La colazione dei colonnelli del Kentucky
Intervento di Alberto Eva
al “Festival del giallo – Pistoia 2013”
Tema: “Golosi Criminali”
Cibo e thriller, binomio perfetto”
“I colonnelli del Kentucky”, indicato nel programma del Festival quale titolo del mio intervento, lascia supporre che io abbia scovato, chissà dove, un testo in cui tali colonnelli abbiano commesso atti, letterari, riconducibili al tema dato quest’anno alla manifestazione: “Golosi criminali”.
Un testo del genere non esiste. I delusi, possono raggiungere l’uscita, ma solo dopo aver appreso che con le budella degli organizzatori più buoni, occorrerebbe strozzare i cattivi.
Il titolo che io, avevo indicato, era “La Colazione dei Colonnelli del Kentucky”, titolo congruo, visto il tema trattato.
Un titolo misterioso; adatto per un Festival del Giallo.
Ripristinato il senso del mio intervento, occorre precisare che il medesimo non riguarda gli attuali ufficiali superiori dell’esercito degli Stati Uniti, tutti più o meno omologati, salvo forse nella pronuncia dell’inglese, e per qualche residuale differenza che attiene all’antropologia culturale. E’ del tutto evidente che un ufficiale georgiano, sarà difficilmente sovrapponibile ad un suo omologo nato a Boston. E’ probabile tuttavia che il problema non esista: buona parte dei militari di vario grado proviene dagli Stati depressi del sud; la carriera delle armi usata quale ascensore sociale, è snobbata invece dai fighetti, snob appunto, pronipoti dei padri pellegrini.
Alludo invece ai colonnelli che hanno combattuto nella guerra di secessione; secondo loro, terminata alla pari, e non si è capito se l’atteggiamento è conseguenza della colazione trangugiata, o se quel particolare tipo di colazione è consumato per illudersi che, davvero, tutto si sia risolto in un pareggio.
Credo sia il momento di precisare in cosa consiste la colazione dei colonnelli del Kentucky…
Semplice: una bottiglia di whiskey, una bistecca ed un bull-dog.
La bistecca è per il bull-dog.
Naturalmente sto blaterando di whiskey americano, che si scrive w h i s k e y, con la “e”, forma in uso anche in Irlanda, mentre in Scozia e Canada si adopera il termine “whisky”. Stravaganze del linguaggio parlato, è probabile, visto che ambedue le espressioni derivano dal celtico uisgebeatha (pronuncia ushki-beha), che significa, per ovvia coincidenza, “acqua di vita”. E’ semmai da osservare che la divergenza fra la forma irlandese/americana e quella scozzese/canadese non è riconosciuta dal mio computer, che conosce solo la seconda. Il “correttore automatico”, che tengo sempre attivo perché sono individuo di bassissima scolarizzazione e mi manca la sicumera dei laureati che non lo usano, ma in compenso ogni spesso inciampano in sfondoni clamorosi, indica quale erronea la forma americana, che è invece corretta. D’altronde, cosa aspettarsi da un apparecchio che ignora Gesù e Maria, mentre conosce benissimo Maometto? Deve averlo progettato un islamico, anche poco esperto di alcolici in quanto la sua religione ne proibisce il consumo.
Whiskey americano… S’intende, nella versione “Bourbon”, unica potabile per i colonnelli E’ un’acquavite che si ottiene mediante fermentazione e distillazione dell’avena e dell’orzo; talvolta, anche del mais, principalmente prodotta negli Stati del Sud, e conosciuta anche in Italia. L’Enoteca Niccolai, Via Passavanti 10/A r., in Firenze, fornitissima e che raccomando vivamente poiché è “popolata” da persone competenti, mi segnala che dispone delle seguenti marche: Jack Daniel’s, Jim Beam, Early Times, Marer’s Mark, Wild Turkey, Old Forester, Evan Williams, Basil Hayden’s, Gibson’s.
Le classi subalterne consumano il meno conosciuto rye whiskey, che si ottiene dalla segale. Lo troviamo schiccherato dai contadini, dai neri del sud che lottarono contro gli invasori del nord, ricordati da William Faulkner (New Albany, Mississippi 1897 – Oxdord 1962) ne “Gli Invitti” (“The Unvanquished”). Bevuto pure dagli sfigati tipo Charley Anderson nella trilogia “U.S.A.” di quel grande scrittore dimenticato che è John Dos Passos (la sua tecnica narrativa dovrebbe essere oggetto di studio, presso gli autori italiani. Parzialmente, ripresa da Jennifer Egan, Pulitzer 2011, in “Il tempo è un bastardo” – “A Visit from the Goon Squad”), e da quelli narrati da Erskine Caldwell (“Il piccolo campo”/”God’s Little Acre”, “La via del tabacco”/”Tobacco Road”, “Il predicatore vagante”/”Journeyman”) o da John Steinbeck (“Pian della Tortilla”/”Tortilla Flat”, “Vicolo Cannery”/Cannery Row”, “Uomini e topi”/”Of Mice and Men”). Bourbon o rye bevono, secondo il ceto sociale di appartenenza, i personaggi de “I saccheggiatori” (“The Reivers”), romanzo uscito postumo, ancora di William Faulkner, in cui troviamo “sedicenti gentiluomini, fannulloni, decrepiti zii sputa-sentenze, ragazze allegre, garzoni”, immersi ancora una volta nella mitica, tante altre volte frequentata, immaginaria contea di Yoknapatawpha, capitale Jefferson, della quale lo scrittore si proclamava “unico proprietario e padrone”.
E’ un autore qui ripetutamente citato, e non solo perché lo considero, in assoluto, uno dei più grandi del Ventesimo Secolo; consacrato dal Nobel, attribuitogli nel 1949. Nell’ambito di un Festival del giallo, non può non considerarsi che, per certi aspetti, “L’urlo e il furore” (“The Sound and the Fury”), e “Mentre morivo” (“As I Lay Dying”) hanno aspetti thriller. Le 63 pagine (nell’edizione “Medusa” Mondadori”) che costituiscono la parte iniziale del primo, sono, anche letterariamente, mozzafiato. Solo in quelle successive, si apprende la natura di Benji, “io narrante” di quella sezione del romanzo. Faulkner è, inoltre, sceneggiatore, con Leigh Brackett, di “Il Grande Sonno” (“The Big Sleep”), USA 1946, regia di Howard Hawks, dal romanzo di Chandler. E’, infine, autore di alcuni notevoli racconti, propriamente gialli: di passaggio, gli unici conosciuti da un autorevole scrittore di genere, toscano, che solo in base a quelli definì Faulkner un autore ottocentesco. Vale quel che afferma Goethe, quale commento: “Niente è più spaventoso di un’ignoranza attiva”. A piacere, e più raso terra, giunge opportuno quell’arruffapopoli del Guerrazzi: “Diociscampi dagli imbecilli”. Infine, lega indissolubilmente Faulkner alla colazione dei colonnelli il modo memorabile col quale definì l’ispirazione: “Una macchina per scrivere, e una cassa di whiskey”. Sudista, non pentito, snob quanto si conviene ad un soggetto che aveva seguito gli studi universitari (senza terminarli) lavorando, in sequenza, quale imbianchino, direttore di un piccolo ufficio postale, falegname, contadino e che, in un censimento degli anni ’50, alla voce “professione”, scrisse “agricoltore”.
Mi sembra quasi offensivo, precisare a questo punto che, mentre gli altri interventi hanno riguardato commestibili solidi, io intendo parlare principalmente, ma non solo, di liquidi che sfrizzolano il velopendulo e provocano euforia; insistendo, ubriachezza: perniciosa in quanto, come si dice, non è il bere che fa male, è il ribere. Solo una piccola sezione del mio dire è, infatti, riservata a liquidi non alcolici. Quali che siano, s’intende che parlerò di alimentari in forma liquida, consumati nell’ambito di giallo, noir, thriller, in varie declinazioni; compreso l’humour nero. Una ispezione, di necessità, a volo d’uccello. In parte, manca il tempo materiale per dilungarsi sull’argomento. Decisivo, appare che io scrivo gialli, ma non ne ho letto molti. Per abitudine consolidata, frequento lirici greci e letteratura americana; in ambedue i casi, in lingua originale. Ogni cinque anni do una ripassata ai classici russi, tradotti in italiano da Angelo Maria Ripellino; se altro non trovo, da Ettore Lo Gatto. Purtroppo, mi è mancato il tempo di apprendere correntemente la lingua: mi limito a fischiarla, e questo mi riesce piuttosto bene.
Una così lunga sbrodolatura per parlare di cibo liquido? Si aggiunga: per quale ragione, cominciare dal whiskey? E’ un modo per farmi bello al sol di luglio, per dare un titolo pomposo all’intervento, atteggiamento tipico del mio presuntuoso squallore?
Calma e gesso.
Inizio dal whiskey perché mi piace anzitutto sfatare la leggenda che, nella letteratura hard boiled americana tutti, e principalmente i protagonisti, bevono alcol quanto i muratori al sole consumano acqua.
L’equivoco potrebbe attribuirsi all’incipit di “Il grande sonno” (“The Big Sleep”), di Raymond Chandler: “Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’aria troppo tersa sopra le colline. Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e sobrio, e non me ne importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’investigatore privato elegante. Andavo a far visita a un milione di dollari”.
L’autore rimarca qui, come se fosse una condizione occasionale, la sobrietà di quel verginone di Philip Marlowe, “io parlante” del testo, e di tutti i suoi romanzi; ma raramente lo sorprendiamo a bere. In una lettera a D. J. Ibberson, 19 aprile 1951, Chandler si limita a precisare “Le abitudini di bevitore di Marlowe sono presso a poco quelle che dite voi. Non credo però che preferisca al bourbon il rye. Berrà praticamente qualsiasi liquore che non sia dolce. Certi drink, come Pink Ladies, Honolulu Cocktail, e Crème de Menthe, Marlowe li prenderebbe come un insulto. Sì, fa un buon caffé. Tutti sanno fare il caffé in questo paese, sebbene in Inghilterra la cosa paia impossibile”. Sul caffé, ci torno in altra parte di questo intervento.
Vero è che ne “Il lungo addio” (“The Long Goodbye”), il primo incontro di Marlowe con Terry Lennox ubriaco fradicio avviene all’esterno di un locale, il “Dancers”, del quale non è precisata la natura. E’ possibile che il vecchio Phil fosse lì per farsi un goccetto, ma dal modo in cui tratta il suo nuovo amico, non pare incline a ridursi nelle stesse condizioni. D’altro canto, un adulto single, dopo cena, in epoca che vedeva gli albori della televisione (il romanzo è del 1953), non è pretendibile che si dedichi in eterno alle partite a scacchi in solitaria, pur se è questa una sua grande passione.
Lennox gli si ripresenta alcuni mesi dopo; insieme, si recano al bar Victor, e bevono un cocktail chiamato “succhiello” (ignoto il nome in lingua originale). Apprendiamo che trattasi di “un po’ di succo di cedro o di limone con gin, un cucchiaino di zucchero e uno schizzo di amaro. Un vero ‘succhiello’ è per metà gin e metà succo di cedro di marca Rose e nient’altro. Batte in pieno il Martini”. Non è propriamente un beveraggio da signorine, ma nemmeno da alcolizzati.
Beveva, e molto, l‘autore, specialmente dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1954; un evento dal quale non si riprenderà più. Tentò perfino un maldestro suicidio. In una lettera a Neil Morgan, 5 giugno 1956, scrive: “La malattia che mi ha afflitto per molto tempo è un totale esaurimento mentale, fisico ed emotivo, aggravato da una pessima nutrizione e dal fatto che bevo quanto whiskey basta a tenermi in piedi… Non mi è mai stato difficile smettere di bere, ma, se smetti, che ti rimane?…”. Uomo dai molti scompensi, sposatosi a 36 anni, con Pearl Cecily Bowen, detta Cissy, che aveva 17 anni più di lui (53, al matrimonio). Secondo Ida Omboni, che lo ha tradotto, e conosciuto prima della morte di Cissy, Chandler era un omosessuale latente. Occorrerà farle credito, in quanto conosceva la materia: per anni ha scritto testi teatrali per e con Paolo Poli, gay dichiarato. L’ho incontrata una sola volta; ma per un periodo di tempo ci siamo sentiti spesso, via telefono, nel periodo fine ‘70/ inizio ’80, prima e dopo l’uscita di “Ve lo assicuro io”. Leggendo le storie di Phil Marlowe, c’è vago sentore di un orientamento sessuale del genere. L’investigatore ha pochi amici; si lega a Terry Lennox e, in fondo, “Il Lungo addio”(“The Long Goodbye”) è la storia amarissima di un’amicizia tradita. Sotto un certo profilo, qualcosa di più. Marlowe subisce l’incanto, il fascino di Terry; a muoverlo non è solo umana compassione. In compenso, con le donne non si concede mai. E’ pur vero che in “Poodle Springs Story”, 1959, lo troviamo sposato con Linda Loring; ma il romanzo è incompiuto, non sappiamo se il rapporto subirà turbamenti. In ogni caso, si tratta di un testo tardivo, prodotto da un Chandler spompato. Solo l’anno precedente, 1958, dopo un lungo silenzio, era uscito il settimo romanzo che ha Marlowe quale protagonista: “Ancora una notte” (“Playback”). Si sentiva, già in quello, che il Nostro aveva perso la mano, non era più lui… La mia, è qualcosa di più di una semplice opinione. Il romanzo è una rimasticatura di un soggetto e di una sceneggiatura che Chandler aveva scritto nel 1947, per la Universal, in vista della realizzazione di un film, mai avvenuta. Chandler recuperò i diritti e, secondo una tarda prefatrice, tentò “senza eccessiva convinzione di ricavarne il settimo romanzo con Philip Marlowe protagonista”. Già nel 1953 (= subito dopo l’uscita di “The Long Goodbye”), scriveva ad un amico: “’Playback’ è un poco stanco. Ho messo insieme 36.000 parole, ma ancora nulla di sostanzioso. E’ terribile. Soffro di una malattia chiamata (da me) atrofia delle energie inventive…”. Nel 1957, Chandler lottava ancora con lo stesso progetto (come già detto, il romanzo uscirà nel 1958). In una lettera a Helga Greene, afferma: “Ho riscritto la fine. Era buona ma un poco debole. Ho voluto iniettarvi una certa durezza. Non potevo ammettere che Marlowe piangesse continuamente perché una donna si era innamorata di lui…”. In parte, ha inciso l’età: nato a Chicago, Illinois, nel 1888; molto, la perdita della consorte, l’esaurimento mentale, l’eccesso di alcolici.
Intorno al consumo dei medesimi, da parte dei personaggi della letteratura hard boiled, lo stesso ragionamento vale per il secondo Dioscuro di questa “scuola”, Dashiell Hammett. Sam Spade ne “Il Falcone Maltese” (“The Maltese Falcon”), l’anonimo operatore della Continental in “Piombo e Sangue” (“Red Harvest”), Ned Beaumont ne “La chiave di vetro” (“The Glass Key”), nella sostanza non toccano alcol. Curiosa è invece la sorte di Nick Charles e sua moglie Nora, in “L’uomo ombra” (“The Thin Man”). Nel testo, si limitano a consumare qualche cocktail. Nel film che ne è stato molto liberamente tratto (USA 1934, regia di W.S: Van Dyke II°, con William Powell e Myrna Loy), e nei sequel che hanno seguito, visto il grande successo della coppia d’investigatori dilettanti quanto miliardari (i titoli continuano a riferirsi all’”Uomo ombra”, ignorando allegramente che quello del primo non si riferiva ai protagonisti, ma ad un personaggio ovviamente non presente nei film successivi… Un po’ come è avvenuto, più di recente, con “La Pantera Rosa”), i due bevono come cammelli. In luogo di acqua, whiskey e cocktail vari, tanto che la critica dell’epoca li definì “una coppia felicemente etilica”.
Pure in questo caso, era l’autore, ad avere il vizietto di alzare il gomito; in parte per “dimenticare” la tubercolosi che lo minava, e che lo aveva costretto ad abbandonare la sua attività di detective, presso la famosa Agenzia Pinkerton. Una malattia che lo aveva indotto a “scribacchiare”, per la rivista “Black Mask”, racconti che si rifacevano alle sue esperienze investigative. Ce ne informa Raymond Chandler, anch’egli collaboratore di “Black Mask”, in “La semplice arte del delitto” (“The Simple Art of Murder”): “A voler essere sincero, dubito molto che Hammett avesse precise mire artistiche; secondo me, tentava semplicemente di sbarcare il lunario, scrivendo su argomenti su cui disponeva d’informazioni di prima mano. Qualcosa se l’è inventato, tutti gli scrittori lo fanno, ma le sue invenzioni erano sempre fondate: eran costruite su una serie di fatti reali”. Conclude la sua breve disamina dell’opera di questo autore con una frase memorabile “Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per fornire un cadavere a dei lettori”.
Va tuttavia considerato che beveva anche per sopportare quella rompicoglioni di Lillian Hellman, convinta di essere una grande scrittrice solo perché aveva avuto il culo di azzeccare una pièce teatrale, “Piccole volpi” (“The Little Foxes”), venduta con successo al cinema, e da lei sceneggiata, insieme a Dorothy Parker. Va lealmente precisato che il film omonimo (USA 1941, regia di William Wyler) è un capolavoro assoluto, anche grazie ad un cast stellare, per l’epoca: Bette Davis, Herbert Marshall, Teresa Wright, Richard Carlson, Dan Duryea. Ancora, siamo nel profondo Sud, dei colonnelli e di Faulkner. E’ tuttavia pur vero che, dopo quell’exploit, la Hellman non ha combinato niente di buono, salvo cercare, e con un certo successo, di umiliare l’autodidatta Hammett (millanta volte migliore di lei, quanto a scrittura), col quale ha vissuto una tormentata relazione, e procurargli una citazione (ricevuta anche dalla gentildonna) per attività antiamericane, con invito a comparire davanti alla commissione McCarthy. Se la cavarono per il rotto della cuffia, ma per un certo periodo Hollywood decretò l’ostracismo verso Hammett, quale sceneggiatore. La fortuna di questi è che riuscì a sopravvivere economicamente, ed a comprarsi da bere, con i diritti ceduti all’industria cinematografica dei romanzi “L’uomo ombra” (“The Thin Man”, 1934, vedi sopra), “Il Falcone Maltese” (“The Maltese Falcon”, 1941, vedi sotto) “La chiave di vetro” (“The Glass Key”, USA 1942, regia di Stuart Heisler, con Alan Ladd, Brian Donlevy, Veronica Lake), prima della “cura” McCarthy.
Del pari sobri, risultano i tardi epigoni di Chandler e Hammett: per ricordarne due, Mickey Spillane e Ross McDonald. Mike Hammer, creato dal primo, o troppo fascista per abbandonarsi all’alcol (gli ci mancherebbe solo quello…); Lew Archer, del secondo, troppo sentimentale, e tuttavia mai sconfitto. I frustati, gli insicuri, bevono, fornendosi di coraggio a 40 gradi, minimo.
Come nasce, la leggenda che l’”hard boiled” è frequentata da alcolizzati?
Dal cinema, è probabile; o meglio, da una curiosa identificazione dei personaggi con gli attori che li interpretano.
Il più convincente dei vari Marlowe apparsi sullo schermo, è stato Humphrey Bogart, ne “Il grande sonno” (“The Big Sleep”, USA 1946, regia di Howard Hawks), nel corso del quale mai tocca alcol; del resto, gli sarebbe stato difficile: per metà del film, l’attore recita con le mani in tasca, come qualcuno ha osservato. Bogart è anche interprete di Sam Spade nel “Falcone” (in italiano, “Il mistero del falco”, USA 1941), film d’esordio, e col botto, di John Huston. Nemmeno in quello, lo vediamo bere.
E’ noto invece che, nella vita, Bogart beveva come una spugna, tanto che è morto a soli 57 anni (1900/1957). Suo grande compagno di bisboccia era, appunto, John Huston. I due, quando tornarono dal Continente Nero insieme a Katherine Hepburn ed alla troupe, dopo aver girato, sul lago Vittoria, “La Regina d’Africa” (“The African Queen”, USA 1951), furono gli unici a non accusare il disturbo della dissenteria, e questo per una ragione decisiva: al contrario degli altri, non avevano bevuto acqua del luogo; pasteggiavano a whiskey.
Fra i tanti che hanno interpretato Marlowe al cinema (George Sanders, Dick Powell, Robert Montgomery, George Montgomery, James Garner, Elliott Gould. James Caan solo per la televisione), il migliore di sempre (escludendo Bogart, “fuori quota”), è Robert Mitchum.Altro grandissimo consumatore di alcol .E’ curioso che l’attore abbia interpretato due film (“Marlowe, il poliziotto privato”/”Farewell My Lovely”, USA 1975, Dick Richards alla regia, e “Marlowe indaga”/”The Big Sleep”, USA 1978, regia di Michael Winner) in età avanzata (era nato nel 1917), rispetto al personaggio letterario (in una sua missiva ad un ammiratore, Chandler afferma che al suo esordio, ne “Il grande sonno”, Marlowe ha 36 anni, e precisa che nei successivi non si scosta molto da quella età. E’ tipico dei personaggi seriali: pensare a Maigret…). L’attore mostra per intero, nelle rughe, nelle borse sotto gli occhi, tutti gli stravizi che non si è fatto mancare. Non fanno testo gli occhi semichiusi, perché è sua caratterista costante, dagli esordi ed a seguire in tutti i film (più di 90) in cui ha lavorato (da rivedere, in particolare, i B movies noir girati per la RKO). I maligni sostengono che quella caratteristica era dovuta allo stato di perenne ubriachezza dell’attore. E’, credo, volontariamente umoristica la scelta operata Charles Laughton, di affidare a Mitchum il personaggio di Harry Powell, un predicatore ossessionato dal puritanesimo (si rifiuta perfino di consumare le proprie nozze) e che reca, tatuate sulle nocche delle dita (pollice escluso) le parole “Hate” e “Love”, in quella straordinaria fiaba nera che è “La morte corre sul fiume” (“Night of the Hunter), USA 1955. Il clamoroso insuccesso al botteghino troncò la carriera registica del grande attore inglese, primo interprete teatrale della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, regia di Joseph Losey. Il senatore McCarthy in particolare, e l’America in generale, non glielo perdoneranno mai. Losey, addirittura, dovette precipitosamente tornare nella sua patria, l’Inghilterra, per non finire in galera: nel 1948 “ci aveva rifatto”, come dicono a Roma, esordendo al cinema con uno scomodissimo film, “Il ragazzo dai capelli verdi” (“The Boy with Green Hair”)…
Ad alimentare ulteriormente la vulgata che vede intere vasche da bagno piene di alcol veleggiare nei dintorni dei personaggi presenti nella nuova letteratura poliziesca affacciatasi al proscenio, destinata a scardinare per sempre il poliziesco classico “riservato alle vecchie signore” è ancora il cinema, in specie degli anni ’30, con un genere che è filiazione diretta dell’hard boiled. L’espressione, letteralmente, significa “bollito fino a diventare duro”; traslato, assume il senso di “indurito dall’esperienza, cinico” (Devoto Oli). Una definizione che ben si attaglia a quella particolare linea noir, nel senso proprio, di vedere il delitto dalla parte del colpevole, costituita dai film di gangster, spesso realizzati, talvolta, semplicemente, ambientati, all’epoca del proibizionismo, che va dal 1919 al 1934, e che hanno quali protagonisti eroi negativi che svolgono, appunto, l’attività di boothleggers (“contrabbandieri, specialmente di alcol”, recita il Garzanti Hazon).
Si ricordano, qui, alcuni capisaldi del genere, che sono stati fonte di equivoci, intorno alla letteratura hard boiled, presso il pubblico, notoriamente disattento, cialtrone, e pronto a fare di ogni erba un fascio (il vento di antipolitica, di populismo, che attraversa il nostro Paese ne è la dimostrazione). Film che hanno fatto “incrociare le idee” ai molti sprovveduti che a qualcuno serve sempre, molto, mantenere tali.
– “Piccolo Cesare” (“Little Caesar”), USA 1930, regia di Mervyn LeRoy, con Edward G. Robinson, Douglas Fairbanks junior, Glenda Farrell. Ascesa e caduta di Cesare Rico Bandello, un bullo di periferia determinato a raggiungere la vetta (“il denaro è importante, ma non è tutto. No, devi essere qualcuno, e sapere che un pugno di uomini farà qualsiasi cosa dirai, e devi fare solo ciò che vuoi, o nulla”) Archetipo di tutti i gangster movies; Robinson nella sua miglior interpretazione di sempre. Curioso è che il personaggio di Joe Massara, complice e amico di Rico, che ha verso Joe un atteggiamento quasi omosessuale (ancora!), interpretato da Fairbanks junior, si ispira a George Raft (indimenticabile “Ghette”, in “A qualcuno piace caldo” (“Some Like It Hot”), USA 1959, regia di Billy Wilder), che al tempo stava girando i suoi primi film a Hollywood dopo anni di vaudeville e una collaborazione giovanile con Owney Madden, l’uomo che organizzò il racket dei taxi a New York e poi divenne un ricchissimo contrabbandiere di birra.
– “Nemico pubblico” (Public Enemies”), USA 1931, regia di William Wellmann, con James Cagney, Jean Harlow, Edward Woods, Joan Blondell. Altra ascesa e caduta, stavolta di Tom Powers, cresciuto nelle strade di New York e diventato gangster durante il proibizionismo, in compagnia dell’amico Matt Doyle. Finirà ucciso. Il suo corpo, legato a somiglianza di una mummia, viene messo davanti alla porta di casa, per cadere quando il fratello la apre. Cagney, da antologia. Con varie sfumature, riprenderà il personaggio del “dannato”, mai veramente ripetendosi.
– “Scarface” (“Scarface”), USA 1932, regia di Howard Hawks, con Paul Muni, Ann Dvorak, George Raft, Boris Karloff. Cast stellare, per l’epoca. E’ la storia di Al Capone, qui chiamato Camonte. Sceneggiatura di Ben Hecht, sconosciuto ai più. E’ autore (fra le centinaia di cose che ha scritto) insieme a Charles MacArthur, di “Prima pagina” (“The Front page”), portato sullo schermo quattro volte. “The Front page”, USA 1930, regia di Lewis Milestone. “La signora del venerdi” (“His Girl Friday”), USA 1940, regia di Howard Hawks, probabilmente la versione migliore. Qui Hildy è una donna, interpretata da Rosalind Russell, mentre direttore del giornale per il quale la cronista lavora è Cary Grant. Il massimo della commedia screwball. Il cambio di sesso di Hildy rende esplicita e rispettabile la natura di un rapporto che, negli altri film, è solo implicita: la sudditanza psicologica del giornalista verso il suo direttore ha venature omosessuali. A seguire”Prima pagina” (“The Front Page”), USA 1974, regia di Billy Wilder, con la collaudata coppia Jack Lemmon/Walter Matthau, e “Cambio marito” (“Switching Channels”) USA 1988, regia di Ted Kotcheff, cagata pazzesca con il ritorno di Hildy in panni femminili, indossati da Kathleen Turner che non vale un decimo dell’ironia sfoderata, da sempre, dalla Russell. Direttore, non più di giornale ma, per adeguarsi ai tempi, di una televisione d’assalto, è Burt Reynolds.
Lo “Scarface” di Brian De Palma, USA 1983, con Al Pacino e Michelle Pfeiffer, anch’esso aggiornato all’epoca in quanto il protagonista, Tony Montana, fuggito da Cuba, anziché alcol, si occupa di narcotraffico, non regge il confronto con l’originale, già “cinquantenne” quando De Palma si è messo all’opera.
– “Ruggenti anni Venti” (“The Roaring Twenties”), USA 1939, regia di Raoul Walsh, con James Cagney, Humphrey Bogart, Jeffrey Lynn. Ultimo gangster-movie dell’epoca d’oro. Cagney e Bogart trafficano in liquori di contrabbando. Lynn, loro ex commilitone, divenuto avvocato e assistente del procuratore distrettuale, li contrasta. Bogart vorrebbe ucciderlo, Cagney lo difende e ci rimette le penne. Ultimo ruolo da comprimario per Bogey. Un film su dieci anni di storia dell’America, per spiegare il meccanismo sociale che è alla base del gangsterismo. Fra gli sceneggiatori, troviamo il futuro regista Robert Rossen, e l’ormai prossimo produttore Mark Hellinger.
Un meccanismo che è anche alla base di certe fortune, reali o letterarie.
Al primo genere, appartiene la figura di Joseph Kennedy, il patriarca della futura “famiglia imperiale” che dette agli Stati Uniti un Presidente e mezzo (è noto che Bob fu assassinato mentre era in corsa per la carica). Le fortune del vecchio Jo, avevano origine nella sua attività di contrabbandiere di alcol. Uomo di pochi scrupoli, come spesso avviene a coloro che, in pochi anni, realizzano ingenti patrimoni (sembra che sia impossibile farlo, usando mezzi legittimi, ma forse è un pettegolezzo), da buon cattolico procurò che la moglie rimanesse costantemente incinta ma, sostenendo che intendeva rispettarne la condizione, ricavandone un comodo alibi per sfogare le sue voglie libertine. Famosa è la sua relazione con Gloria Swanson, con la quale co-produsse “Queen Kelly”, USA 1928, regia di Erich Von Stroheim, che non riuscì mai a terminarlo per contrasti con i produttori e la censura. Distribuito solo in Europa, e con un finale voluto dalla Swanson, fu ricostruito negli anni ’80 da Donald Krim, con l’aiuto di foto di scena e delle didascalie di Stroheim, che svelano le sue intenzioni, specie per il finale. Alcuni frammenti del film sono inseriti in “Viale del Tramonto” (“Sunset Boulevard”), USA 1950, regia di Billy Wilder, con William Holden, Gloria Swanson, Erich Von Stroheim e Nancy Olson. Un noir torbido quanto magnifico.
In letteratura, troviamo invece un ex contrabbandiere, Jay Gatsby, protagonista del romanzo “Il Grande Gatsby” (“The Great Gatsby”) di Francis Scott Fitgerald, portato tre volte sullo schermo: nel 1926 (USA. Inedito in Italia; mancano indicazioni), nel 1949 (USA, regia di Elliot Nugent, con Alan Ladd, Betty Field, Macdonald Carey, Barry Sullivan: commestibile) e nel 1974 (USA, regia di Jack Clayton, con Robert Redford, Mia Farrow, Sam Waterston, Bruce Dern. Una cagata pazzesca, nonostante le ingenti spese sostenute per costumi e scenografie, nonché per la sceneggiatura di Francis Ford Coppola). La morte per suicidio del protagonista, non vale quella, immortale, del “Martin Eden” di Jack London: “Vi fu un rombo prolungato, e gli parve di scivolare lungo un vasto interminabile pendio. E, in qualche parte, là in fondo, cadde nelle tenebre. Solo questo seppe. Era caduto nelle tenebre. E nell’istante stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”.
…Si chiama “saper scrivere”. Chissà se il vecchio Jack, quando ha vergato queste parole, era in preda al suo demone, il vecchio John Barleycorn, al quale ha dedicato il testo omonimo. In italiano, “Memorie di un bevitore”, sorta di autobiografia in chiave alcolica. Barleycorn, letteralmente significa, infatti, “chicco d’oro”, ed è il termine popolare con cui, negli Stati Uniti, si chiama la birra, che è fatta con l’orzo, ed in genere l’alcol.
Non intendo, con questo, sostenere che Fitzgerald non sapeva scrivere. Il finale del rozzo London è, semplicemente, migliore di quello di Gatsby. Per il resto, Fitzgerald è di gran lunga il migliore, il più colto, il più raffinato della “lost generation” (Hemingway e Gertrude Stein e compagnia), ed anche il più forte (o solo, più fragile) bevitore del gruppo, complice quella pazza della moglie Zelda, con la quale, all’epoca del proibizionismo, frequentava speakeasy (slang americano. Bar clandestino, durante il periodo) a rotta di collo. E’ basandosi questa esperienza che ha scritto (ricordare quanto sopra riportato, Chandler a proposito di Hammett: “Qualcosa se l’è inventato, tutti gli scrittori lo fanno, ma le sue invenzioni erano sempre fondate”) uno dei suoi racconti più belli, o forse fra i più allucinati, “Il decennio perduto” (nella “Medusa” Mondadori, 1960, manca il titolo originale). Storia di Louis Trimble, che ha trascorso ubriaco gli ultimi dieci anni della sua vita (1928/38), pubblicato nel 1939, un anno prima della morte dell’autore, avvenuta in ancor giovane età (1896/1940), negli ultimi anni, costretto dalle necessità economiche a subire le vessazioni dei produttori di Hollywood, David O. Selznick in primis, che nemmeno lo accreditò (stessa sorte toccò a Ben Hecht, già citato) per il contributo alla sceneggiatura di quel magico minestrone che è “Via col Vento” (“Gone with the Wind”), diretto da almeno tre registi, George Cukor, Sam Wood e Victor Fleming (che lo ha firmato), ma si vocifera anche di un intervento di Mervyn LeRoy. In compenso, è al suo ultimo periodo, successivo al ricovero in manicomio di Zelda, che si devono le opere più mature di Fitzgerald, “Tenera è la notte” (“Tender Is the Night”) e “Gli ultimi fuochi” (“The Last Tycoon”), incompiuto.
Prima di abbandonare definitivamente il territorio del whiskey nel cinema, mi sia concesso di ricordare di un altro film, stavolta propriamente un noir.
Si tratta de “Il traditore” (“The Informer”), USA 1935, regia di John Ford. La storia si svolge in Irlanda (quindi l’uso del termine whiskey, visto quanto parecchio sopra precisato, è pertinente, anche se non si tratta di bourbon), nel 1922; Sinn Fein contro gli inglesi. Gypo Nolan (Victor McLaglen, qui al suo vertice interpretativo, che non raggiungerà mai più) denuncia alla polizia un amico e compagno di lotta, per procurarsi il denaro necessario a consentirgli di emigrare in America, denaro che sperpera in una notte; buona parte in cospicue bevute. Sarà ucciso all’alba dai compagni che ha tradito. Per mio conto, aggiungo “ben gli sta”. Pentirsi è un conto, farsi delatori è passabilmente laido. Il film è tratto da un romanzo di Liam O’Flaherty, sceneggiatura di lusso, dovuta a Dudley Nichols.
Sta scritto: “Non di solo pane, vive l’uomo”. Per parafrasi, affermo: non di solo whiskey, vivono giallo, noir, thriller; nel senso banale che molto altro, si beve, in questo ambito.
…Il pane? Spontanea, sorge l’associazione al vino.“Maramao, perché sei morto, pane e vin non ti mancava…”… fu cantato, quando Italo Balbo fu abbattuto dal fuoco amico, mentre tornava al suo confino dorato, in Libia. Il ras di Ferrara faceva troppa ombra al Chiorba… E ancora ci si chiede se ci fu errore, o qualcosa di più… Buono spunto per un giallo storico. Suggerire a Leonardo Gori.
Il vino avvelenato, vanta episodi illustri…
Il primo che viene in mente, è quello di “Amleto” (“Hamlet”). A coloro che trovano il testo…fuori del contesto, faccio osservare: Amleto sostiene che lo zio e la madre hanno ucciso suo padre; ma nulla giustifica l’accusa; il fantasma della buonanima potrebbe essere una fanfaluca, il sogno di un folle, generato dal fatto che, dopo il tragico evento, i due si sono sposati, scandalizzando il prence, che, per buona misura, li accusa perfino d’incesto, mentre si sbaglia nel confondersi: i due sono parenti per via di Adamo. L’accusa (il sogno) cela il vero, incesto, quello che Amleto vorrebbe consumare. Come diceva un tipo, alla radio: “Ma che complesso di Edipo e complesso di Edipo! L’importante è voler bene alla mamma.”. Appunto, anche troppo…
Resta che il giallo ruotante intorno alla morte del padre di Amleto rimane insoluto… anticipa “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” di Gadda, anch’esso privo di scioglimento del mistero.
In compenso, siamo di fronte ad un ottimo noir; torbido, tenebroso, colmo di sfumature, con un finale pieno di morti, del tutto prevedibili, come si conviene al genere. Si tratta solo di svolgere il tema, inquadrare e spiegare il meccanismo che scatena una mezza carneficina. Il Bardo lo fa puntualmente, con precisione chirurgica. Riassumo.
Atto Quinto, scena seconda.
Abbiamo un duello col fioretto, fra Laerte e Amleto. Si usano armi cortesi, prive di punte atte a ferire.
Il re Claudio si è munito di una coppa di vino, che intende offrire ad Amleto, affinché si rifocilli, fra un assalto e l’altro. La bibita è corretta al veleno. Solo che mamma Gertrude, anche regina, vedendo il figlioletto sudato, gli porge un fazzoletto affinché si deterga il volto: sa che bere quando si è sudati può provocare una congestione, e lei al suo bambino ci tiene. Per gratificarsi del bel gesto, e della materna sollecitudine dimostrata, beve il vino contenuto nella coppa truccata dal re. Il gesto avventato la rende stecchita in pochi secondi. Nel frattempo, Laerte ferisce Amleto col suo fioretto, che, si scopre, è a punta scoperta. Il pallido principe s’incazza, nasce una colluttazione, i duellanti (quando si dice le combinazioni!) si scambiano le armi, Amleto ferisce a sua volta Laerte, che gli rivela come, previo accordo con re Claudio, la punta dell’arma sia avvelenata; ragion per cui, si sono procurati due ferite mortali. Rincazzato, e stavolta come un pinguino, Amleto si scaglia sul re e lo uccide. Siamo a quattro morti. Potrebbe essercene un quinto: Orazio, fraterno amico di Amleto, che vorrebbe seguirlo nella dipartita bevendo le ultime gocce del vino avvelenato che ha tolto la vita a Gertrude; solo che Amleto lo prega di dare a lui, quel vino, tanto per esser certo che, oh, qui si muore sul serio, e lo invita a rimaner vivo per raccontare la sua storia. Non è chiaro se beve quel vino (non lo dice nemmeno il testo originale inglese); certo è che muore, a causa del veleno presente sulla punta del fioretto o del vino non sappiamo ma quel che conta è il risultato. Il resto è silenzio. Sono anche le ultime parole pronunciate dal Nostro.
Il vino è presente anche in un altro classico del noir; con implicazioni che, sceneggiando la storia in altro modo, potrebbero interessare John Grisham: ci si potrebbe imbastire un bel processo indiziario.
Alludo al “Macbeth” (“Macbeth”), sempre del vecchio Shakespeare.
Il protagonista, uccide il vecchio re Duncan per impadronirsi del trono di Scozia, inverando le profezie di tre streghe raccattate dalla piena, che ha casualmente incontrato, e c’è poco da prendere per i fondelli. Quanta gente consulta il mago Otelma? Quanti, giocano al lotto i numeri forniti dagli “indovini” presenti a tarda notte sulle più improbabili emittenti televisive?
Il delitto avviene all’arma bianca; tuttavia, per accedere alla camera in cui il re sta dormendo, l’omicida deve superare due sentinelle che vegliano su quel sonno. Ci riesce, aiutato dalla demoniaca Lady Macbeth, che rifocilla le guardie con vino drogato. Non solo, per uccidere usa i loro pugnali, ed imbratta il duo col sangue del re morto. Per chi non ci crede, atto I, scene VII/VIII. E vai col processo indiziario, alla Grisham! Una volta, si sarebbe detto alla Perry Mason. Pèri per o romani. Masón, per i veneti: è cognome abbastanza frequente, nel nord est.
L’orientamento noir del testo è confermato dal fatto che Macbeth fa uccidere Banquo, che lo sospetta e potrebbe essergli di ostacolo, affidandosi a due killer, nella miglior tradizione dei gangster-movies. Scontato, il riferimento a “I gangsters”, titolo originale “The Killers”, USA 1946, regia di Robert Siodmak, con Burt Lancaster, Ava Gardner, Albert Dekker, Edmund O’Brien, capolavoro assoluto. Il primo quarto d’ora è tratto da un racconto (“The Killers”, appunto) di Ernest Hemingway, al quale regista e sceneggiatori (John Huston, Richard Brooks e Anthony Veiler) sono molto fedeli.
Vino scorre a fiumi, anche se produce solo un morticino ed altre catastrofi, in quel capolavoro di omosessualità mascherata che è “La cena delle beffe”, “Poema drammatico in quattro atti”, come pomposamente recita il frontespizio dell’opera, pubblicata dai Fratelli Treves, autore Sem Benelli da Prato. La questione dell’omosessualità non è una mia fissazione: semplicemente, come in tutti gli altri casi, mi limito a raccogliere le voci che circolano fra colti, autorevoli soggetti; laureati ma sul serio, non come certi autori di gialli da tempo in circolazione.
Tale sensazione è accentuata nel film, Italia 1941, che dal dramma fu tratto. Mi limito a riportare: “… in realtà colpisce per la forte componente omosessuale nella relazione fra gli antagonisti, intenti – più che a conquistare la donna contesa – ad esaurire le pulsioni erotiche autodistruttive all’interno di un legame maledetto”. Alla regia, Alessandro Blasetti, noto quale “il matto con gli stivali”. Indossava spesso quel tipo di calzatura, in memoria dei suoi trascorsi da ufficiale di cavalleria.
Il riferimento al vino è pertinente. Chi non ricorda il “fiorentino” Neri Chiaramantesi, interpretato dal sardo Amedeo Buffa, in arte Nazzari, che pronuncia la proverbiale battuta: “Chi non beve con me, péste lo cólga!” (e di bere vino si trattava).
Il giallo, il noir, cosa c’incastrano? Abbiate pazienza: se è definito un noir, il film “Angoscia” (“Gaslight”), USA 1944, regia di George Cukor, in cui Charles Boyer cerca di far impazzire la moglie Ingrid Bergman, che dire di un “melodramma torbido e serrato”, in cui Giannetto Malespini (Osvaldo Valenti), con un ultima atroce burla, induce Neri ad uccidere l’uomo che trova a letto con l’amata Ginevra (Clara Calamai; forse suo, qui, il primo seno nudo della storia del cinema italiano. Doris Duranti contestò, sostenendo che era suo il primo regal seno mostrato in pubblico oltre che ad Alessandro Pavolini, in privato), anche un po’ troia. Scopre, subito dopo il delitto, che il morto è il suo germano Gabriello e, a differenza della Bergman, salvata da Joseph Cotten, impazzisce davvero.
Termino l’excursus intorno alla presenza del vino nel giallo, tirando su il morale agli ascoltatori, citando una commedia nera che si dipana fra il comico e il grottesco.
Alludo ad “Arsenico e vecchi merletti” (“Arsenic and Old Lace”), di Joseph Kesselring, portata sullo schermo nel 1944 da Frank Capra, interprete Cary Grant. Qui troviamo due simpatiche vecchiette che avvelenano, propinando loro cibo e vino avvelenati, persone sole e derelitte, per “liberarle dall’infelicità”, obiettivo che non è propriamente nuovo di zecca: qualcosa del genere aveva pensato Jonathan Swift, presentando la sua efferata “Una modesta proposta per impedire ai bimbi della povera gente d’essere un peso per i genitori e per il paese, facendoli invece servire alla pubblica utilità” (“A modest proposal for preventing the Children of Poor People from being a Burthen to their Parents, or the Country, and for making them Beneficial to the Publick”), che avrebbe “sistemato” i bambini poveri liberandoli dalla miseria, “semplicemente” dandoli in pasto a quelli appartenenti alle classi alte. Arricchiscono il cast del film Raymond Massey truccato come Boris Karloff, che aveva interpretato lo stesso ruolo a Broadway, e Peter Lorre. Ritengo inopportuno rivelare come questa commedia nera finisce: rovinerei la visione del film ai pochi che non lo conoscono. Si trova in DVD.
Il passaggio che propongo a questo punto è perfino banale. Dal vino al distillato del medesimo, e nella sua espressione teoricamente più preziosa: il cognac, che non è il maric della sorec (questa arriva dopo, occorre qualche secondo per elaborarla).
Chiacchiere.
Attiene alla poesia, che si tratti di “quella speciale combinazione che si ottiene da un mediocre vino bianco leggero ed asprigno che cresce lungo le due rive della Charente da un terreno molle e calcareo sotto il sole forte di quelle lande meridionali, distillato in antiquati lambicchi, invecchiato in botti di legno di rovere in cui comincia a farsi bruno, e di tanto in tanto, per ovviare all’evaporazione, arricchito con dosi di cognac più o meno vecchio, e infine colorata con lo zucchero bruciato”.
Con un metodo del genere sarebbe impossibile ottenere un prodotto che abbia costanza di gusto. E’ noto che ci sono differenze, a volte, di rilievo, fra un’annata e l’altra, per un vino ottenuto da uva raccolta in uno stesso podere.
Per ottenere un prodotto industriale, tipo Courvoisier (che un mio Cliente ritiene sia un architetto. Ovviamente, si sbaglia con Le Corbusier), si distilla il vino, riducendolo allo stato di alcol puro; poi si aggiunge acqua per condurlo alla gradazione voluta, infine si aggiungono gli additivi che danno colore e sapore. Agli increduli, suggerisco un esperimento. Versare alcune gocce di cognac sul palmo di una mano, poi strofinare forte con l’altra, facendo evaporare il liquido; indi, annusare le mani: profumano di saponetta. Niente da spartire con l’odore del distillato di vino.
I maligni sostengono che nemmeno il vino utilizzato per la distillazione viene dal dipartimento della Charente. Visto il sistema sopra indicato, è possibile: ridotto allo stato di alcol puro, chi è in grado di individuare la provenienza del vino?
Resta che il “Cognac” è nome legalmente protetto, e si riferisce ad un prodotto che, per obbligo, deve provenire da una zona precisa, la cui capitale è, manco a dirlo, Cognac. Nel trattato di pace firmato per l’Italia dal diplomatico Conte Meli Lupi di Soragna, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è proibito esplicitamente definire “cognac” il nostro distillato di vino. Per tale uso si adopera il termine inglese “brandy”.
Nel giallo, il cognac è frequentato, sia pure non spesso, dal commissario Maigret. Una frequenza che non sorprende, trattandosi di un personaggio che è un “bon vivant”, specialmente nella versione italo/bolognese ammannita dalla TV di Stato: si converrà che Gino Cervi, perduto per strada il perfetto italiano col quale doppiò Laurence Olivier in “Amleto” (“Hamlet”, Gran Bretagna 1948, regia dello stesso Olivier), si abbandonò un po’ troppo alla sua bolognesità carica di bonomia, assecondato da una distribuzione delle parti quanto meno discutibile. Andreina Pagnani era troppo bella, e non assomigliava minimamente alla signora Maigret raccontata da Simenon.
Più spesso, Maigret consuma un innocuo Calvados, ignobile prodotto che si ottiene dal sidro, e che prende il nome dall’omonimo dipartimento della Francia settentrionale, in Normandia. Il sidro è costituito da semplice frutta fermentata leggermente alcolica, consumato in Francia e nei paesi nordici. Maigret non disdegna tuttavia la birra, parente povera del vino. Quest’ultimo, il commissario consuma solo quando è fuori servizio, ovvero insieme alla consorte. La birra accomuna Maigret ad altro investigatore, Nero Wolfe, sul quale spenderò, più sotto, alcune parole per un caso curioso che riguarda proprio il suo consumo della birra.
Assai più spesso, il cognac è consumato dai personaggi inventati da un curioso autore francese, ormai dimenticato, Auguste Le Breton. Ho avuto occasione di conoscerlo al Festival (non ancora Mystfest) di Cattolica, nel 1978, quando ho vinto il Premio Gran Giallo. Era l’ospite d’onore per quell’anno. Non ci scambiammo parole, in quanto la scuola aveva tentato di insegnarmi il francese, ma con esiti lacrimevoli. Riesco a capirlo solo se scritto; parlato, per me equivale all’aramaico. In compenso, Le Breton non parlava italiano; anzi, per certi versi, potrebbe dirsi: nemmeno il francese. Uomo di bassa scolarizzazione quanto me, ci accomunava, per il niente che vale, il fatto che io conosco discretamente l’italiano, ma parlo e scrivo un fiorentino perfetto, ai limiti dell’incomprensibile. “Du’ latti, a lu’ colaho, a me ‘un me lo holi”: kevvordì? Lui parlava un francese approssimativo, ma conosceva benissimo l’”argot”, il dialetto parigino; e scriveva usando quello. La Mondadori tentò, di introdurre Le Breton in Italia, ma si scornò in quanto essendo insensato tradurlo nella nostra lingua, ricorse ad un frasario che, in parte, era mutuato dal linguaggio della “mala” lombarda, costituita da quelli che potremmo definire con successo “poco più che ladri di galline”… I Lutring, i Vallanzasca, non erano espressione di quell’ambiente. La banda Cavallero, protagonista della prima fuga con sparatoria fra rapinatori e polizia, avvenuta in Italia, per le vie di una città (vedi “Banditi a Milano”, Italia 1968, regia di Carlo Lizzani, con Gian Maria Volonté, Tomas Milian, Don Backy), men che meno. L’autore che più si avvicina (ma non ne usa il linguaggio… era l’epoca in cui non si scriveva ancora in dialetto…), è il “precursore” per antonomasia, Giorgio Scerbanenco, e solo in alcuni racconti (cfr. “”Milano calibro 9”. Grande film, con lo stesso titolo, Italia 1972, quanti ricordi! Regia di Fernando Di Leo. Alla faccia di Tarantino!). La restante parte del linguaggio “italiano” di Le Breton fu inventata “a tavolino”, con effetti esilaranti. Scolpita nella memoria, è una tipa che “bava per i brilla”: tradotto in italiano commestibile, significa “una signorina (col buco da signora, come si evince dal contesto) che in forma smodata apprezza i brillanti”. Calo un velo sulle scarpe, identificate inesorabilmente come “fangose”.
Il tentativo della Mondadori, di inventarsi un “caso Le Breton”, per rimpolpare la presenza di autori stranieri, che cominciavano a mancare (intorno alle ragioni del fenomeno, vedi sotto), non sortì buoni risultati. I lettori erano abitudinari, chiedevano una precisa linea editoriale: la loro. Le Breton non vi apparteneva. Nessuna importanza fu data al fatto (ai primi ’60, l’ineffabile Arbasino aveva proposto agli autori italiani “una gita a Chiasso”, appena fuori d’Italia: in Svizzera. I lettori dei gialli sarebbe stato opportuno spedirli… non dico dove. Sembrerei una controfigura dell’impresentabile Beppe Grillo sparlante) che fosse uno scrittore pubblicato, con numerosi romanzi, nella “Série noire”di Gallimard, e fosse l’autore di “Rififi chez les hommes”, portato con grande successo (Le Breton collaborò alla sceneggiatura) sullo schermo nel 1955 (Francia, regia di Jules Dassin, al suo esordio francese, in fuga dall’America in cui era nato, vittima del maccartismo, già autore di “Forza Bruta” (“Brute force”), USA 1947 e “La città nuda” (“Naked City”), USA 1948, il primo film americano girato dal vivo, in strada, a New York), noto in Italia col titolo “Rififi”, con Jean Servais, Carl Mohner, Perlo Vita (lo stesso Dassin), Magali Noël (futura “Gradisca” in “Amarcord” di Fellini), Robert Hossein. Era il linguaggio, che non rispondeva alle esigenze dello spettabile pubblico. Una chiosa, è permessa? Il caso Le Breton mi suscita una curiosità. Come può, Andrea Camilleri, essere noto in varie parti del mondo? Il suo siciliano (che tale non è, semplicemente perché il siciliano non esiste: a Trapani non si parla come a Catania. Fra il fiorentino ed il livornese c’è un abisso: perfino il toscano è quindi una fanfaluca), in qual modo è tradotto? Da notarsi che togliendo il linguaggio (peraltro, alle lunghe, ripetitivo in quanto “povero”, come tutti i dialetti: “spiò”, “macari”… non si esce dalla strettoia, che è castrante) usato dall’autore, a Montalbano rimane ben poco. Le storie gialle non hanno molta consistenza, in sé; la loro conclusione è facilmente intuibile. Ritratto di un ambiente, di una realtà precisa, individuabile? Incomparabilmente meglio Massimo Carlotto, pur se la saga dell’Alligatore sconta la necessità, intrinseca al seriale, di ripetere le caratteristiche di alcuni personaggi fissi, a beneficio di coloro che “hanno perso le puntate precedenti”. Una sorte alla quale non si sottraggono i poliziotti che ruotano intorno a Montalbano. Solo che, essendo una pletora, è giocoforza affidarsi ad un altro, collaudato metodo, tipico dell’avanspettacolo: il tormentone. Ritorna il termine “ripetitivo”.
…Così abitudinari, gli italiani dell’epoca, da rifiutare (anche con vive proteste) gli autori indigeni: quando uno di questi era pubblicato, le vendite calavano. Del mio “Ve lo assicuro io”, 1980, furono tirate 59.000 copie (non conosco le “rese”), contro le abituali 65.000 dei Gialli Mondadori. Addirittura, erano rifiutati i gialli americani scritti da autori di origine, e cognome, italiani. Uno per tutti, Barry Fantoni. Loriano Macchiavelli, che insisteva perché la Mondadori pubblicasse gialli italiani, al Festival di Cattolica fu minacciato fisicamente da Marco Tropea, temporaneo redattore della rivista.
E’ naturalmente possibile che gli autori presenti sul mercato, all’epoca (Alberto Eva incluso, “punito” da una signora Santini, di Pisa, che scrisse alla redazione sostenendo che nel suo romanzo c’erano troppe parolacce. Segno dei tempi. Cosa dirà, la gentile, ascoltando il linguaggio televisivo odierno? L’autore rifiuta l’ipotesi di aver provocato la valanga), fossero “mezze calze”, ma è certo che la redazione dei Gialli fu miope. I più dotati fra autori americani avevano scoperto che non conveniva loro scrivere due testi ogni anno, ricavandoci striminzito pane e companatico. Si organizzarono mediante preparazione di una robusta scaletta, buona per un testo di 300/400 pagine, stesura del primo capitolo del testo medesimo, invio in giro, per editori, del pacchetto (paccottiglia, spesso) di carta, fino a quando non ne trovavano uno, disposto a versare un robusto anticipo, tale da assicurare all’autore una vita superiore alla semplice sussistenza, per un periodo di tre/quattro anni, il tempo necessario a scrivere il romanzo progettato.
Nella “rete” Mondadori rimasero le “mezze calze”americane, non più dotate di quelle italiane. Queste ultime, poco appetite dai lettori…? Le une per le altre, si trattava di “formare” una tradizione, una via italiana al giallo, non facile da stabilire/tracciare ma, alle lunghe, vincente. Il numero di romanzi italiani, di genere, che straripa dal 1990 in poi, dà alimento indiscutibile a questa tesi. Rimane in bazzica la questione della qualità. Le eventuali “mezze calze” dell’epoca, scrivevano (continuano a scrivere, riferendomi ai sopravvissuti) in italiano; il 90% del profluvio di pubblicati, limitatamente a quelli che ho letto, usa una lingua deplorevole. Il bello è che qualcuno esercita la professione dell’insegnante: piacerebbe sapere cosa diavolo insegna. Velo pietoso calo su autori che salgono in cattedra in autoreferenziali scuole di scrittura: poiché godo di una piccola, e malfamata notorietà (tutti sanno che sono un cattivo soggetto), non posso partecipare in qualità di allievo… Ammetto che mi piacerebbe molto… Film già visto quando ho frequentato una scuola di arredamento; solo che mi sono incontrato/scontrato con insegnanti ben più longanimi di quelli che, sono certo, mi troverei davanti in una scuola di scrittura. Finirebbe con sedie che volano.
E’ inoltre, in corso, un fenomeno di riflusso. I quattro gatti che scrivevano negli anni ‘70/primi ’80, raccontavano città riconoscibili, realtà vive che, oggi, sono datate, in quanto avulse dalla situazione storica attuale. Restano tuttavia la traccia di un percorso e di un periodo della storia italiana, assai più di quanto può dirsi per narrazioni che attengono alla letteratura con la L maiuscola, e priva di definizioni, salvo una (opinione personale): anemica.
I testi in corso ai nostri tempi sono basati su intrecci (spesso improbabili) che riconducono al “giallo classico” (Agatha Tristi), oppure al “romanzo storico”, virato in giallo per dargli una patina “nuova” (però, un “Macbeth” senza tempo, se lo scordano: vedi sopra) con tutti i suoi particolarini al loro posto salvo complicazioni (cantonate terrificanti), ma falsi come Peter Ustinov che recita (e si vede) Nerone in “Quo Vadis?” (USA 1951, regia del pur dotato, e qui soltanto volenteroso, Mervyn LeRoy). Un romanzo storico giallo che potrebbe, avere ragion d’essere, alla condizione di togliere cartapesta e princisbecco, e di “coniugarlo al presente”. Ipotesi di un progetto, potrebbe essere di inseguire “Senso” (Italia 1954), regia di Luchino Visconti, invece di gattonare (sic) “Il Gattopardo” (Italia/Francia 1963. La ripetizione è cercata, oltre che, naturalmente, trovata), stesso regista, ignobile “illustrazione” di Tomasi di Lampedusa (tutti i bischeri son bòni). La storia che tramanda venerandi episodi non ha senso; è utile solo quando serve a non dimenticare, e ad evitare, per crassa ignoranza, di ricadere negli errori commessi dagli antenati.
…Tutto questo ci saremmo risparmiato se i Gialli Mondadori avessero, con la loro autorevolezza, selezionato e “imposto” autori italiani di qualche valore, stabilendo un discrimine fra “quelli”, e gli altri, Alberto Eva incluso fra i secondi, da cacciare nel limbo delle piccole case editrici senza futuro. Sarebbe avvenuto: era un progetto di Alberto Tedeschi, che morì prima di poterlo realizzare. Oreste Del Buono lasciò esplicitamente tutto in mano alla redazione. Gianfranco Orsi è un compito gentiluomo (se ancora vivo: non so), e pieno di qualità; solo che manca l’uomo (dare un’occhiata a Robert Musil)…
Torniamo ai liquidi consumati nel giallo/noir.
Altro prodotto consumato dai personaggi di Le Breton è quell’abominevole mistura chiamata Pernod, che solo ai francesi riesce pubblicizzare e vendere, in forza del fatto che la loro lingua è tipicamente da imbonitori.
Trattasi di liquido prodotto dai Pernod Fils (da qui il nome), definito dai fabbricanti “Extrait d’abshinte”. Solo che del prodotto originario, assenzio od abshinte, conserva il primitivo gusto di anice, ma ha perduto gli effetti perniciosi, ed è quindi un succedaneo, anche se opportuno: l’assenzio, a forte gradazione alcolica (70/80°), ottenuto mediante distillazione di una pianticella nota quale Arthemisia vulgaris, e mescolato in piccole proporzioni ad ingredienti fortemente aromatici, radice di angelica, acorus calamus, foglie di dittamo, ìssopo e finocchio, si è rivelato esercitare un malefico influsso sul sistema nervoso; in forti dosi, causa allucinazioni, pazzia, delirium tremens e sterilità. Per questa ragione, ne è proibita la fabbricazione nei paesi occidentali.
Esauriamo il nostro viaggio in Francia, occupandoci di un altro prodotto tipicamente francese: lo champagne, vino spumante di grande rinomanza, prodotto con il metodo classico di rifermentazione in bottiglia (metodo champenois), dovuto a Dom Pérignon (1638/1715) dell’abbazia di Hautvillers. Si ottiene da uve (chi prova ad usarne di altra provenienza sarà fucilato sul posto. I francesi sono molto suscettibili. Considerare che sono definiti “italiani col nervoso”…) provenienti dalla regione che (indovinate!) si chiama come il vino in parola, situata a sud ovest delle Ardenne e delle Argonne; corrisponde all’incirca ai dipartimenti di Aube e Marne. Territorio pianeggiante e ondulato, aperto verso l’Ile de France.
Il prodotto si consuma abbastanza, nel giallo classico che si muove in trasferta, su territorio francese (Christie), ma non in quantità rilevante, tale da rendere indelebile un testo, od un personaggio, da ricordare qui. A volo d’uccello, ho rintracciato solo un romanzo, “Champagne per uno” (“Champagne for One”), di Rex Stout, che, nel titolo, fa esplicito riferimento a questo vino.
Champagne a fiumi, e cibarie prelibate, sono offerte al protagonista de “La panne”, piccolo racconto di quel genio della derisione indirizzata contro la borghesia, che è Friedrich Dürrenmatt. Narra di un uomo senza scrupoli, che si trova in Svizzera per depositare illegalmente dei fondi. Questi, a causa di un guasto all’auto, di sera si trova a chiedere asilo presso una lussuosa villa. E’ accolto molto cordialmente, e gli si offre, appunto, un’ottima cena innaffiata da champagne, al termine della quale l’individuo viene processato da quattro vecchietti. Convinto della sua colpevolezza, l’uomo finisce per suicidarsi.
Il testo è passato sul grande schermo (Italia 1972), ma il regista, Ettore Scola, anche sceneggiatore, con Sergio Amidei, ha cambiato il finale. I quattro vecchietti condannano a morte il losco soggetto. Il mattino dopo, sembra tutto uno scherzo, ma il destino è in agguato… Protagonista Alberto Sordi, a disagio nei panni alto-borghesi del protagonista. I quattro vecchietti sono Michel Simon, Charles Vanel, Claude Dauphin, Pierre Brasseur. Quanto dire, monumenti del cinema francese.
Consumatore non occasionale di champagne, è un personaggio che entra, come suol dirsi, di sguincio, in una disamina che riguardi il giallo/noir. E’ protagonista, noto all’universo e in altri siti, di una serie di romanzi spionistici, genere cugino del giallo/noir. Non è quindi peregrino fare accenno al soggetto in questione che, ormai lo hanno capito anche i muri, è James Bond che, per esempio, assume Dom Pérignon (toh, chi si rivede) insieme a benzedrina in polvere, in “Moonraker” (in italiano, “Il grande slam della morte”).
Una leggenda metropolitana vuole che l’autore, Ian Fleming, offrisse alla “Veuve Clicquot” di citare, in esclusiva, il marchio nei suoi romanzi, chiedendo un compenso, eventualmente in bottiglia. Incassò un rifiuto, e rivolse analoga proposta alla Taittinger, che accettò: da quel momento, il marchio divenne il prodotto consumato da 007, che in precedenza si era esibito con Veuve Clicquot (“Casino Royal”/”Casino Royale”)), Dom Pérignon (vedi sopra), Krug (“Servizio Segreto”/”On Her Majesty’s Secret Service”)), Pommery (“Agente 007 missione Goldfinger”/”Goldfinger”), per approdare, appunto, a Taittinger (ancora in “Servizio segreto”).
L’agente segreto più famoso del mondo (secondo uno slogan usato per lanciare alcuni suoi film, alla loro uscita; slogan frutto della mente sventata di un pubblicitario che se ne frega degli ossimori. Nel caso volesse scherzare, beh, meglio le barzellette di Berlusconi, che è tutto dire) è anche abituale consumatore di cocktail; in particolare del Martini, “agitato, non mescolato”, come abbiamo appreso fino alla noia. La precisazione è del tutto inutile: solo nei bar di quart’ordine, eventualmente “Sport” (frequentati in massima parte da sedicenti sportivi, incredibili, col fisico da giocatore di scacchi che si ritrovano, che iniziano a parlare di calcio la domenica sera e terminano di mattino della successiva. Non mancano però – e come potrebbero? – i tuttologi, che conoscono un sistema garantito per risolvere qualsiasi problema, dalla fame nel mondo al frullatore guasto), o “Lume” (presso il quale si accampano vecchietti arzuti e pettorilli, capaci di investigare e scovare reprobi in modo esemplare ma, alle lunghe, stucchevole. E’ impossibile che capiti a loro tiro un così gran numero di casi delittuosi nei quali ficcare il naso. Peggio della “Signora in giallo”, che porta una sfiga maledetta: ovunque vada, ci scappa il morto), il Martini viene mescolato. In terra americana, poi, la precisazione è superflua al quadrato. Nei bar più accorsati, anziché miscelare gin e Martini Dry, si riempie lo shaker di gin, si orienta il contenitore verso l’Italia, e si serve il cocktail che, di fatto, è gin puro (mescolato al Martini, la gradazione del prodotto da ingurgitare diminuisce): ma forse è la solita leggenda metropolitana.
E’ pur vero, tuttavia, che le opinioni circa le quantità dei due prodotti indicati, da miscelare, sono le più diverse (e trascuro le versioni – ne ho rintracciate otto – che prevedono l’uso di altri ingredienti, oltre a quelli sopra precisati): si va da un fifty-fifty, a 9 parti di gin e 1 di Martini Dry. Il cocktail very very very dry, consumato da Hemingway all’Harry’s Bar di Venezia consisteva in 15 parti di gin e 1 di Martini Dry. Lo scrittore lo chiamava Montgomery perché, sosteneva, il “glorioso” maresciallo inglese attaccava battaglia solo quando le sue forze, rispetto a quelle dell’avversario, erano nella proporzione di 15 a l. Erano uomini della milizia, volontari in camicia nera; non toglie che, ad El Alamein, davvero e come sta scritto sul sacrario, “Mancò la fortuna, non il coraggio”. Mancò anche quel porco di Rommel che ci lasciò soli a parargli il culo mentre scappava; pardon, ci lasciò soli a combattere. Punto e basta. Scelgano gli ascoltatori per il meglio…
Visto che mi sono soffermato sui cocktail, manifesto che sarebbe stato opportuno, per rendere completo il mio intervento, consultare almeno un buon numero di testi, alla ricerca di gialli e noir nei quali si consumano miscele del genere. E’ mancato il tempo; e molto ne sarebbe occorso. Da buon vecchino fegatoso, mi limito a citare un’osservazione al vetriolo di Raymond Chandler, da “La semplice arte del delitto” (“The Simple Art of Murder”): “…Insomma, il romanzo poliziesco classico non solo mostra di non aver imparato nulla, ma anche si rivela incapace di dimenticare nulla (…). Si ordinano più daiquiri e meno bicchieri di vecchio porto asprigno (…), ma quanto a mancanza di verità, siamo sempre lì”. Questo, paga i “tramaioli” ad oltranza, e gli ammiratori del giallo classico. Quanto ai cocktail, Chandler fa riferimento al daiquiri, ma giusto per fare un esempio: altri ne avrebbe potuti citare, visto che beveva. E’ inoltre chiaro, dalla perentorietà della sua affermazione, che “frequentava” la letteratura di genere, per informarsi intorno al vento che tirava. Era, in sostanza, un professionista che si teneva aggiornato. Questo non è possibile pretenderlo da me.
Per gli amatori del cocktail, preciso che il daiquiri ha una composizione essenziale quanto il Martini: consta di un quarto di succo di limone, un cucchiaio di zucchero in polvere, il resto è rhum Bacardi a volontà; tutto versato in uno shaker, con ghiaccio, ed agitato.
Agli immemori, ricordo di aver già precisato che, oltre al bourbon, Nick Charles e sua moglie Nora, nella serie cinematografica de”L’uomo ombra”, consumano una quantità industriale di cocktail. Ovviamente, non è dato sapere di quali “code di gallo” si tratta, ma osservando i bicchieri (non il colore del loro contenuto: i film sono in bianco e nero), direi che si va dal solito Martini all’Old Fashioned, che si forma sciogliendo un cucchiaino di zucchero in pochissima acqua a bollore; aggiungere tre spruzzi di angostura, un po’ di succo di arancio, ed una dose generosa di bourbon. Mescolare. Nei bar scicchettosi frequentati da miliardari come i coniugi Charles, si usa dare al cocktail un ultimo tocco con qualche goccia di maraschino, e servirlo guarnito da uno spicchio di arancia.
Almeno in un paio di film, dopo una sbronza notturna, i due consumano, il mattino e per abbattere i postumi, un “uovo all’ostrica”, che ha tutta l’aria di essere un Oyster Cocktail. Con quel nome, ho trovato almeno quattro ricette, una delle quali trascuro a priori in quanto priva di ostrica. La meno micidiale (ma lo è?) mi sembra la seguente: porre, in un bicchiere a bocca larga, 4 piccole ostriche fresche, 1 presa di sale, 1 spruzzo di limone, 2 spruzzi di Worcestersauce, 1 spruzzo di Ketchup, 1 cucchiaio di cognac, riempire il bicchiere con Oporto bianco fino. Servire senza mescolare. Non assumo responsabilità.
Suggerisco, semmai, ed in eventuale sostituzione, una ricetta dovuta a Hemingway. Riempire, con ghiaccio finemente tritato, un grande bicchiere da acqua; aggiungere quattro spruzzi di angostura, un succo di green lime (è una via di mezzo fra il cedro e il limone. Trovarlo…!), e strizzare la sua buccia sul composto. Riempire il bicchiere fino all’orlo di gin olandese. Tenere conto che l’ultimo particolare non è peregrino, si tratta di un distillato dal gusto aromatico e amaro che, pare, sia un eccellente medicinale e che guarisca soprattutto dalla lombaggine. Secondo Hemingway, toglie la morsa di ferro che attanaglia la testa, dopo una notte di bevute omeriche. Va osservato che se ne intendeva.
Per evitare danni al fegato, sarà bene abbandonare i superalcolici, e navigare verso altre sponde.
La ricordata leggenda, intorno all’adozione del Taittinger da parte di Ian Fleming, ci riporta di peso a trattare (come del resto minacciato), di Nero Wolfe e di birra, consumata rigorosamente fuori dei pasti. Per un gourmet del genere, trincare questo liquido, un pis aller (non è una parolaccia, significa “soluzione di ripiego”), secondo i francesi, inframmezzandolo ai manicaretti che gli prepara Fritz Brenner sarebbe delittuoso. Lo stesso Brenner, si incazzerebbe come un leone incazzato, per un affronto del genere; anche se è difficile, per i vecchini della mia età, immaginarlo in simile condizione. Avviene che nella nostra memoria, Fritz ha l’espressione bonaria di Pupo De Luca, utilizzato per quel ruolo nella mitica serie televisiva che vedeva Tino Buazzelli nei panni del pachidermico investigatore, e Paolo Ferrari, ex balilla Paolo, in quelli di Archie Goodwin (pensare che De Luca era un ottimo jazzista, e che deve la sua fama al cuoco Fritz… Similmente, Franco Cerri, grande chitarra jazz, è finito negli annali televisivi quale “uomo in ammollo”… Ha ragione Paolo Conte: “troppe cravatte sbagliate”, fra noi “ragazzi scimmia del jazz”. Ascoltare “Sotto le stelle del jazz”, poi piangere. E’ un pezzo di storia degli anni ’60, rovinati dal “mitico” ’68. Fosse stato almeno un 69… E chi ha capito la storia del “picnic sul luogo d’origine”, l’ha capita. Gli altri, se il tempo non lo nega… con quel che fa seguito). Intorno alla birra consumata dal detective montenegrino esiste, infatti, una leggenda. Fin dal primo romanzo, “La traccia del serpente”, che risale al 1934, apprendiamo che il Nostro beve birra. Per lungo tempo, non è precisato il marchio, mentre conoscerlo sarebbe stato caratterizzante: è ovvio che una birra italiana, una francese ed una tedesca (e non mi spingo oltre), non sono la stessa cosa.
Ad un certo punto, però, spunta l’etichetta Tuborg. Il sospetto che qualcuno abbia contattato la spettabile ditta bussando al box office, o che questa si sia fatta viva quale sponsor offrendo compensi, è travolgente. Rimane, limitatamente al primo caso, un piccolo mistero. Chi ha bussato, a casa Tuborg? Stout, l’editore americano… o l’editore italiano (tanto, vattelappesca se in America si viene a sapere della porcheriola)? Ove il mistero susciti qualche blando interesse, si potrebbero chiedere informazioni a Gianfranco Orsi, se ancora vivo: è più vecchio di me… Temo tuttavia che sia inutile. Orsi era rincoglionito da giovane, figurarsi adesso che, ne sono certo, ha superato gli ottanta. Assicuro che l’ipotesi della Mondadori intenta a bussar quattrini non è pura illazione. Qualcuno, oltre il sottoscritto, ne ha parlato. Per i motivi sopra espressi, i Gialli Mondadori erano in lento declino… Non erano più i tempi dorati in cui quella collana, e “Topolino”, servivano a far quadrare i conti della baracca, ed a pagare lauti diritti d’autore a Thomas Mann, attento ai medesimi almeno quanto Bertolt Brecht: comunista, ma pronto a non farsi fregare un soldo dalle compagnie teatrali (anche se costituite da dilettanti) che lo mettevano in scena; pur se radicate nell’amatissima DDR. Sarà un vizio tedesco, quello di essere attaccati al soldo… Pensare che da quelle parti hanno gassato sei milioni di ebrei, in quanto “strozzini”…
Lasciamoci dietro le spalle ogni bevanda alcolica, e tentiamo una scorribanda in quelle a gradazione zero.
Non che ci sia molto da discettare. Lasciando per seconda la ciliegina sulla torta, il primo testo che viene in mente è un romanzo di Grace Zaring Stone, certo ignoto ai compresenti ma l’esistenza del quale non è sfuggita al tuttologo Alberto Eva. Il titolo è “L’amaro tè del generale Yen” (“The Bitter Tea of the General Yen”). Narra la storia di una missionaria laica, Megan Davis, che usa fascino ed ascendente per convincere il generale Yen a salvare l’amante del medesimo. La missionaria finirà per scoprire che questa è una traditrice, e che, inoltre, il fascino del generale ha fatto breccia nel suo cuore, nonostante essa sia alla vigilia delle nozze. E’ il classico tema di attrazione/repulsione, qui virato ponendo in scena una donna americana orgogliosa e puritana, ed un militare cinese affascinante e altero. Dal romanzo è tratto un film, stesso titolo, USA 1933, regia di Frank Capra, con Barbara Stanwick e Nils Asther. A coloro che obiettano che non si tratta di un giallo vero e proprio, ricordo che il protagonista maschile della storia è cinese…
Naturalmente, anche i più duri di comprendonio avranno capito che il secondo soggetto, utile per coronare degnamente la breve ricognizione nell’ambito di consumo, nel giallo, di bevande non alcoliche, non può essere che Sarti Antonio, sergente, nato nel 1974 dalla penna del mio fraterno amico Loriano Macchiavelli. Il suo protagonista consuma caffé a go-go. Naturalmente, Loriano è persona molto per bene, e mai si abboccherebbe con una casa produttrice di caffé torrefatto, per propagandarne il marchio. Ci manca, quindi, di sapere dove il “sargente”, come si diceva un tempo, a Firenze, acquisti il suo beveraggio, e la qualità del medesimo. E’ pur vero che accetta anche ciò che ogni tanto qualcuno si degna di offrirgli… Mi sa che trangugi qualsiasi cosa sia vagamente imparentata con la sua bevanda favorita, fosse pure una “ciofeca”, come dicono a Napoli. Se ne frega, di “arabica” e di “robusta”, per non parlare di “liberica”, le tre specie consumate, in miscela per motivi anche di prezzo, dalle nostre parti. Ambotré appartenenti alla famiglia delle Rubinacee, la prima specie è la migliore e la più costereccia; ha varie sottospecie, le più conosciute sono Bourbon e Maragotype. E’ originaria dell’Abissinia, ma la prima a valorizzarla è stata l’Arabia; da qui il nome. La specie, che richiede molte e complesse cure, essendo facilmente soggetta a malattie, fornisce da sola i 4/5 dell’intero raccolto mondiale di caffé. La specie Robusta, di qualità inferiore rispetto a quella che precede, è molto meno cagionevole (da qui, il nome), ed oppone resistenza maggiore agli assalti dei parassiti dannosi ed agli sbalzi di temperatura. E’ raccolta particolarmente in Africa (Costa d’Avorio, Camerun, Madagascar, Angola, Uganda), ove si coltiva anche la specie Liberica, che ha avuto nei tempi trascorsi una certa diffusione, ma è caduta in disuso, ed interessa oggi solo quei produttori di caffé torrefatto, che si muovono nei Paesi di consumo, interessati a combattere la battaglia del prezzo al ribasso. Costa poco, vale poco; sembra lo slogan dell’Ikea. Serve per commercializzare la ciofeca di cui sopra. La Liberica o l’Ikea, fate voi per il meglio; o il peggio.
Tutto questo, serve chiaramente per “allungare il brodo” o, più nobilmente, fornire ai pignoli (mi considero loro Presidente onorario) indicazioni utili circa l’alimento trattato.
Immagino che non sia necessario spendere molte parole sul più longevo dei nostri investigatori di carta, consumatore della “profumata bevanda”, come scrive Sàlgari, che sarà Salgàri per voi, ma per i ragazzi degli anni ’40 la pronuncia giusta è la prima. Il rischio della piaggeria, del “santino”, è qui ad un passo, e mi fissa truce; ha lo sguardo di Loriano che, per primo, non gradirebbe.
Sia consentito terminare questo viaggio al termine dei liquidi commestibili, facendo alcune osservazioni, in particolare, su quel che si beve nel giallo italiano. Sembra pertinente, visto che ho appena parlato di un antesignano (termine proprio: Loriano è, soldato combattente in prima linea, davanti alle insegne) del giallo italiano. Per dimostrarmi up-to-date, mi riferisco a testi recenti.
Premetto che da tempo mi sono arreso davanti alla monumentale produzione nazionale di gialli e noir. In termini di tempo, e di valsente, sarebbe stato uno sperpero, seguire tutti i percorsi. Ora: è possibile che le mie letture siano state particolarmente prive di fortuna, ma ho trovato dilettanti di varie taglie, tali da far venire l’acquolina in bocca ai bounty killer; riferita alle taglie. A titolo di chiarimento sulla bieca professione, consultare “Per qualche dollaro in più” (Italia/Spagna/RFT, 1965, regia di Sergio Leone): servirà, per comprendere la battuta.
Mi sono anzitutto imbattuto in un autore di chiara fama, plurale dei corsi e ricorsi storici, ed incurante dei medesimi: la sua fama continua ad aumentare.
Il Nostro narra di un gruppo di “nostalgici” che, ad ogni ricorrenza del 28 ottobre, raggiunge Predappio, si riunisce intorno alla tomba del Chiorba, urla “Vincere” anche se ha perso, “Eia eia alalà” e bubbole varie, poi, dopo la lugubre cerimonia, si disperde nelle campagne vicine, per raggiungere osterie, trattorie e ristoranti della zona (dipende dalla disponibilità economica dei singoli figuri), per mangiare e bere lambrusco.
Il fatto è che Emilia e Romagna sono due regioni profondamente diverse, tenute insieme col mastice. Nemmeno il dialetto, è uguale. L’Emilia è rossa, la Romagna anarchica, repubblicana e anticlericale: ha conosciuto anche troppo il dominio della Chiesa. Soprattutto, in Romagna si beve il Sangiovese, e basta aver trascorso cinquanta lire di villeggiatura di massa a Rimini, per saperlo. Il lambrusco si beve in Emilia; soprattutto a Reggio, Modena, Parma: è un vinello poco gradoso, che vale la birra. Uno zio di mio padre ne beveva una bottiglia da ¾ a pasto. Tentò di bere la stessa quantità di Chianti; finì sotto la tavola, e ce ne volle, per tirarlo su: era piuttosto pesante. Una mia collaboratrice, nata a Rocca San Casciano, quando le ho chiesto se, dalle sue parti, si beve il lambrusco, mi ha chiesto se ero impazzito.
A seguire, trovo due begli spiriti che, inseriti in un’antologia, ci mostrano quanto l’ignoranza, sia pure in termini di liquidi potabili, sia una brutta bestia.
Il primo ci narra di un investigatore privato che risolve il caso di una sua Cliente, figlia di un miliardario, disposto a diseredarla se viene ad apprendere che fuma. In quanto figlia di tanto padre, non solo si suppone, ma si accerta che la dabbengiovine è abituata all’opulenza. Non potrebbe essere altrimenti: un tizio aveva tentato di estorcerle una grossa somma, in cambio di un filmino in cui la ragazza, oltre che ad amorosamente sollazzarsi, direbbe il Boccaccio, con una compagna di giochi, spipettava una sigaretta. E’ chiaro che non si può cavare il sangue dalle rape: la Cliente non era Veronica Lario, ma è intuibile che paparino non lesinava il valsente.
Questo il quadro. Al termine dell’indagine, per festeggiare il recupero del materiale scottante, il detective è invitato a cena dalla tipa. Dovrà portare qualcosa, per sdebitarsi… Cioccolatini, ad una quasi miliardaria? Improponibile. Deciso: champagne. Andrebbe anche bene, solo che lo sprovveduto si munisce di una bottiglia di “Veuve Clicquot”, e quella dona, all’ospite, che non manca di sdilinquirsi sostenendo essere quello, il suo champagne preferito. E’ talmente contenta che finisce a letto col nostro eroe, rivelandosi felicemente da bosco e da riviera; o bisex, secondo cultura degli ascoltatori.
Mi è avvenuto di conoscere un numero limitato di miliardari, ma qualcuno sotto mano, per motivi professionali, mi è capitato; in aggiunta a bancari, travestiti, calciatori, prostitute.
Un paio di cose, sono certe. L’autore del racconto non ha mai, semplicemente visto, un miliardario. Quelli anche, ed anzi, specialmente, se di recente conio, sono molto suscettibili. Per esempio, più che sdilinquirsi, si offendono, se presentate loro, quale omaggio, un prodotto che si vende anche alla Coop. Sarebbe d’altronde imbecille, comprarlo in una enoteca e pagarlo una cifra, quando la grande distribuzione te lo tira dietro per un paio di decine di euro. Era una marca di champagne frequentata da James Bond, abbiamo visto, ma Fleming scriveva negli anni ‘50/60; la società affluente, e rifluente, ha portato il prodotto nelle cooperative rosse. Con quello, le miliardarie vere, non di carta, al massimo ci si fanno il bidet, o lavano il barboncino. Ci si presenta con Krug: non millesimato, 170 euro a bòccia; l’altro, 250. Enoteca Niccolai docet. Risultato dell’ignoranza: abbiamo un detective “tamarro”, direbbero a Roma, una bottiglia omaggio che vale quanto un cartone di Coca Cola, ed una miliardaria prossima ventura falsa come l’ottone.
Quanto alla lesbica bisex, il Nostro frequenta poco anche il cinema noir americano anni ’40: una dark lady che si rispetti, interpretata da Veronica Lake (Lake vale Lago. Lario è il lago che “bagna” Como. Veronica Lario deve essere un succedaneo. Scopa! Ha sposato un succedaneo di uomo politico), Lizabeth Scott, Audrey Totter, in quei panni, si sarebbe negata. Non esistono più, le cattive bambine di una volta; se è per quello, nemmeno i buoni scrittori, dei tempi andati. S’informavano sulle più distinte marche di prodotti di lusso; gli abiti che descrivevano erano strappati di peso da “Vogue”.
Il secondo, invece… ci ricasca. Abbiamo uno spiantato, del quale si invaghisce una miliardaria più vecchia di lui, e che è sempre alle prese con chirurghi estetici, presso i quali spende cifre colossali, mentre tiene il maritino rigorosamente a stecchetto. Buona scusa, fornita al medesimo, per andare a pascolare su prati più verdi, si sostiene. In realtà, manca il rapporto causa/effetto. Una moglie che non sgancia un bottone, non sta scritto che per forza deve essere cornificata. La vendetta è causa debole. Semplicemente, il tipo credeva di poter vivere un’esistenza dorata, si è trovato con una mancia buona per sopravvivere, e passi, ma innanzitutto una moglie vecchia.
Ovvio che, zompa di qua, zompa di là, il brav’uomo finisce per incontrare il grande amore. Propone alla moglie il divorzio, affermando che non vuole denaro, ma solo la sua libertà. Per quanto riguarda il primo, sommessamente osservo che è una rinuncia a buon mercato: non si era detto che fino a quel punto si era accontentato di una mancia?
La moglie risponde che non se ne parla: in casa sua, tutti sono cattolici praticanti, divorzio nisba. La vecchia deve essere rincoglionita. Temo che l’esimio autore non sia da meno. In Italia si può divorziare anche se l’altro coniuge si oppone. Costa tempo e denaro, ma il divorzio si ottiene. D’altronde, cosa è tutta questa premura di sciogliere il legame? Il fedifrago può aspettare. Pianta la moglie, e va a convivere con la nuova fiamma: ormai, chi si scandalizza più per una situazione del genere, quando viviamo in un’epoca in cui sposarsi non va nemmeno più di moda?
Incurante di tutto quanto precede (se ne tenesse conto, il suo compitino andrebbe a puttane; pardon, ad escort), l’autore fa organizzare, all’astuto (del piffero) personaggio, prodotto dal suo ingegno, un omicidio “perfetto”. Lo trasloca, per un week end ufficialmente di riconciliazione, insieme alla moglie, in uno chalet di montagna. Quivi, il bel tomo riduce la coniuge ubriaca come un tegolo (la donna non regge l’alcol) e, quando la medesima decide di fumare una sigaretta… scoppia il finimondo. La “stecca” che la vecchiarda riteneva di aver portato con sé, è irreperibile. Indovinate chi l’ha nascosta? Incazzata come una scimmia, la donna si mette al volante (il marito si rifiuta di farlo, sostenendo di aver bevuto troppo) dell’auto con la quale il duo ha raggiunto lo chalet, e scende in paese, decisa a svegliare il tabaccaio pur di avere le sue adorate sigarette, senza le quali non può vivere (lealmente: questo, è credibile). Causa ebbrezza, finisce in un canalone, rendendo il marito ricco e felice; anche un po’ assassino, ma non si può avere tutto, dalla vita.
Tutto bene? Certo. Il nodo è: cosa sta scritto, sull’etichetta delle numerose bottiglie scolate dalla coppia formata da una miliardaria e da un povero cristo parecchio parvenu? Un aiutino: i due hanno pasteggiato, con il contenuto di quelle bottiglie, e siccome non sono John Huston ed Humphrey Bogart, non può trattarsi di whiskey. Avete detto “Veuve Clicquot”? Risposta esatta, vi spetta una bambolina, quale premio. Siamo ancora all’autore sprovveduto, piccolo borghese, la cui fantasia in fatto di champagne non va di là dalla “Vedova” da Coop, e ne attribuisce il consumo ai miliardari che… non mi ripeto. Provarsi solo, a mostrare, un prodotto del genere ai miliardari russi che d’estate piombano al Forte dei Marmi, capaci di offrire 5.000 euro ad una coppia, purché lasci libero un tavolo in un notissimo ristorante del luogo, che registrava il “tutto esaurito”. Per completezza dell’informazione, va precisato che il reparto maschile della coppia replicò: “Gliene do quindicimila se non mi rompe i coglioni”. Era un fiorentino. Di quelli che bevono Krug.
Nessun autore da salvare, in Italia? Oddio, ci sarebbe un pazzoide che ha dimostrato, in un suo romanzo, gran competenza in fatto di whiskey; in mancanza, di whisky. Si tratta però di un essere scorbutico, presuntuoso, supponente, collerico, litigioso, ipercritico, insopportabile e fiorentino. Preferisco evitare di nominarlo: gli darei una sia pure piccola soddisfazione, che assolutamente non merita. E’ un tipo al quale l’insuccesso ha dato alla testa, e quindi è bene lasciarlo cuocere nel suo brodo. Non è solo la mia personale opinione: rimane scordialmente antipatico a quasi tutti gli autori toscani, che disertano le presentazioni dei sedicenti capolavori prodotti da questa sorta di “Gadda dei poveri”, e solo raramente gli chiedono di partecipare a raccolte collettive di racconti, in verità più centoni che antologie.
Preferisco chiudere in bellezza. L’antologia “Un Natale in giallo”, Sellerio 2011, contiene un delizioso racconto, “Come fu che cambiai marca di whisky”, scritto da Santo Piazzese; un autore che non conoscevo, ma che ho imparato ad apprezzare, in quanto scrive molto bene, è spiritoso ma privo di quel retrogusto di amarezza, malinconia, che spesso contraddistingue gli autori siciliani (da Sciascia a Camilleri). Per certi versi, la sua scrittura si avvicina molto alla mia, anche se, è naturale, io sono più bravo. Vale il detto: chi si assomiglia si piglia. Vedrò di approfondire questa conoscenza inaspettata. Forse ha ragione Vinicius de Moraes, “la vita, amico, è l’arte dell’incontro”.
Mi dicono che Piazzese è, anche personalmente, simpaticissimo e spiritoso. In questo, diverge da me. So bene di essere greve. Rimango però convinto che aveva ragione il mio amico Enzo Moretti: è meglio perdere un amico che una battuta, perché le battute buone non sempre vengono in mente, e nell’istante opportuno.
Concludo in poesia:
Qui ciascun sugli allori riposa,
io perfino, che allori non ho:
ogni fiore si sente una rosa,
ogni fiume si sente un po’ Po.
(Ernesto Ragazzoni – 1870/1920
Morto consumato dalla cirrosi.
Buon autore, per concludere
questo intervento
ad alta gradazione alcolica).