L’Unione Sovietica ha bisogno di importare grano e tecnologia dall’Occidente: il grano viene venduto a prezzo di favore dagli Stati Uniti e le banche occidentali sono felici di concedere alla potenza del socialismo mondiale crediti a lungo termine che vengono regolarmente ripagati. L’URSS infatti, fino alla sua fine, ha sempre avuto un eccellente record per quanto riguarda la restituzione dei debiti contratti con le banche, potendo contare su abbondanti riserve di valuta pregiata (dollari e sterline) che le derivano dall’esportazione di materie prime pregiate come petrolio e gas.
Come già detto, negli anni settanta tutte le grandi corporations stipulano contratti con l’Unione Sovietica per la vendita o la fornitura di tecnologia all’avanguardia, oppure per la realizzazione di impianti “chiavi in mano”, cioè completi di macchinari e attrezzatura. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti approva il Trade Act, cioè una nuova legislazione sul commercio che concede al Presidente in carica una sorta di binario privilegiato per negoziare accordi commerciali che il Congresso può solo approvare e disapprovare, ma non emendare. All’epoca il presidente americano era il repubblicano Gerald Ford, che il 26 marzo 1976 saluta l’accordo per la realizzazione del complesso petrolchimico nel porto di Fiume da parte della Dow Chemical con un messaggio augurale nel quale auspica “un’ulteriore intensificazione dei rapporti di collaborazione economica tra Stati Uniti e Jugoslavia”. Il Washington Post scrive che l’iniziativa “è di fondamentale importanza nel trasferimento, passo per passo, della tecnologia statunitense in uno stato del socialismo”.
Tutta la tecnologia? No, perché in realtà non tutto è liberamente trasferibile nei paesi comunisti: mentre la lista delle aziende americane disposte a cooperare con le autorità sovietiche cresce giorno per giorno il trasferimento di tecnologia militare non decolla. I colossi del settore non sembrano intenzionati a sfidare i veti governativi che, per quanto riguarda il settore strategico degli armamenti, sono ancora molto rigidi. Il clima della Distensione, però, ha favorito ormai l’apertura di canali per il trasferimento di questo tipo di tecnologia: è sufficiente solo trovare il modo per aggirare l’embargo istituito dal governo americano.
La soluzione si trova con l’aiuto di uno dei paesi che fanno parte del Movimento dei Paesi Non-Allineati, un raggruppamento di nazioni del Terzo Mondo che si sono appena scrollate di dosso il dominio coloniale. Grazie alla mediazione di Tito e della Jugoslavia (e del Partito Laburista britannico), l’India si dice disposta a far giungere le armi dall’Occidente all’Unione Sovietica e a far compiere agli armamenti il percorso inverso, cioè dalla patria del socialismo ai paesi dell’Africa e dell’Asia impegnati in guerre di liberazione o in guerre civili tout-court.
Grazie a questi canali informali e privilegiati, l’Unione Sovietica diventa il primo paese esportatore di armi al mondo e incassa così un’ulteriore quantità di valuta pregiata che potrà utilizzare per ripianare il deficit della bilancia dei pagamenti. Ancora nel 1987, alla vigilia della crollo del comunismo, l’URSS risulterà esportare più armi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia messi assieme. Nel 1974 vede la luce anche il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, che alla fine degli anni ottanta darà vita agli Accordi di Basilea in materia di requisiti patrimoniali delle banche, la base per la riforma del commercio mondiale.
Ma la verità più amara, che alla fine della Guerra Fredda si ritorcerà contro la Jugoslavia, è che i paesi comunisti, per poter acquistare e vendere armi in giro per il mondo, hanno bisogno di affidarsi a mediatori d’affari che, ideologicamente, si trovano agli estremi opposti rispetto alla cultura politica del Movimento dei Paesi Non Allineati. Tanto è vero che negli anni settanta alcuni paesi, come l’Angola, verranno letteralmente fatti a pezzi da una sanguinosissima guerra civile. D’altra parte, senza i proventi derivanti dalla vendita di armi, né l’Unione Sovietica, né la Jugoslavia sarebbero in grado di pagare le forniture di tecnologia militare provenienti dall’Occidente. Quando il presidente Bush, nel quadriennio 1988-1992, rinegozierà gli accordi commerciali con un’Unione Sovietica i cui dirigenti sono ansiosi di approdare alle sponde del capitalismo, una delle condizioni imposte dal presidente americano sarà proprio che gli Stati Uniti riprendano in mano il traffico di armi mondiale: non a caso nel 1994 le statistiche sull’export di armamenti vedono il capovolgimento della situazione del 1987, con il crollo da parte della Russia e la leadership mondiale ormai saldamente in mano agli Stati Uniti. Il prezzo della riorganizzazione del mercato delle armi verrà fatto pagare, secondo un crudele contrappasso, ai popoli della ex Jugoslavia e del Rwanda. (continua)
Nella foto Gerald Ford, presidente americano dal 1974 al 1976