Verso il vertice della follia

La follia salta di piano in piano, dall’annullamento di ogni tutela, dalla distruzione (in pochi anni) di diritti conquistati con secoli di battaglie, all’annichilimento di principi che si declamano come universali ed egualmente riconosciuti.
La follia si trasforma nell’arte di celebrare la mediocrità e darle l’aspetto di una vita auspicabile, degna e compiuta.
La follia si alimenta di disillusione forzata, di indottrinamento al cinismo di massa, di menzogna tanto spudorata da togliere la maschera restando salda al potere.

La follia dello stupro del linguaggio, la follia dello sciacallaggio che spettacolarizza ogni tragedia quotidiana.
La follia della censura.
La follia del muro contro muro a ogni costo.
La follia dell’impoverimento culturale scientificamente perseguita.

La follia di commettere crimini contro l’umanità nel proprio stesso territorio, e considerarsi ancora una nazione libera e democratica. La follia trasforma l’indignazione in una risatina complice e in ministri della Repubblica dei porci volgari e sguaiati.

La follia di stringere profonda amicizia con la repressione più feroce e chiedere l’arresto e la reclusione in fogne nel deserto di chi da tale violenza tenta di fuggire.
La follia di barattare apertamente soldi contro vite, al fine di farsi pubblicità.

La follia si innalza oltre ogni vertice: la follia della guerra! Smette perfino di mascherarsi e getta bombe sui popoli che proclama di proteggere. E il cittadino, che per primo dovrebbe fondare e credere nell’espressione democratica, vede la guerra con gli occhi del predone che arraffa il bottino, e si scrolla di dosso infastidito i profughi che lui stesso genera. Perchè è educato all’etica del profitto, alla morale dell’unicità del valore posta sul guadagno.

Ma non basta. La follia vola ancora più in alto, verso la suprema, totale e totalizzante follia nucleare. Così, contro le macerie di una nazione impoverita, impotente per sua stessa scelta e volontà, si vuole svendere la sicurezza dell’Europa intera. Per arricchire i troni del concetto stesso di Mafia che sostituisce giorno per giorno la libertà e la giustizia lì dove la follia domina incontrastata.

“Il sonno della ragione genera mostri” (Francisco Goya)

Flavio C.

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Start

Finora è stato un lungo prologo, ora si fa sul serio.

Guantanamo Bay

Buongiorno a tutti, questa è Guantanamo Bay, e vi scrivo dalla fogna.
Se non sapete di cosa parlo, vi faccio un piccolo riassunto della storia del campo di prigionia più democratico che ci sia.
La base navale di Guantanamo Bay esiste già dal 1898 mentre la prigione ha aperto i battenti nel 2002 sotto l’illuminata amministrazione Bush Jr. Attualmente ospita ancora 172 prigionieri, senza contare il vostro affezionatissimo che ci si è rinchiuso da  sè.

I detenuti non sono classificati nè come prigionieri di guerra, nè come imputati ordinari. Sono Detenuti. Punto. Senza arte nè parte.

Ci sono voluti quatto anni, dichiarazioni affatto ambigue e proteste da parte dell’ONU per capire che Guantanamo Bay è un campo di concentramento. Nel giugno del 2006 la corte suprema degli States ha rilevato violazione della Convenzione di Ginevra, e del Codice di Giustizia Militare. Violazioni di poco conto, evidentemente, dato che l’idea di chiudere il lager democratico ha iniziato a circolare solo due anni dopo.

Nel 2008 il presidente Obama espresse il desiderio di chiudere la prigione, firmando l’ordine l’anno successivo. Guantanamo Bay è ancora qui, e io mi ci sono rinchiuso, tra serpi e scorpioni, per parlare delle tue prigioni, di ossimori e contraddizioni; come “Lager Democratico”.

Domani vi parlerò di un mio vecchio amico, Jumah Al-Dossari, e delle sue prigioni, se Silvio Pellico me lo permette.

Good Work.

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L’ennesima umiliazione

Il ragazzo scese rapidamente le scale di quella cantina umida e poco illuminata. Gradino dopo gradino ripassò con la mente tutte le volte che si era trovato, negli ultimi due mesi, in una situaizone simile. Non meno di centotrentasei.

Centotrentasei situazioni simili, anche se mai così simili.
Scendeva i gradini, svoltava l’angolo.
“Dove sono gli uffici?”
Nessuno a cui chiedere, un cesso pubblico a destra, una porta allarmata a sinistra. Qualcuno apre la porta, quella scossa elettrica del comando a distanza. Le telecamere vedono tutto a quanto pare. Qualcuno dietro le telecamere c’è sempre.

Ancora un corridoio, centotrentasettesimo corridoio in due mesi. Finalmente una faccia.
Giovane, bell’aspetto, barba rada, sopracciglia curate. Camicia linda, cravatta, gel e dopobarba notevole. Sorriso smagliante.

“Salve, mi dica”
“Ho letto l’annuncio”
“Oh, certo!”
Si guardò attorno, neanche uno sgabello, non c’era bisogno di accomodarsi, evidentemente.
“Vorrei candidarmi”
“Benissimo! Riempia il modulo”

Si girò tra le mani il foglio precompilato.

“Tutto qui?”
“Certo”
“Bene, ne ho fatti di colloqui ultimamente, anche per fare il fattorino ormai chiedono corsi di specializzazione, master in fattorinologia e stage in premere il bottone del citofono”
Il ragazzo elegante rise, poi prese il modulo e sbirciò rapidamente i dati, prima di inserirlo in uno schedario.

“Bene, ora c’è solo da fare il versamento”
“Che?”
“Può iniziare a lavorare da subito, ma deve versare una quota di cauzione, nel caso in cui danneggiasse del materiale nel magazzino”
“Mai sentito di una quota di cauzione per fare il magazziniere”
“E’ il motivo per cui facciamo iniziare subito a lavorare senza perdite di tempo”
“Quant’è questa cauzione?”
“350 euro, niente di che, viene rimborsata con la prima busta paga”
“350 euro?!”
“Sì, pochi soldi”
“Pochi? Forse lei non si rende conto, ma se ho bisogno di lavorare è perchè non ho un cazzo”
“350 euro li ha anche il barbone qui in strada”
“Li chieda a lui”

Non aveva neanche bisogno di alzarsi, si voltò, salendo quei gradini neanche quattro minuti dopo averli scesi. Sbuffò. Una laurea specialistica, un master, quattro stage, sedici esperienze lavorative nei più disparati settori.
L’affitto è l’affitto, nonostante la crisi, e a lui andava bene un lavoro qualsiasi, poco gli importava di far valere i suoi titoli, il suo pesante curriculum. Aveva bisogno di soldi, rapidamente, per non finire in strada. Un impiego da fattorino; uno da autista; uno da magazziniere, senza tanti problemi. Senza bisogno di carriere, apprendistato e quant’altro. Fai un lavoro, ricevi un compenso. Facile.
350 euro. La metà dell’affitto. Avrebbe dormito in magazzino?

Bah. C’era poco da arrovellarsi. In fondo si trattava solo dell’ennesima umiliazione.

Non aveva molto senso passare a casa, si diresse direttamente alla stazione.

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Non c’è niente da capire

La tua vita aspetta.

Correre in strade del tutto sconosciute, ridere di cuore a battute poco divertenti. Il nonsense dei luoghi comuni. Leggere tonnellate di carta stampata senza passione.

Quanti di voi provano il bisogno di scrollarsi di dosso le inutilità, di iniziare finalmente a darsi da fare?
Quanti vorrebbero prendere questa marea di carte, documenti, bollette, estratti conti e stronzate connesse per gettarle in aria prima di dar fuoco alla casa e buttarsi in macchina per arrivare al confine?

Banale, eh?
Ovvio, eh?

Ma come metteva in bocca a un brillante detective sir Arthur Conan Doyle “Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare“.

Non preoccuparti. Parliamo solo della tua vita, bimbo. Poco importante, no?

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Democrazia o Rituali democratici?

La democrazia è una realtà effettiva, o un rito?

Il voto è il diritto per eccellenza, certo, l’espressione più pura e diretta della democrazia. Il simbolo della libertà di scelta, della presenza e della capacità politica del singolo all’interno della comunità.
La libertà resta autentica anche quando la scelta è tra un suicidio economico e un suicidio sociale?
Qual è sostanzialmente questa scelta?

La domanda è, in sè, poco originale, banale addirittura, ma rimanda a una questione a mio avviso fondamentale: la democrazia è un sistema basato su una essenziale capacità politica condivisa… o un semplice susseguirsi di riti?
La speranza mi spinge verso la prima asserzione, la realtà dei fatti verso la seconda.
Sostanzialmente non so rispondere.

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Una mattina del 2011


Si alzò dal letto, infastidita dalla presenza della sveglia, anche se non suonava. Incurante del freddo e del mal di gola, andò alla finestra, poggiando le mani sul davanzale per guardare la gente affrettarsi in strada, intabarrata in cappotti, sciarpe e cappelli.

Un’aria fastidiosa, persone dallo sguardo irritante. Non aveva molto a cui pensare, è sempre così durante le prime mattinate del nuovo anno. Ci si aspetta sempre che qualcosa cambi, radicalmente, improvvisamente, come nelle riciclate trame dei romanzi d’appendice. Lei no, non s’aspettava nulla. Le litrate di vino e spumante si erano portate via quei venti ridicoli che giornalai di regime chiamavano “nuovo Sessantotto” senza avere idea del catrame che vomitavano su bambini che giocavano alla resistenza. Bambini che, con l’arrivo di Babbo Natale, divennero tutti più buoni, per ricevere i propri doni. E il governo continuava a reggere, e la frontiera a farsi più vicina.

E lei sorrise, prendendo la decisione più importante dell’anno (anche perchè l’anno era appena iniziato).

“Da oggi la smetto con il pandoro, fino a dicembre prossimo”.

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Le luci della centrale elettrica

Stasera parlo di musica.
Da un blog come questo ci si aspetterebbero reazioni, opinioni o battute sui fatti di Roma, sui rimpalli di riforme e sul trasformismo galoppante, ma no. Stasera parlo di musica.

Chi conosce il temibile Vasco Brondi, alias “le luci della centrale elettrica”?
Con l’uscita del suo secondo disco la notorietà del giovane talento nostrano è aumentata vertiginosamente. Se “Canzoni da spiaggia deturpata”, opera prima, aveva scosso il torpore della creatività musicale italiana questo “Per ora noi la chiameremo felicità” è la giusta prosecuzione, forse ancor più coraggiosa di questo terremoto musicale.

Non c’è armonia nei pezzi di Brondi, questi rappresentano un’esplosione di tenerezza, e rabbia. Le stesse emozioni che vorrei percepire dagli studenti in piazza che si riducono invece ad un belato collettivo che si lascia strumentalizzare da chi sull’odio sociale ci specula e ci costruisce campagne elettorali.
Non è rassegnato, Brondi, non è disilluso, non è cinico. Verista, direi, violento, forse, disperato, a volte, certamente pieno di vita, e d’amore, quello vero, non quello che fa rima con sole, e cuore.

Ascoltatelo, attentamente.

“E quanto costano.
I tuoi amici che si contano
sui petali di quei fiori che quando soffi si disfano,
gli aerei per Palermo fermi a prendere freddo
dieci grammi nel tuo reggiseno,
i pescherecci che non tornano,
quei lunghi mesi immobili, i santi,
i raccoglitori di pomodori, le bombe al fosforo,
quei momenti che respiravamo forte come se stessimo correndo,
come per commemorare i tuoi capelli lunghissimi
i lavori irregolari, i militiari iraniani, i tramonti
che hanno dei colori chimici,
i detenuti morti, i venti forti dei deserti libici, i venti che incendiano i campi nomadi, le meteoriti, le navi ferme immobili tra l’Italia, Malta e la Libia, i primi fari antinebbia, le nostre ultime bufere violente,
le guardie notturne che vanno a dormire
non c’è niente da capire,
non c’è niente da capire”

(Le luci della centrale elettica – Per respingerti in mare)

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Morto Mario Monicelli. Ho perso le parole

Non voglio indagare sul perchè abbia scelto il suicidio. So che tutti i mezzi d’informazione ci danzeranno sopra al suo cadavere suicida. Mai amato ballare.
L’unica cosa che percepisco è che Mario Monicelli ha deciso di morire, maestro non solo per chi, come me, ama il cinema perdutamente.
Percepisco che ora siamo un po’ più poveri. Ancora più poveri.

Italia scuotiti, ti prego. Se ti dimentichi anche Mario Monicelli non ti perdono.

http://www.youtube.com/watch?v=1-3eYnlRR3E

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Traslochi

Traslocare è un po’ come morire, per rinascere e ricominciare.
Bah.
Così sarebbe se l’essenza si situasse nella forma, quanto al contenuto… beh, lo ficchiamo in scatoloni grandi e piccoli e ce lo portiamo dietro. Lo riposizioniamo, e spesso neanche quello. Il contenuto resta lo stesso, per quanti restyling ci vengano offerti.
Un vero trasloco implicherebbe spostarsi, lasciando tutto, ma proprio tutto, nel vecchio appartamento, dal libro di ricette della nonna alla carta d’identità. Bien, si ricomincia.
Quante volte sognate di ricominciare, mollare tutto, scappare via, cancellarvi dal mondo per ricominciare daccapo? Eh?
Puttanate. Non lo sognate, vi fregate in partenza, chiacchierate, ma neanche ci pensate lontanamente a cambiare vita. Perchè in fondo vi piace, lamentarvi intendo, vi piace assai.
Fatelo, sfogate tutte le vostre lamentele, dall’impiegato delle poste lento e lavativo alla pioggia causa del governo ladro.
Quanto vi piace lamentarvi, e visto che vi voglio bene ho voglia di leggermi tutti i vostri sfoghi.
A meno che… a meno che qualcuno non racconti un bel trasloco. Uno vero, un cambiar vita, un rinascere.
Rinascere non significa per forza abbandono, è anche e soprattutto un tornare alla vita, un riprendersi il proprio sè. Una nota di speranza.
Fatemi sperare, oppure lamentatevi, a voi la scelta.

Per quanto mi riguarda, Guantanamo Bay, se si trasloca è da una cella a un’altra, quindi si cambia poco, relativamente.

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Speranze

Barlumi di speranza, sparsi, strisciano sulle terre d’Italia.

Da un lato la televisione, “Vieni via con me” mostra che un’altra televisione è possibile, mostra che la qualità è possibile. Forse troppo politically correct, come ha detto qualcuno, ma pur sempre qualità, ed è questo il motore su cui battere.
Da un lato la cultura, mentre Bondi minimizza su un patrimonio dell’umanità collassato senza colpo ferire (se non nell’animo di chi ha idea di cosa è crollato a Pompei), si esaltano con crescente impegno le figure culturali di riferimento di un’Italia contemporanea che troppo spesso dimentica i grandi italiani (penso a Pasolini, Gaber, De Andrè) e fin troppo abbondantemente rimpiange i pessimi italiani (e non c’è bisogno di far nomi).
E ancora la politica, con un Vendola sempre più preponderante, con una personalità carismatica ma intelligente, e le avvisaglie della fine dell’incantesimo berlusconiano.

L’Italia è ancora possibile, dopotutto.

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