lo sapevo ma c’erano già autori e autrici italiani che pubblicavano western con pseudonimo. A Me, molti anni dopo riuscì di portare a termine questa operazione con lo spionaggio. Lo sapete il Professionista non è stato il mio primo romanzo di spionaggio pubblicato, ma forse la sua fortuna negli anni fu nell’intuizione di firmarlo come Stephen Gunn. E così, nel tempo la passione per il West non mi ha mai abbandonato. Sono diventato un collezionista di fumetti e romanzi, di film soprattutto, ho una vastissima biblioteca di testi storici e magnifici volumi dei grandi illustratori da Remington a Franck McCarthy. Così quasi per scommessa qualche anno fa ho cominciato a scrivere prima dei bravi racconti (Sukyaky Western Django, Gatta Danzante e il generale fantasma raccolti assieme al romanzo breve in Doppio spettacolo, Dbooks.it) poi un serial pubblicato in digitale da Delos Wild West che sta affrontando con successo la terza stagione. Poi è arrivato il volume della Sprea sulla storia del West e alla fine assieme a Michele Tetro la guida al cinema Western per Odoya, volume corposissimo e graficamente prezioso, che sta regalandoci grandi soddisfazioni. E altre novità ci saranno. Scrivere il West è, alla fine, la realizzazione di un sogno. Come per la spy story è necessario amare e conoscere il genere in ogni sua sfaccettatura. La storia e i costumi anche. Ma, soprattutto, rendersi conto che si crea un universo per intrattenere, facendo riferimento alla memoria collettiva del lettore che solo in alcuni casi si cura della minuzia. Il senso dell’epica è un pilastro fondamentale del racconto western. La storia, l’ambiente, armi e suppellettili servono per dare realismo, ma non scriviamo un romanzo storico. Il West, come diceva John Ford, lascia che la Leggenda superi la Storia. È il mondo che sognavamo da bambini e abbiamo coltivato in decine e decine di storie lette e viste. Non importa quanto realistiche.
È la visione che ci ha fatto viaggiare nei deserti, tra le foreste, in fumosi saloon e in verdi praterie. Liberi, lontani dal mondo vero ma, curiosamente consapevoli della nostra realtà, che raccontiamo “in costume”, ambientando storie in un passato favoloso per esprimere sentimenti di oggi, come ha scritto Ivo Milazzo, sceneggiatore di Ken Parker. Il west è davvero un’ultima frontiera, un posto dove uomini e donne sono quello che sono per come si comportano. Dove la giustizia si conquista e la sopravvivenza è garantita solo per chi la merita. È, permettermelo, una grandissima soddisfazione che si arricchisce sempre più con ogni nuova lettura, ogni vecchio film scoperto o magari rivisto per l’ennesima volta. Un piccolo mattone di una grande casa che, a torto, si voleva ormai decrepita e in abbandono. Il West forse non avrà più i fasti di un tempo ma l’epopea continua a vivere. Può far sognare e ha ancora moltissime storie da raccontare, con un occhio al passato e uno verso il futuro.
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