Rappresentazione di un periodo storico ancora avvolto nel mistero, anche se questo film racconta molte più verità di quante non appaiano allo spettatore dopo una prima superficiale visione.
Ambientato nel periodo a cavallo della strage di Piazza Fontana, “Romanzo di una strage” ci presenta il solito guazzabuglio di personaggi legati all’attentato e ormai divenuti celebri, almeno per la mia generazione: anarchici perennemente perseguitati da poliziotti pervicacemente convinti della loro colpevolezza; esponenti dell’estrema destra, veneta e romana, convinti che il modo migliore di rigenerare l’Italia sia piazzare bombe sui treni e nelle stazioni; agenti dei servizi segreti che infiltrano sistematicamente i gruppi politici dalle tendenze più estreme per spingerli a farsi la guerra e sprofondare il paese nel caos, non si capisce a beneficio di chi; infine i soggetti più sfortunati, le vittime della strage e dei giochi politici di quegli anni, i cui familiari, come la vedova dell’anarchico Pinelli, non riusciranno mai a ottenere giustizia dallo stato italiano.
Rispetto alle interpretazioni proposte fino ad ora il film di Marco Tullio Giordana si differenzia per la raffigurazione di tre personaggi chiave che spiccano sopra tutti gli altri: l’anarchico Giuseppe Pinelli, interpretato magistralmente da Pierfrancesco Savino; il commissario della Questura di Milano Luigi Calabresi, impersonato da uno straordinario Valerio Mastandrea e Aldo Moro, all’epoca dei fatti Ministro degli Esteri e qui interpretato da Maurizio Gifuni.
Di ognuno di questi personaggi il regista riesce a delineare le passioni, i dubbi e le contraddizioni legate al ruolo pubblico che essi incarnano: Pinelli è un ferroviere di estrazione piccolo-borghese e di formazione cattolica che guida un circolo di anarchici e che, per tale motivo, viene preso di mira dal capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, il commissario Luigi Calabresi, il quale lo sospetta di essere coinvolto in alcuni attentati ai treni e lo tampina con tutti i mezzi, leciti e illeciti, estorcendo informazioni sul suo conto ai suoi collaboratori attraverso l’intimidazione e il ricatto.
Turbato e innervosito dal fatto di essere scaraventato in una dimensione tanto lontana dal suo temperamento personale, Pinelli finisce risucchiato in un vortice di tensioni distruttive che avrà come tragico esito l’interrogatorio fiume negli uffici della Questura di Milano, nei giorni seguenti all’attentato alla Banca dell’Agricoltura.
La rappresentazione di Luigi Calabresi è quella che risente maggiormente del clima di revisionismo storico con il quale, negli ultimi anni, una parte della magistratura e del mondo politico hanno inteso chiudere il conto su quegli anni, senza dare in definitiva alcuna risposta certa sul piano della verità storica, ma facendo affidamento unicamente sulle testimonianze, ampiamente contestate, di alcuni personaggi dalla condizione molto dubbia. Di Calabresi il film rivela giustamente le asprezze legate al ruolo di capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, ma tende continuamente a mitigarne l’immagine mostrandocelo più volte nell’intimità familiare, come se questo potesse bastare a chiarirne le responsabilità nella morte di Giuseppe Pinelli il quale, come è noto, cade, non si sa quanto incidentalmente, dalla finestra del suo ufficio mentre è sottoposto a un durissimo interrogatorio, in un momento nel quale il commissario è assente.
Dal punto di vista cinematografico, il lato più umano del personaggio emerge dopo che lo stesso viene additato all’opinione pubblica come il responsabile della morte di Pinelli. A questo punto, sottoposto sia alle pressioni della stampa che all’indifferenza dei suoi superiori, che hanno i loro bravi scheletri nell’armadio da tenere nascosti, Luigi Calabresi decide di farsi carico, pur se in forma privata, dell’accertamento di una verità che appare tanto complessa quanto sfumata nei suoi contorni.
Il film si chiude con l’immagine tragica del suo cadavere disteso sull’asfalto in seguito all’agguato di cui cadde vittima, senza che il regista faccia il minimo tentativo di spiegare se la causa dell’attentato sia da ricercare nell’estremismo dei gruppi della sinistra extraparlamentare oppure in una decisione dei servizi segreti, che ormai lo consideravano un fastidio per i troppi segreti di cui era venuto a conoscenza nel corso delle sue indagini private sulla strage di Piazza Fontana.
Ma la forzatura più clamorosa, a mio avviso, è quella che riguarda Aldo Moro: nel film è uno dei personaggi più affascinanti e ricchi di tensione drammatica perché in preda a un travaglio spirituale che gli fa avvertire più chiaramente rispetto ad altri il momento di pericolo corso dalle istituzioni democratiche e la necessità di impegnarsi a fondo per salvarle. Il Moro di Giordana vive con lucidità una disperazione esistenziale che lo spinge a cercare nell’impegno politico un’alternativa all’isolamento e all’incomprensione da parte dei colleghi di partito, fino ad arrivare più volte allo scontro con il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat sulla questione fondamentale della proclamazione dello stato d’emergenza.
Con tutto il rispetto per il regista, e anche per Aldo Moro, non ho mai avuto l’impressione che il Moro reale abbia percorso la politica italiana di quegli anni animato dalla ricerca di una totalità esistenziale attraverso la quale affermare e realizzare se stesso. Anzi, la fine malinconica nel covo delle Brigate Rosse, durante la quale scriveva lettere intrise di umana e sincera disperazione per la fine che gli appariva imminente, ce lo hanno restituito come una persona dai sentimenti molto comuni e per nulla legato all’immagine di uomo di potere estraniato dal consesso umano.
Tutti i personaggi che appaiono in questo dramma cinematografico sembrano riflettere un’ansia di un riesame critico di uno dei periodi più bui della nostra storia e, per pochi attimi, si ha l’illusione che l’azione di alcuni magistrati coraggiosi possa riuscire dove le altre istituzioni democratiche hanno fallito. Ma è solo una breve illusione, perché i titoli di coda ci riportano subito alla realtà ricordandoci che il processo per la Strage di Piazza Fontana si è concluso senza colpevoli e che, ancor più amaramente, i parenti delle vittime sono stati persino costretti a pagare le spese processuali.
La chiusura del film, con il corpo del commissario Calabresi riverso sul selciato, omicidio per il quale sono stati condannati i vertici di Lotta Continua dell’epoca, lascia aperti dubbi e perplessità sul ruolo svolto dai protagonisti di quelle vicende e sul senso di una democrazia sulla quale pesano, fin da allora, ombre che si allungano fino a noi.