IL REALISMO NEL GIALLO ITALIANO
ANNI ‘60/70
Intervento di Alberto Eva
Nel film “L’avventura”, Italia/Francia 1960, regia di Michelangelo Antonioni, “Claudia” (l’attrice Monica Vitti) afferma: “Ho avuto un’infanzia giudiziosa (…) perché senza quattrini”.
Era la condizione dei più, e non solo degli infanti, nel periodo intercorso fra la fine della guerra e tutti gli anni ’50. Lavorare. Poco denaro. “Due soldi di speranza”, recitava il titolo di un bel film di Renato Castellani (Italia 1951).
Non intendo sostenere che era un letto di rose. Delitti, avvenivano.
Alla fine degli anni ’40 fu processato, a Firenze, per motivi di ordine pubblico (il dibattimento era iniziato a Pisa, essendosi il delitto consumato in quella provincia), Ugo Ancillotti, reo, secondo l’accusa, di aver ucciso la fidanzata (è morto alla fine di marzo2013, a90 anni), costruendosi artatamente un alibi. Fu assolto con formula dubitativa, un mostro giuridico fortunatamente tolto, negli anni successivi, dal codice penale. Uno degli avvocati presenti al processo si chiamava Gelati; pertanto, fu semplice per i fiorentini inventarsi la battuta: “Avvocato Gelati, Crema e Cioccolata”.
Nel “triangolo rosso” dell’Emilia, ci fu un lungo regolamento di conti; entro nel merito giusto per il tempo di affermare che Giampaolo Pansa non ha capito un piffero. E’, e rimane, “il Pansa che non pensa”, secondo azzeccata affermazione di Loriano Macchiavelli. La disamina delle circostanze in cui certi fatti avvennero, richiederebbe un’ora; e non l’abbiamo. Mi limito a certificare che fino a tutti gli anni ’60, nei pagliai della Bassa erano nascosti mitra efficientissimi. Qualcuno aspettava la seconda ondata; i più ragionevoli, affermavano: “Mai più, senza fucile”.
Per converso, la banda Casaroli era espressione della X Mas, ridottasi a commettere reati comuni quali le rapine, pur ammantandosi dietro il superomismo del “vivere pericolosamente”.
A Milano, Caterina (Rina) Fort sterminò, a sprangate, consorte e figli dell’amante. Il “mostro di Via San Gregorio” fu dichiarato incapace di intendere e di volere, terminò la sua vita in manicomio criminale.
A Cortona, un povero parroco sprovveduto, Don Amilcare Caloni, stabilì una relazione con la giovane perpetua, Celeste. Questa rimase incinta. Don Caloni cercò di farla abortire usando l’apiolo verde (nient’altro che il prezzemolo), ma esagerò con la dose, e la ragazza morì.
Per i fiorentini, meglio perdere un amico che una battuta…. Alla prima neve che imbiancò la Consuma, all’inizio del passo apparve il cartello: “Per Arezzo, catene – Per Cortona, mutande di bandone”.
Tutto quanto precede ci porta a considerare che la virtù italiana susseguente al conflitto armato, mal si prestava ad immaginare gialli ambientati dalle nostre parti.
Non molto meglio va con le classi alte, luogo deputato per delitti attinenti al giallo classico, tipo Christie, Van Dine, Dickson Carr. La “contessa” (fra virgolette perché la Repubblica ha abolito i titoli nobiliari) Pia Bellentani sparò all’amante nel corso di una festa. Finì al manicomio criminale di Aversa. Fu arrestata con la pistola fumante in mano: impossibile imbastirci un giallo.
Controverso è il caso Fenaroli, che attiene alla classe medio-alta, affluente: ovvero, è certo che Maria Martirano fu uccisa, mandante, il marito; che l’omicida sia stato Raoul Ghiani (che si è fatto 25 anni di carcere), è da vedersi. Lo conosco personalmente, abita dalle mie parti; continua a negare. E’ d’altro canto noto che in galera sono tutti innocenti…
E’ ormai noto che il “delitto” (fra parecchie virgolette) Wilma Montesi fu montato ad arte per impedire ad Attilio Piccioni di assumere la carica di Segretario Generale della Democrazia Cristiana. Un gioco di potere. Avrebbe potuto interessare Sciascia, ai suoi bei dì. Il mio interesse per la politica è rilevante, ma esaminando il caso Montesi occorrerebbe ricorrere ad illazioni, a sintesi che somigliano molto al corto circuito. Specialità di Sciascia; ma questi si chiamano “lavori a tesi”, costruiti a priori per dimostrare qualcosa. Il risultato, è una falsificazione.
Sul fronte della malavita organizzata… Certo, la mafia. Il prefetto di ferro Renato Mori, spedito in Sicilia da Mussolini, si limitò a far indossare la camicia nera a tutti gli affiliati, e si raccomandò che facessero pure i loro interessi, ma senza dar troppo nell’occhio. La prova provata di tutto questo sta nel fatto che decisivo, per lo sbarco in Sicilia degli Americani, fu l’aiuto della mafia che, quindi, continuava ad esistere. I contatti, s’incaricò di tenerli Lucky Luciano. Era in prigione in America, lo liberarono purché non si facesse vedere più oltreoceano, e lo spedirono in Italia per prendere contatti. Naturalmente, nel periodo che sto esaminando l’organizzazione, non era nemmeno parente, di quella dei nostri giorni, intorno alla quale girano vortici di miliardi. La camorra, a Napoli; pizzo, sigarette di contrabbando, i prezzi imposti ai mercati generali (Vedi “La sfida”, Italia/Spagna 1958, esordio alla regia di Francesco Rosi. Film basato su fatti realmente accaduti)…
La questione è che mafia e camorra non sono argomenti adatti per un giallo, od anche solo un noir, genere, quest’ultimo, affrontato con qualche successo dal più “americano” fra i nostri registi, Pietro Germi. Suoi sono “La città si difende” (Italia 1951), storia di una rapina dell’incasso in uno stadio, e “In nome della legge”, che ha perfino notazioni western: il pretore, a cavallo, insieme ai carabinieri. Quest’ultimo film fu tratto dal romanzo “Piccola pretura”, di Giuseppe Guido Lo Schiavo, ma si fatica, a considerare quel testo un noir; ombra che è invece presente nel film, impressa dal regista.
Il senso di tutto questo, ad un esame puramente epidermico, poco approfondito, sta nell’accertato elemento di fatto che quella italiana era ancora, sostanzialmente, una società agro-pastorale, che non consentiva di poterla immaginare quale “terreno” in cui impiantare gialli realistici: all’apparenza, mancavano situazioni reali che permettessero di imbastire un intreccio, un plot credibile.
Sotto questo profilo, assai poco articolato, appare pesante, la forzatura operata da Germi, di girare “Un maledetto imbroglio” (siamo già al 1959), giallo tratto da “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”, di Gadda, trasferendo l’azione ai nostri giorni, mentre assai più adatto era il clima del ventennio, in cui l’Autore lo aveva calato. Il film piacque a Gadda, per quanto dotato di un finale non previsto dal romanzo. Non è da ritenere che la forzatura trovasse origine nelle convinzioni politiche di Germi; ovvero che ritenesse non esserci, fra la Roma fascista e quella democristiana, gran differenza: è noto che il regista si professava “socialdemocratico”, giusto per evitarsi di affermare che era abbastanza di destra. La convinzione di Germi era, immagino, che il cosiddetto “generone” romano non cambia mai, ed è parzialmente vero. Non toglie che l’ambientazione gaddiana è molto più ficcante in quanto critica proprio a livello ideologico.
Sono perfino disposto a convenire che lo iato esistente fra la realtà italiana dell’epoca, e quella di altri Paesi, si toccasse con mano.
Un esempio fra i tanti. Per una volta, grazie al cielo, trascuriamo la produzione letteraria (e cinematografica) americana. Limitiamoci a varcare le Alpi. All’inizio degli anni ’50, Gallimard lancia la Série Noire, e pubblica storie di ordinaria malavita. Punta di diamante, Auguste Le Breton, curioso autore che scriveva in argot, quindi intraducibile in italiano (ci provò Mondadori, con risultati imbarazzanti).
“Al volo” (Francia 1954), il cinema s’impadronisce di “Touchez pas au grisbi” di Albert Simonin, regia di Jacques Becker, che gira uno dei migliori film francesi di sempre.
“A ruota”, Jules Dassin in fuga dall’America per non finire nelle grinfie del senatore McCarthy, dirige “Du Rififi chez les Hommes” (Francia 1955), dall’omonimo testo di Le Breton.
Ambedue i film hanno, quale argomento, una rapina.
…da far impallidire il volonteroso Germi, della ricordata “La città si difende”…
Certo, la qualità indiscussa dei registi… Rimane che storie come quelle raccontate nei due romanzi, e nei film, sarebbero state poco credibili, se vogliamo parlare seriamente di realismo, ambientate in una minima Italia intenta a lavorare, a cercare di procurarsi un piccolo benessere.
Cosa ne otteniamo?
A ben guardare, solo il dato, pur essenziale, che i nostri malavitosi erano, all’epoca, dei rubagalline, nemmeno lontanamente da paragonare a quelli d’Oltralpe. In questo quadro, esprimo comprensione verso l’Autore: a meno che non sia un pennivendolo, lavorerà di fantasia, ma non al punto di falsificare la realtà, inventandosene una di sana pianta, parallela.
Una realtà italiana che si tocca con mano, con un film emblematico, ed ha perfino un volto preciso: quello di Vittorio Gassman, sorprendentemente trasformato, appunto, in rubagalline, ne “I soliti ignoti”, 1958, regia di Mario Monicelli. Ottimo film, ritratto puntuale di quei tempi. Nuoce al realismo la presenza di una straripante quantità di battute comico/spiritose: così a raffica nella vita reale è statisticamente impossibile che vengano fuori. Si capisce lontano un miglio che gli sceneggiatori le hanno pensate a tavolino, per captare la benevolenza del pubblico ed ottenere, col passaparola, il successo del film. Ma è uno dei vizi eterni della commedia all’italiana.
Tutto vero. Argomenti incontrovertibili.
Solo che…
… ho cercato di anticiparlo, fra le righe, insinuando sospetti… Mi si concederà che ho qualche utile esperienza, nella stesura di robuste trame gialle…Gli esiti complessivi delle mie opere saranno forse discutibili, ma l’ordito è a prova di bomba…
La visione fin qui offerta, è superficiale, dilettantesca; manca di profondità.
D’accordo: la malavita italiana degli anni ’50 è cialtrona. Ce ne faremo una ragione, ed eviteremo accuratamente di scrivere gialli, o meglio, noir, che raccontino storie con trame ed ambientazioni che ci costringerebbero a far agire degli spaventapasseri, a meno di non falsificare la realtà.
Tutti noi sappiamo però che il giallo, in ogni possibile declinazione, è ben altra cosa. La struttura sociale di riferimento, nella quale si muove, si svolge, va dalla media borghesia per arrivare, volendo esagerare e mi riesce benissimo, alle “teste coronate”.
Italia costituita quale società agro-pastorale quanto si vuole, ma una sia pur ristretta, media ed alta borghesia, che va dal buon impiegato, al commerciante, all’industriale passando per il professionista, esisteva. E non è in ambienti del genere che si svolge il 90% dei gialli? Da Conan Doyle a Mickey Spillane, passando per Christie e Chandler, mai che all’orizzonte faccia capolino un proletario: non si dice un agro-coltore o un pastore-ale, ma nemmeno un metalmeccanico.
Il difetto sta negli Autori, ovvero nella loro assenza.
Ad una attenta osservazione, non dovrebbe sfuggire come, prescindendo dal fatto che già esistono, certe trame di Autori anglosassoni potrebbero benissimo essere credibili ambientate in Italia.
A prima vista, viene da sogghignare… Però qualcuno mi deve spiegare perché l’”Assassinio sull’Orient Express” non potrebbe svolgersi nella prima classe di un treno partito da Reggio Calabria in direzione di Milano, con fermata causa ghiaccio e neve dalle parti di Bologna.
Per “Il mistero del falco” ci occorre una città dotata di un grande porto. Genova, ma forse anche Livorno. Il “falcone” in sé, è maltese; i suoi passaggi di mano (del vero, come del falso) sono avvenuti in Europa. Immagino che i “carruggi” genovesi, possano esprimere i borderline che danno la caccia alla statuetta. Ove necessario, si fanno venire da Marsiglia, è a due passi ed è ben fornita. E’ sede di reclutamento di volontari per la Legione Straniera; quanto dire, certi ceffi… una dark Lady si trova: negli anni ’50, ne ho conosciute. Gli investigatori privati, in Italia, sono pochi e non hanno credito, d’accordo… E’ tuttavia fondamentale non ritenere che i bambini li porti la cicogna. E’ lo stesso Chandler a convenire, a proposito di Philip Marlowe: “Nella vita reale un tipo come lui non farebbe il detective più di quanto potrebbe fare il rettore di università. I nostri investigatori privati nella vita reale sono o ex poliziotti con molta esperienza pratica e il cervello di una tartaruga o miserabili piccoli mercenari sempre affannati a correre in giro cercando di scoprire la pista di qualcuno…” (mi scuso per la punteggiatura disinvolta. Cito letteralmente, come dovrebbe sempre farsi, da una prefazione di Orestino Del Buono). Ne ricavo che i detective espressi dal Paese delle Grandi Opportunità, di fatto valgono i nostri. Otteniamo: accertato che Sam Spade (quanto Marlowe, coinvolto in “storie più grandi di lui”) è improbabile in America, ritenere che questo non possa valere anche un detective italiano è snobismo da 41 bis.
Alla fine: avrà pure un significato, se nel 1943, Luchino Visconti esordisce nel mondo del cinema dirigendo film “Ossessione”, che trasferisce, nella Bassa Padana, “Il postino suona sempre due volte”, un noir di James Cain. Nessuno se n’è accorto, all’epoca, in quanto, per motivi di diritti d’autore, nei titoli di testa del film il romanzo non è citato quale scaturigine della sceneggiatura, e questo ha tolto ai soliti sapientoni la possibilità di fare i furbi operando imbecilli confronti. Resta tuttavia che se qualcuno avesse ritenuto la storia, in quanto ambientata in Italia, improbabile, qualche reazione ci sarebbe stata.
La prova provata di quanto vado sostenendo, a proposito di mancanza di fantasia, sta nel già citato “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi. E’ sicuro come l’oro quanto ho affermato, ovvero che, ricondotta al ventennio, esattamente al 1927, secondo il testo di Gadda, la storia sarebbe stata più ficcante. Non toglie che, in ambiente borghese anni ’50, il dipanarsi della narrazione non subisce alcuna scossa. Ora: se questa funziona nel film di Germi, perché mai non dovrebbe funzionare in altra, locata in ambiente analogo?
E’ chiaro che l’assenza di Autori di qualche peso attiene ad un evidente “ritardo” culturale.
Sembra una tautologia: agro-pastorale era definibile la realtà italiana; gli indigeni ne erano puntuale espressione, nel loro complesso, Autori compresi.
Mi concedo una parentesi colta, pur conscio che vado a ricordare un testo che abbiamo letto in sei (è già qualcosa: l’”Ulisse” di Joyce, nella sua strabocchevole interezza, è conosciuto in Italia da quattro persone; incluso il sottoscritto). In “L’uomo senza qualità”, Robert Musil racconta, lucido e straziante, un essere in cui, a dispetto del titolo, “ci sono le qualità, però manca l’uomo”, in quanto espressione della Finis Austriae, opulenta e ferale così ben visivamente verificabile nell’opera decadente di Klimt, udibile nella musica di Mahler. Al contrario, nell’Italia del dopoguerra, mancano qualità e, contemporaneamente, uomini. “Poveri ex infanti onesti” dediti a procacciarsi il pane. Il crollo dell’Impero Austro Ungarico ha prodotto Hitler; l’Italia in macerie, “Ladri di biciclette”…
Il giallo logico deduttivo, così come l’hard boiled, sono frutto di una società “evoluta”.
Non sono molto certo che il rammentato ritardo culturale sia da deprecare, e quanto la società anglosassone, che esprimeva il giallo nelle sue varie forme, fosse evoluta. E’ tuttavia fatto secondario, la considerazione è moralistica. Tutto si annulla di fronte alla certezza che le società sono in perenne mutazione.
Una mutazione molto lenta, in Italia, Paese tetragono al cambiamento. Una lentezza, tuttavia, anche probabile frutto di molte “infanzie giudiziose perché senza quattrini” riunite assieme. Nel film “Gli innamorati”, Italia 1955, diretto dal pistoiese Mauro Bolognini, opera che si svolge nel popolare quartiere del Parione, a Roma, un personaggio, Adriana (Antonella Lualdi), rivolgendosi ad un corteggiatore respinto, che abita in altro quartiere, osserva: “I nostri ragazzi sono tutti qua. E così se una deve pensare ad un marito, lo pensa tra uno di questi. Non sappiamo ancora chi è, ma sarà uno di loro”.
Ne traggo che nessun Autore dell’epoca si è fatto venire in mente una storia gialla di gran peso, perché ogni Autore è espressione della società in cui è immerso.
Mettiamola così. Qualche tempo fa, allo Stadio Olimpico di Roma, in occasione di non so quale partita, i romanisti esposero un cartello che, a memoria, recitava: “Noi eravamo già froci quando voi abitavate ancora nelle caverne”. L’Italia anni ’50 era cavernicola; gli inglesi, gli americani, già froci. Tutto qui. E buon pro faccia a tutti.
Giungono gli anni ’60. E’ alle porte una prima mutazione antropologica degli italiani. La seconda, catastrofica, avverrà all’inizio degli anni ’80.
Il boom economico, la Cinquecento, la Seicento, la villeggiatura, le gite domenicali con mezzi propri, non più l’impaccio degli orari, per i treni, i pullman…
L’infanzia giudiziosa, perché senza quattrini, di Monica Vitti, pur constatata in un film che è, del 1960, ma riferita al primo dopoguerra visto che qui l’attrice è una giovane adulta, diviene uno sbiadito ricordo. Il benessere, la società affluente, i dischi a 45 giri; i cantautori, le canzoni un po’ scemotte… Rita Pavone e Gianni Morandi debuttarono in televisione nei primi giorni di settembre 1962. “Il mondo deve andare avanti”: si perdono le infanzie giudiziose, ma abbiamo lavatrici che hanno più programmi della TV. Sarà sviluppo, o progresso? Per il momento, solo il secondo: un minimo di comfort non si nega a nessuno. Il peggio deve ancora venire.
Paradigmatico è, ancora una volta, un film, nel quale riappare il volto di Vittorio Gassman: “Il sorpasso” Italia 1962, Dino Risi alla regia. Non è un capolavoro; è tuttavia una pietra miliare sociologica, in quanto segnala che il nostro Paese ha già imboccato una fase essenziale della sua storia: la mutazione antropologica di cui si ragionava sopra, è qui indicata con estrema lucidità, e col noto cinismo, da Risi. Gettati i panni del rubagalline, l’attore si trasforma in un cialtrone strafottente, maestro nell’arte di arrangiarsi. Storia on the road, a bordo di “una Aurelia decappottabile e supercompressa”, viaggio “nel ventre” di un’Italia ferragostana, sul percorso Roma/Castiglioncello. Siamo nel pieno del boom economico. Il finale del film sarà tragico. Fu giudicato moralistico. Si è rivelato preveggente. Il titolo è, poi, allusivo, non vale tanto nel senso di superare l’auto che precede, quanto di un modo di vita che stava attecchendo, di sorpassare gli altri con tutti i mezzi possibili, vivere di prepotenza, cercare scorciatoie, per procurarsi la “roba” dell’eterno Mastro Don Gesualdo. Il consumismo è alle porte. E’ l’eterna maledizione che grava sui poveri travolti da improvviso benessere. Pure a questo film, nuoce al realismo la presenza di una vagonata di battute memorabili, “troppo belle per essere vere”; tanto che occorre astrarsi, in buona parte, da quelle, per raccogliere il senso dell’opera. Ai nostri giorni, il valore splende nitido solo contestualizzandola.
Il boom risveglia appetiti anche più truci.
I ragazzotti del Tufello a Roma, quelli dei palazzoni dislocati nell’estrema periferia, a Rogoredo, o delle case di ringhiera a Milano, raggiungono il centro città, e si rifanno gli occhi con le vetrine sbrelluccicanti, le belle signore ben vestite, e profumate. Si rivela loro una società che considerano opulenta se relazionata alle proprie condizioni; dalla quale si sentono esclusi. Usare l’ascensore sociale, metodo troppo lento: qui c’è da soddisfare un’invidia; tutto e subito, finché si è giovani.
Piccoli rapinatori: Luciano Lutring, il solista del mitra; Renato Vallanzasca. Tentativo di mettere le mani sulla città: il clan di Francis (Francesco) Turatello.
Colpi grossi: sei uomini, a Milano, al comando Luciano De Maria, in Via Osoppo bloccano un furgone portavalori e lo svuotano. Saranno catturati. Uno, era fiorentino: Lillo Buratti, rovinato dalla legge Merlin. Sua madre gestiva due case di tolleranza, e lo manteneva di tutto punto, nullafacente. Dopo la storica data del 20 settembre 1958, per un po’ visse di quel che gli rimaneva; poi di espedienti. Il salto non poteva che essere in direzione della rapina; di classe, cospicua, clamorosa. Un tipo così bello, alto, affascinante, sicuro di sé… Lo so in quanto l’ho conosciuto; prima che si facesse rapinatore.
Finalmente, anche gli italiani potevano permettersi una malavita degna di questo nome. Naturalmente, solo nelle metropoli: Roma. Milano; parzialmente Torino, città sabauda e schiva.
E finalmente, si può cominciare a ragionare in termini di giallo e noir italiani, realistici in quanto radicati, sia pure ancora in modo strisciante, privo di spessore, su territorio genericamente italiano; luoghi “amici” nei quali agiscono personaggi precisi, che attengono alla realtà del momento.
Sarà davvero necessario, precisare che non intendo sostenere l’esistenza di un completo deserto, nel campo del giallo, prima del boom economico?
E’ chiaro che così non è. Solo che D’Errico (ho ricordi di trasmissioni radiofoniche tratte da suoi testi, nei primi anni ’50, allo spirare della mia breve infanzia), Ciabattini ed altri sono ancora troppo legati a stilemi nemmeno americani quanto anglo-francesi, l’Italia è poco più che un fondale, non è agita. Inutile come un’oliva in un Martini. Una timida, lieta novità, si registra a metà degli anni ‘50, con Franco Enna, letteralmente inventato (anche nel cognome, che all’anagrafe è registrato quale Cannarozzo) da Mondadori che, nei Gialli, pubblica una rapida sequenza di cinque titoli, contraddistinti dai numeri 327, 354, 383, 394, 416 nella serie del periodico. Segnalo, di particolare qualità, “Tempo di massacro”, uscito nel 1955. Dopo questa raffica, non ci sono strascichi, pur se l’Autore continuerà a pubblicare con vari editori e per lungo tempo, e sempre ancorato al divenire del nostro Paese. Ne “L’Occhio lungo”, Rusconi 1979, ci narra una storia di spalloni e traffici valutari fra Italia e Svizzera, molto in sintonia con l’epoca: circolava più di qualcuno che aveva creduto seriamente alle BR capaci di portare gli italiani alla rivoluzione…
Sembra di scorgere che, appunto a metà degli anni ’50, la redazione dei Gialli Mondadori fu scossa da un “attimo di follia” sperimentatrice. Nello stesso periodo, sono pubblicati tre gialli italiani, autore Sergio Donati, numeri 337, 373, 412 della collezione. Si noterà che l’uscita dei gialli di Donati s’intreccia con quella di Enna (per completezza, aggiungo che con i numeri 379 e 403, sono pubblicati due romanzi di Giuseppe Ciabattini. Segnala un tentativo di percorrere una “via italiana” del giallo). Di questo Autore segnalo, in particolare, “Il sepolcro di carta”. Ambientato in un’Italia credibile, siamo di fronte ad un buon romanzo. La mia non è semplice opinione: il testo sarà ripubblicato nel 1963, nei “Capolavori dei Gialli Mondadori”.
La follia sperimentatrice ha vita breve. Per salutare l’uscita di un titolo di Autore italiano, occorrerà aspettare il 1977; pubblicazione dovuta solo al fatto che il titolo aveva vinto Premio Cattolica del 1976 (Secondo Signoroni, “Petrosino e i baffi a manubrio”). Immagino che la brusca interruzione sia dovuta al fatto che le vendite devono essere state inferiori alla norma, e sul punto la logica di Alberto Tedeschi era stringente: se calano le vendite, cambiare strada; ma è pur vero che la mancata innovazione genera asfissia. E’ nei fatti: i Gialli Mondadori si sono fatti mangiare il bischero dal merlo. Nel caso di Donati, temo abbia, in parte, inciso la defezione dell’Autore: a quanto mi risulta, questi sposò una ricca signora svizzera, ed è vissuto delle sue (della signora) rendite, ogni tanto collaborando a sceneggiature, per tenersi in forma. Sicuramente, con Sergio Leone e Luciano Vincenzoni, ha scritto il film “Giù la testa”, Italia 1971, regia di Sergio Leone.
Ci stiamo muovendo, nei romanzi dei due Autori ricordati, nel territorio di quel genere di testi che, oltre a rispettare lo schema ineluttabile: morto, indagine, individuazione del colpevole, hanno titolo al riconoscimento di ambientazione pienamente italiana, sono realistici e credibili in quanto non s’inventano situazioni scombiccherate da “giallo-enigma”, un giochetto che da tempo…ha fatto il suo tempo. Un genere che, a tutt’oggi, è in voga e ricava ottimo successo, nei casi più meritevoli… ma non voglio invadere territori altrui.
Preme solo registrare, nell’ambito di una siffatta concezione del giallo/noir, per il periodo che sto esaminando:
– I testi erano scritti da persone che sapevano tenere la penna in mano. Con la massa di cartacce che circolano oggi, rileggerli è una consolazione;
– Fermo restando quanto sopra espresso, la qualità letteraria non è molto ricercata, probabilmente perché, rivolgendosi il giallo a lettori che acquistano per divagarsi, si è ritenuto inutile perseguire uno stile letterario;
– L’immagine dell’Italia che da quei testi ricaviamo è reale, ma non realistica. Manca un qualsiasi approfondimento sociologico e/o di antropologia culturale. Siamo al “prendere atto”, alla registrazione fenomenologia, pedissequa di “quel che passa il convento”;
Del terzo punto, potremmo anche fregarcene, attribuendo la considerazione ad un disturbo del carattere del sottoscritto. Solo, non è così semplice.
A metà degli anni ’60 si registra una frattura. Alla concezione del giallo, quale ho appena illustrato, occasionalmente partendo dall’ottimo “Sepolcro di carta”, si oppongono altri esiti.
Entra in scena Giorgio Scerbanenco, con quattro titoli che hanno quale protagonista un medico radiato dall’albo, Duca Lamberti. Sono: “Venere privata”, “Traditori di tutti”, “I ragazzi del massacro”, “I milanesi ammazzano il sabato”. Più due volumi di racconti: “Il Centodelitti” e “Milano Calibro9”; ed è il finimondo, perché il giallo italiano potrà continuare a menarsela come vuole, ma non sarà più lo stesso. Scerbanenco ha scritto anche cose di altro genere, ma teniamoci al minimo sindacale. L’opera si arresta nel 1969, per sopravvenuta morte dell’Autore.
Scerbanenco non si limita ad ambientare le sue storie a Milano; ci racconta, Milano, le sue storture, i suoi equivoci, le periferie, la malavita (che non è più simile a quella romana de “I soliti ignoti” – e sono passati pochi anni! – o dello Jannacci – “Faceva il palo” -, questa usa il “ferro”). Ci racconta Milano, perché quella conosce; e va in presa diretta, scrive “sul tamburo”.
E’ l’uovo di colombo. Terreno fruttifero per svalvolati politici, ma non necessariamente: anche per autori di fama, oppure distinti giornalisti che scrivono su giornali borghesi.
Nascono così, talvolta “a puntate” (con romanzi seriali, aventi protagonista fisso), parecchi ritratti di città.
Abbiamo, nell’ordine:
– Torino 1972: “La donna della domenica”, Mondadori, di Fruttero e Lucentini, sempre molto attenti al modo in cui si muove il mercato. Grande successo; a giro di posta, si produce un film, tratto da. Ci riproveranno nel 1979 con “A che punto è la notte”, ma il risultato sarà un mezzo flop. Ottengono giusto una trasposizione televisiva che abbiamo visto in quattro.
– Roma 1973: “Violenza a Roma”, Garzanti, di Felisatti e Pittorru. Inserito giusto per completezza d’informazione. In realtà i due sfruttarono il successo ottenuto scrivendo una serie televisiva, impiegando qui gli stessi personaggi dello sceneggiato, ed in parte le identiche storie. Roma non si vede moltissimo.
– Milano 1974: “Incidente sul lavoro” e “Delitto a mano libera” – Longanesi, di Antonio Perria; narratore robusto, buona immagine di Milano.
– Roma 1974: “La Madama”, Garzanti, di Felisatti e Pittorru. Vale commento su “Violenza a Roma”
– Bologna 1974 e negli anni a seguire. Editori vari ed assortiti, Autore più unico che raro per longevità, testardaggine e capacità narrativa, l’immarcescibile fraterno amico Loriano Macchiavelli. Si diceva di svalvolati politici? Quello di Loriano è un caso da manuale. E’ stato il primo a pubblicare romanzi in cui si parlava apertamente di politica, e certifico che non lo ha fatto per sfruttare il momento (gli anni ’70…): lui è così anche quando dorme, da sempre. Ormai, sono quasi 40 anni che ci conosciamo…Elenco delle opere, sterminato. Porterebbe via troppo tempo. Nel 1974 vinse il “Cattolica” con “Fiori alla memoria”, in realtà pubblicato da Garzanti nel 1975. Per entrare nel “Pantheon” dei Gialli Mondadori, dovette aspettare il 1980. Ingresso con: “Sarti Antonio, un diavolo per capello”.
– Provincia Lombarda 1976: “ Lungo il fiume”, Garzanti, di Luciana Attoli. Una ficcante storia di balordi, con bella ricognizione dei luoghi in cui la storia è ambientata.
– Napoli 1976: “La Mazzetta”, Rizzoli, di Attilio Veraldi. Bell’affresco, solo che i napoletani hanno la brutta abitudine di essere troppo indulgenti con se stessi;
– Milano 1977: “Centro città”, Mondadori, di Nicoletta Bellotti. Delitto nella “Milano bene”, piuttosto ben descritta;
– Torino 1977: “La nipote scomoda”, Mondadori, di Felisatti e Gambarotta. Il primo ha l’aria di averci messo solo la firma, richiesta dal compare. Felisatti era, all’epoca, un nome che circolava e faceva richiamo, al contrario di Bruno Gambarotta, funzionario Rai, torinese trapiantato part time a Roma. Immagino che si siano conosciuti nei corridoi della Rai, che Felisatti frequentava per motivi professionali (vedi sotto), Gambarotta era nei paraggi, quale dipendente. D’altro canto, che diavolo ne sapeva, un ferrarese che viveva a Roma, di Torino?
– Roma 1977: “La morte con le ali bianche”, Garzanti, di Felisatti e Pittorru, tratto dalla consueta serie televisiva scritta dai due (vedi sopra);
– Napoli 1978: “Uomo di conseguenza”. Rizzoli, di Attilio Veraldi. Vale commento a “La Mazzetta”;
– Milano 1978: “Il caso Kodra”, Rusconi, di Renato Olivieri. Ottimo scrittore. A volte un po’ troppo sentimentale. Negli anni, si costruirà la fama di essere una sorta di Simenon dei poveri.
– Roma 1978: “Morte di un senatore”, Pocket Mistero Longanesi, di Giuseppe Bonura. Più che raccontare una città, l’Autore punta alla descrizione di quel sottobosco di intrallazzi, mazzette, giochi di potere che gira intorno al mondo della politica. E siamo solo nel 1978;
– Firenze 1978: “Ve lo assicuro io”, Mondadori 1980, di Alberto Eva. Il romanzo è uscito con molto ritardo, rispetto all’epoca della premiazione a Cattolica. All’Autore, altro svalvolato politico, in anticipo sui tempi ed anche su Macchiavelli poiché il testo fu steso nel 1971, furono richiesti parecchi tagli, su punti ritenuti troppo politicizzati. Le trattative andarono per le lunghe, complice anche la morte di Alberto Tedeschi. E’ grasso che cola aver ottenuto che le ragioni ideologiche di una morte restassero immutate. D’altronde, gran delitti, in una città di provincia, sonnolenta, munita ancora di una mala a livello di rubagalline, non sarebbero parsi credibili. Il linguaggio usato ha valore storico, in quanto è un calco molto preciso delle espressioni usate dalla gioventù fiorentina fine anni ’60; accattivante, per rendere digeribile, all’Editore (e contrabbandare, presso lo spettabile pubblico) l’aspetto politico della storia.
Valgono, per tutti i testi ricordati, le considerazioni fatte per “Il sorpasso”. Registrano, ognuno per proprio conto, un momento preciso della realtà di un luogo preciso. Un ricercatore che ne avesse voglia e fosse dotato di qualche capacità, potrebbe trarre una mappa sociologica utile per “leggere” un quindicennio di storia nazionale. Fatale è che, scritti “sul tamburo” si diceva, non siano rispondenti alla realtà attuale. Ne indicano, spesso, le origini. Oggi è sempre, figlio di ieri.
La prova provata di quanto affermo risiede nell’opera di quell’impagabile testone di Loriano. Leggendo le sue storie in ordine cronologico, si trova la scia lunga della storia di Bologna, e si misura, dai primi testi – invecchiati – ad oggi, i mutamenti che la città, e l’Italia, hanno subito.
Rivendico che è, questa, una caratteristica peculiare del giallo italiano. Al fondo, delle metropoli americane, niente ricaviamo dalla letteratura hard boiled degli anni ’30, e dagli Autori dei decenni successivi. La Los Angeles di Chandler è di cartone. Qualcosa di più apprendiamo, su quel luogo, da Ross McDonald. Dal “Falcone Maltese”, “impariamo” che a New York c’è un porto, sapendo che vi attraccherà un naviglio al bordo del quale si trova il falcone medesimo. Per il resto, la storia si conforma quale claustrofobica allo stato puro: la vicenda, porto escluso (un ostacolo che si aggira facilmente), data la circostanza, potrebbe svolgersi Salt Lake City, o Peretola. La stessa città, è del tutto anonima in Rex Stout.
E’ tuttavia illusorio ritenere che l’impostazione americana renda “senza tempo” le storie narrate. E’ vero che le città subiscono mutazioni fisiche ed antropologiche, per questo, il “narrato” italiano anni ’70 non corrisponde alla visione offrono che gli stessi luoghi, visitati oggi. E’ altrettanto vero, tuttavia, che pure gli uomini mutano i loro comportamenti. Chandler e Hammett, letti oggi, inducono malinconia per l’inattualità dei personaggi. Fermo restando che Phil Marlowe si muove in un contesto reale per l’epoca, ma è in sé un falso clamoroso.
Una caratteristica tipica degli italiani, si è detto; ma non prevalente. Resta che ha continuato nel solco della indicata frattura prodotta da Scerbanenco, sopra ricordata, e che ha costituito una autentica novità, nella quale non posso non riconoscermi in quanto, magari indegnamente, faccio parte di un gruppo che non si è formato volutamente. Siamo di fronte ad una concezione del giallo che è maturata nella mente di una serie di autori, spesso inconsapevoli di muoversi sulla scia dell’innovatore, magari nemmeno letto. Un “comune sentire” nato in modo spontaneo, senza che ci fossero contatti di qualche genere fra quelli che, solo per comodità di esposizione, definisco “componenti” del gruppo.
Non prevalente in quanto è, infatti, ovvio che, cogliendo la propensione al delitto maturata dagli italiani sopraffatti dal benessere, privati di un’infanzia giudiziosa perché senza quattrini, siano nati altri autori, che non hanno perseguito l’indagine da entomologo manifestata da Scerbanenco e gli altri elencati, ma una sana propensione per il giallo tout court, mantenendo tuttavia ben saldo il piede sul territorio, e con impianti realistici che fanno volentieri a meno di pesci velenosi o pozioni improbabili, e di delitti scombiccherati.
La “macchina della conservazione” di un certo concetto di giallo, impiega un po’ di tempo, per mettersi in moto, zittita com’è dal rivoluzionario Scerbanenco, ma già a metà degli anni ’70 si hanno buoni esiti. Essere esaustivo, richiederebbe elaborate quanto inutili ricerche. Mi baso sui volumi in mio possesso per segnalare:
1975
Paolo Levi: “Ritratto di provincia in rosso”. Rizzoli. Consueta provincia carica di veleni.
1976
Enzo Russo: “Il Caso Montecristo”,Mondadori. Esordio di un grande Autore, un giornalista siciliano trentenne all’epoca, ingiustamente dimenticato.
Secondo Signoroni: “Qui commissariato di zona”, Longanesi, Premio Cattolica
Roberto Vacca: “Greggio e pericoloso”. Mondadori. Fantapolitica e spionaggio accluso.
Paolo Levi: “Delitto in piazza”, Rizzoli.
1977
Anna Maria Fontebasso: “A colpi di Spada”, Garzanti. Segnalato a Cattolica.
Ruggero Ruggieri: “Non per perdere…” Garzanti. Giallo umoristico, divertentissimo.
Enzo Russo: “La tana degli ermellini”, Mondadori.
Secondo Signoroni: “Petrosino e i baffi a manubrio”, Mondadori. Premio Cattolica.
1978
Paolo Levi: “Un agguato, una sera al mare”, Rizzoli.
Luciano Zecchi: “Agenzia Investigativa Riccardo Finzi”, Il Corno.
Secondo Signoroni: “Testimonianza d’accusa”, Garzanti.
1979
Anna Maria Fontebasso. “Soggiorno obbligato”, Garzanti 1979, segnalato a Cattolica nel 1978. Dopo aspra battaglia (prevalsero le convinzioni di Alberto Tedeschi), si classificò seconda, dietro Alberto Eva. Grazie agli “gnomi inventivi” presenti in Mondadori, l’Autrice riuscì a farsi pubblicare prima del vincitore, uscito, si è detto, solo alla fine del 1980.
Secondo Signoroni: “Petrosino e il figlio del diavolo”, Mondadori.
Enzo Russo: “I martedì del diavolo”, Mondadori.
Ragionamento lungo, meriterebbe l’opera di Leonardo Sciascia, a partire da “Il giorno della civetta”, 1961, ma trattandosi di qualcosa più di un Autore di gialli, in quanto le sue opere sono meglio definite dall’espressione “contes philosophiques”, ritengo opportuno astenermi: qui e ora, con poco tempo a disposizione, dovrei limitarmi a “brevi cenni sull’universo”. Non mi affascina.
Molti degli Autori ricordati intrapresero il tentativo, sfortunato ma anche velleitario, di dar vita ad una Associazione, che ebbe il suo battesimo sotto l’acronimo SIGMA: Scrittori Italiani del Giallo e del Mistero Associati; la Presidenza fu attribuita a Biagio Proietti. Non ottenne alcun risultato concreto di promozione del gruppo, dei singoli e del giallo. Incisero le distanze geografiche che dividevano i membri, la conseguente difficoltà di comunicare, di contatti, di riunioni. Ad opinione del disincantato Loriano Macchiavelli che pure aveva fortemente caldeggiato l’associazione e nemmeno per ricavarne diretti vantaggi personali, nocque al SIGMA, la presenza di “troppi romani”. Macchiavelli espunse gli elementi negativi, riproponendo in salsa cittadina (Bologna) la stessa ricetta associativa; con successo. Infine, sul fallimento del gruppo, incise l’obiettiva difficoltà di pubblicare; e sul punto, si sofferma, in parte, la conclusione di questo intervento. Vado ad iniziarla.
L’ascoltatore attento avrà notato la presenza, nelle due “scuole di pensiero” adombrate, di un certo numero di Autori poi scomparsi dalla circolazione.
Questo si deve a varie circostanze. Oltre al dato anagrafico (abbiamo visto che Scerbanenco è morto nel 1969, nemmeno vecchio, visto che era nato nel 1911), individuo gli elementi che seguono:
– I lettori italiani non gradivano gli scrittori indigeni. Di “Ve lo assicuro io” furono stampate 59.000 copie. Ignoro le rese. Resta che, abitualmente, all’epoca i Gialli Mondadori uscivano con 65.000 copie, ma era risaputo che un nome italiano in copertina significava vendere il 10% meno del consueto. Avveniva perfino con autori americani di origine italiani: Barry Fantoni, per esempio. In uno dei numeri successivi al 1665, fu pubblicata la lettera di una Signora Santini di Pisa, sostenente esserci nel romanzo troppe parolacce. Immagino che il tempo le abbia insegnato che peggio non è mai morto. Aggiungo che mi è avvenuto di avere fra le mani un recente Giallo Mondadori, in cui i lettori commentano l’antologia “Carabinieri in giallo”. Il tempo sembra essere trascorso invano: la solfa contro gli Autori italiani non è cambiata. Significa però soltanto che i lettori dei Gialli Mondadori sono conservatori e reazionari, visto che in giro, di gialli/noir se ne pubblicano, e qualcuno, ci si figura, li acquisterà anche. Non i puristi mondadoriani, ancora fermi all’epoca delle crinoline.
– Buon impulso al genere, nel periodo in esame, aveva dato la collana “Gialli Garzanti”, molto innovativa rispetto alle cariatidi Mondadori. Fu questo Editore, per dirne una, a portare in Italia Maj Sjövall e Per Wahlöö, rilanciati in questi anni da Sellerio, ed a pubblicare alcuni promettenti Autori italiani. Purtroppo la collana fu chiusa in quanto non aveva prodotto i risultati economici desiderati, lasciando in pratica il monopolio (che si era cercato di contrastare) ai Gialli Mondadori.
– Il monopolio è una brutta bestia. Induce a riposare sugli allori. A non innovare. Soprattutto, a sonnecchiare senza tenere a livello di attenzione “le piccole cellule grigie”. Nessuno dei redattori si dette la pena di valutare, quale segnale molto negativo per la collana, il fatto che i più dotati degli Autori americani (principale fonte di approvvigionamento dei Gialli Mondadori) si erano stufati di produrre un gialletto ogni sei mesi, ricavandone un pugno di dollari, e si erano organizzati in questa direzione: scrivere la scaletta di un romanzo di 3/400 pagine, stendere il primo capitolo, inviare il “progetto di romanzo” ad un Editore; chiedere quattro anni di tempo per stendere il testo completo, ed il denaro necessario per sopravvivere per quell’arco temporale. L’oceano in cui la Mondadori pescava, si stava riducendo ad un lago… Era il momento di frugare fra gli autori delle nostre parti. I lettori? Per stabilire una tradizione, occorre pur cominciare. Alberto Tedeschi, così attento al box office, posto di fronte ad una situazione del genere, si sarebbe imposto agli esterofili coatti: aveva autorevolezza e credibilità. Scomparso lui, rimase in pista una lunga teoria di bagonghi nullafacenti disposti a tutto pur di non correre rischi. Era notorio che l’unica a lavorare sul serio, in redazione, era Lia Volpatti, che arrancava nelle retrovie. Indimenticabile la scena in cui, nel corso di un Mystfest, Marco Tropea minacciò fisicamente Loriano Macchiavelli, reo solo di essere un notorio rompicoglioni, che chiedeva l’inserimento non suo personale, ma genericamente di Autori italiani, nei Gialli.
– La prova provata della “lungimiranza” della redazione sta nel “Premio Tedeschi”, che andò a sostituire il “Cattolica”. Scorrendo l’elenco dei vincitori, lo stesso nome non è MAI ripetuto; nemmeno nel caso di Linda di Martino, che pure ha vinto due volte: una, quale Domizia Drinna, l’altra col suo nome. Mi rifiuto di ritenere che inesorabilmente ogni vincitore lo sia stato per un colpo di fortuna con la “c” maiuscola, e che ci abbia riprovato, conseguendo però mediocri risultati, con testi nemmeno paragonabili a quello premiato. Semplicemente, la regola non scritta era: chi ha vinto non può vincere ancora. Io stesso, ho partecipato con un testo, “Per così poco…”, poi uscito nel 2000 con altro editore, giungendo secondo perché proprio non ne potevano fare a meno. In realtà, il vincitore non mi legava nemmeno le scarpe. Ho perfino tentato l’espediente dello pseudonimo. Purtroppo, nel bene e nel male, il mio atteggiamento verso la scrittura è inconfondibile… Quello che intendo sostenere è: l’Autore da “una volta sola” rimane un buon dilettante, quanto dire uno spaventapasseri che ha goduto del quarto d’ora di celebrità “promesso” a tutti da Andy Warhol. Non è così che si coltiva una tradizione.
Certo: si può evitare di coltivarla, non l’ha ordinato il medico. Solo che le fonti straniere si sono inaridite, una tradizione italiana presso i lettori dei Gialli Mondadori non si è stabilita, ma in compenso i gialli italiani sono venduti, da altri editori. Si trattava semplicemente di sostituire a quei rompicoglioni dei lettori reazionari che blateravano ancora contro gli Autori indigeni, i lettori che tali Autori acquistano presso altri editori. Rapido, seguro, economico, avrebbe detto il compagno Fidel ai suoi bei dì.
Oltretutto, la Mondadori era in grado di operare quella selezione che la pletora di piccoli editori oggi presente sul mercato non ha la capacità di fornire al lettore. Vedo in giro, roba scritta da cani, con trame che non stanno ritte nemmeno con le iniezioni di cemento armato, scombiccherate, incongrue, contenenti errori che inficiano tutta la storia narrata.
…Ma quella che riguarda la qualità del linguaggio usato, è questione che, se hanno voglia – ma non credo – affronteranno altri relatori.
Mi limito a chiederne conto, in nome di una certa dignità letteraria alla quale non si dovrebbe mai rinunciare. Per quanto mi riguarda, ho la stessa aspirazione di Chandler: “Accettare una forma mediocre, per fare, attraverso di essa, un lavoro letterario, è già un risultato. Noi artisti non siamo sempre simpatici, ma essenzialmente abbiamo un ideale che trascende noi stessi”. Convengo che non posso fregiarmi del termine “artista”, ma è certo, che il mio ideale naviga verso un’opera letteraria. Aggiungo, da buon megalomane presuntuoso: in più, stesa con uno stile tale da farla, di fatto, fuoriuscire dal genere in senso stretto. Per esempio, buon “Edipo Re” a tutti!
Per completezza d’informazione e per corroborare quanto sopra sostenuto:
(messaggio rivolto a coloro che leggeranno il presente testo sul cartaceo o l’elettronico).
Elenco di testi pubblicati negli anni ’80 (limitatamente a quelli che possiedo):
Luciano Anselmi – Nudo in albergo – Camunia 1985. Il protagonista, commissario Boffa, ha però esordito nel 1970, ne “Il caso Lolli” –Autore SIGMA.
Fiorella Cagnoni – Questione di tempo – La Tartaruga Nera (Editore che si è dedicato alla sola pubblicazione di autrici) 1985. Autrice dispersa nella nebbia.
Franca Clama – La Valle delle croci spezzate – Giallo Mondadori 1983 – Vincitrice del Premio Tedeschi. Dispersa.
Enzo Ferrea – Quando muore mammina – Giallo Mondadori 1982 – Vincitore del Premio Tedeschi. Qualcuno ne ha notizia?
Carla Fioravanti Bosi – Vado, contrabbando i diamanti e torno – Gialli Mondadori 1980. Il nome mi frulla in testa. Qualcosa di altro deve aver pubblicato.
Paolo Levi – Tentativo di corruzione – Rizzoli 1980. E’ rimasto sul mercato fino a quando non è morto, ma è Autore di chiara fama, visto che lo pubblicava Rizzoli, ed in edizione cartonata.
Paolo Levi – Le mosse sbagliate – Rizzoli 1982 – Vedi sopra.
Ermanno Libenzi – Le scatole cinesi – Sonzogno 1980. Il testo in parola è sicuramenre definibile un ottimo giallo. Autore perso, ed è un peccato.
Loriano Macchiavelli continua ad imperversare.
Stefano Mangiasassi – Quattro balle di merce pregiata – Giallo Mondadori 1982. Vincitore del Premio Tedeschi. Qualcuno sa che fine ha fatto?
Renato Olivieri – Maledetto ferragosto – Rusconi 1980. Autore noto, con la sua piccola fama di Simenon italiano, esce in cartonato.
Renato Olivieri – Dunque morranno – Rusconi 1981. Vedi sopra.
Renato Olivieri – Indagine interrotta – Rusconi 1983. Vedi sopra.
Renato Olivieri – Largo Richini – Rizzoli 1987. Vedi sopra
Luciano Secchi – Fotofinish – Il Corno 1981. Altra avventura dell’agenzia investigativa Riccardo Finzi. Dovrebbe essere la terza: mi manca la seconda. Con questa, chiude bottega, a quanto mi risulta.
Attilio Veraldi – Naso di cane – Mondadori 1982. Chiude la saga parte nopea, parte napoletana. Non credo, causa morte dell’Autore. Esaurimento della vena, oppure Editore insoddisfatto delle vendite di quest’ultimo testo, che per la verità non è un capolavoro?