C’era una volta la rivista pulp True Crime piena di storie di sbirri e ‘private dick’ con contorno di cattivoni e belle pupe. Il succo dell’hard-boiled che voleva restituire il delitto al luogo di appartenenza: la strada. Il Giallo all’americana contrapposto a quello inglese considerato freddo e semplicemente enigmistico. Da appassionato di entrambi i generi mi astengo dal giudizio su quale sia migliore (disputa alla fine inutile) e mi godo, sempre cercando di imparare qualcosa, il meglio che arriva sulla piazza. Questa miniserie in otto episodi prodotta dalla HBO è stata una sorpresa. Prima di tutto vorrei sottolineare l’autorialità del progetto a confronto di altri progetti simili. Un solo sceneggiatore, un solo regista. Al contrario dall’appiattimento tematico e visivo della maggior parte dei telefilm di genere che si affidano a più autori coordinati in modo da presentare un risultato uniforme, emerge immediatamente una serie di particolarità stilistiche. Nel montaggio, nei campi lunghi ipnotici della Louisiana, nel tratteggio dei personaggi e nei dettagli degli interni. Come un libro scritto da una mano sola. Non stupisce perché Nic Pizzolatto è autore di nerbo (Mondadori pubblicò nel 2010 il suo romanzo Galveston, simile per temi e ambientazioni e lo riproporrà in oscar entro l’estate). A me e a tutti gli appassionati ricorda molto l’Ellroy dei primi tempi, quello di Dalia Nera e Il Grande Nulla, per intenderci, con quella straordinaria capacità di mettere in scena personaggi scorretti, a volte antipatici, asociali, negativi per molti versi ma di saperceli fare amare sino alla fine. Della storia di assassini rituali, coperture politiche, magia nera, di fatto, importa poco. La vicenda comincia con passo lento e lugubre, s’impenna nell’episodio che mostra un lunghissimo piano sequenza d’azione tra i bikers della Fratellanza Ariana, e poi si dirama ancora in mille rivoli sino a ricongiungersi in un fiume impetuoso. È, tuttavia, un elemento secondario. Il fulcro della scena è sempre dei due protagonisti. Ancora una coppia di sbirri, apparentemente antitetici, problematici, due falliti in cerca di redenzione. Ruoli sui quali gli interpreti Woody Harrelson e Matthew McConaughuey, hanno investito molto, e si vede dalla loro partecipazione anche alla produzione. Marty(Harrelson) è il family man, il poliziotto duro, certamente rozzo, schiavo di tutte quelle manie che hanno caratterizzato il filone. Infedeltà coniugale, visione giustizialista del proprio lavoro, alcol e alla fine incapacità di integrarsi con quell’ambiente in cui ha disperatamente bisogno di essere una figura riconosciuta. Il suo collega Rust (McConaguey) è l’opposto. Anche lui, se vogliamo, un archetipo del genere. Lo chiamano Taxman per l’abitudine a girare con un registro per gli appunti sul quale annota tutto anche disegnando. Rust è un solitario, ferito da un lutto familiare così feroce da lasciarlo di pietra nei rapporti umani, segue il caso con maniacale dedizione. Anche lui è ruvido, scontroso. Eroi difficili da accettare per il pubblico generalista perché non immediatamente caratterizzati da segni distintivi consolatori. Li vediamo durante gli interrogatori condotti da due agenti neri e capiamo subito che, in quel caso che sancì e distrusse la loro amicizia negli anni ‘90, accadde qualcosa di terribile che li ha allontanati. E fin quasi alla fine non sapremo cos’è. Nel frattempo prende forma il loro mondo che, sulle prime, respinge. Qui sta l’abilità di autore, regista e interpreti nel tenere avvinto un pubblico suggerendo, a volte con una sola battuta o un’immagine che dietro un incipit quasi banale ci sia dietro molto di più. Qui sta appunto l’arte di usare stereotipi e cliché del genere in maniera intelligente, con coscienza di quanto è stato fatto e il desiderio di andare avanti, di scrivere una pagina in più.
La narrazione, come è logico, subisce nelle ultime puntate un’accelerazione. Se dapprima abbiamo visto svolgersi gli antefatti in una intelligente mescolanza di interrogatori svolti oggi con i protagonisti invecchiati e marchiati severamente dal tempo e delle loro vicissitudini, si arriva alle puntate finali in tempo reale. Da un’amicizia rinsaldata dal trascorrere del tempo ma anche da quello spirito un po’ì giustizialista ma vigoroso, amato dagli spettatori, si passa a un’indagine complessa, portata avanti senza tempi morti sino a una vera e propria discesa all’inferno in cui tutti ottengono quello che hanno cercato, sino alle estreme conseguenze. E il finale lascia il desiderio di rivedere nuovamente tutto dall’inizio per cogliere i particolari tralasciati a una prima visione e ricomporre il mosaico. La serie ha scatenato un’ondata di consensi da parte di intenditori e fans, tanto da stimolare subito la produzione di una seconda stagione. Come già accade per American Horror Story, saranno miniserie monotematiche con vicende e personaggi nuovi. Una scelta intelligente. Alla fine si tratta di un unico lungo film di otto ore che termina così e copre una storia di anni che forse dotare di un sequel sarebbe negativo. Aspettiamo di vedere cosa succederà nella prossima stagione. In chiusura alcune osservazioni. True Detective non è una serie facile. Per situazioni e personaggi credo risulterebbe troppo pesante se non sgradita al pubblico generalista. Chi l’ha amata, invece, la difende a spada tratta e trovo interessante che tra coloro che l’hanno gradita, osservazioni e giudizi, riferimenti ed emozioni combacino. Significa che si tratta di un prodotto specifico, di ‘nicchia’ senza che ciò implichi alcunché di negativo. Vale la pena di produrre e distribuire prodotti del genere, sotto l’ottica commerciale che ormai è imperante in editoria e produzioni cinetelevisive? Secondo me sì. Per due motivi. Il primo è che alcune produzioni generaliste ormai non fanno più i numeri di una volta e quindi non ha più senso voler accontentare tutti per poi avere comunque un ristretto numero di seguaci. Da qui la seconda motivazione. Gli appassionati, gli ‘hard core maniacs’ del genere di fronte a queste proposte non si fanno mancare una puntata (o un volume della serie se parliamo di libri). Significa magari lavorare per tirature e numeri più bassi ma, se la qualità resta alta, certi. Ancora una volta la barriera tra prodotti mainstream e di genere torna a essere solo una stupida, inutile classificazione di chi le storie non solo non le racconta, ma non sa neanche venderle.
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Bell’articolo, realmente. Forse adatto più a chi conosce la serie che non a chi vuole informarsi. Io ho visto i primi episodi. Mi ha folgorato, tanto che mi sono ripromesso di “bermela” tutta in un solo weeekend feroce appena se ne presenta l’opportunità. I personaggi mi hanno colpito moltissimo. Nella resa da parte degli attori ma anche nella loro complessità. Ambientazione stimolante e viva, agghiacciante, spaventosa. Una storia che mi attira davvero molto.
sì davvero una serie molto interessante e dalla quale c’è moltissimo da imparare
Certo le prossime stagioni dovranno essere all’altezza e non sarà facile, soprattutto per le interpretazioni dei due protagonisti, che da sole fanno metà della bellezza della serie.
Sì, in effetti è intelligente fare delle stagioni monotematiche. Si tratta dell’equivalente di quello che una volta si chiamava sceneggiato, più che una serial. un lungo filmone. non avrebbe molto senso riprendere Marv e Rust dopo averne così dettagliatamente seguito la vita per vent’anni
RAI e Mediaset si rivolgono ad un pubblico mainstream che temono di offendere o annoiare onde x cui tendono a livellare le loro produzioni a quanto non turberebbe un non meglio specificato spettatore medio ( è interessante cosa dice del lettore medio da non urtare il cartoonist Alan Moore nel suo saggio Writing Comics ). E’ improbabile che una delle due Big Guns nostrane esploda alcune delle pallottole che , per esempio , HBO o Netfix sparano a mitraglia da tempo. E non si tratta solo di hard boiled, di gore, di politicamente scorretto, ma anche di provocazioni che spingano il fruitore ad interrogarsi, a rimasticare quanto ha visto sullo schermo. Sky sta lavorando ad una fiction su Diabolik. Non è proprio House of Cards, ma almeno non sarà un clone di don Matteo ( anche se mi piacerebbe vedere la faccia del signor Gomboli di fronte ad un ” pilota ” da cui si evince che il Re del Terrore di giorno è un curato di campagna ).
Speriamo nella diffusione della Rete anche dalle ns parti.