Questo romanzo rappresenta il tentativo molto ambizioso di spiegare, utilizzando la metafora letteraria del thriller, il perché negli ultimi anni, cioè a partire dal 2006, gli anni settanta sono tornati nuovamente in voga nella cultura di massa. Molti film di successo, quali “La regola del silenzio” di Robert Redford, “Frost/Nixon” di Ron Howard oppure “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Lucchetti, hanno ripreso tematiche, situazioni e personaggi di quegli anni, come se avessero ancora una rilevanza nel dibattito politico-culturale attuale, e in effetti ne hanno, nonostante le grandi differenze che la società di oggi presenta rispetto a quella di quarant’anni fa.
“La verità sul caso Harry Qubert” narra la storia di Marcus Goldman, scrittore di origine ebrea che nel 2006 diviene famoso grazie a un bestseller che vende milioni di copie. Sospinto verso la celebrità da un successo tanto ampio quanto, probabilmente, immeritato, il giovane Goldman è costretto a subire tremende pressioni da parte della casa editrice per sfornare un altro romanzo di successo. Impresa tutt’altro che semplice, perché lo scrittore si incaglia in un blocco creativo di quelli capaci di stroncare un’intera esistenza, oltre che una carriera, e non riesce più a buttar giù una pagina neanche a spararsi fino a quando, preso dalla disperazione, non decide di contattare un suo ex professore universitario di nome Harry Quebert.
Quebert, secondo Goldman, è “uno degli autori più letti e rispettati degli Stati Uniti” fin dal lontano 1976, quando un suo romanzo composto nel corso dell’estate precedente batté ogni record di vendite. Il romanzo si intitola, in modo inquietante, “Le origini del male” e nasconde dietro la sua realizzazione una serie di misteri che toccherà proprio a Marcus Goldman dipanare. Quebert, infatti, viene arrestato il 12 giugno del 2008, dopo che nel giardino della sua casa nella città di Aurora, nel New Hampshire, vengono rinvenuti i resti di una ragazzina scomparsa nell’agosto del 1975: Nora Kellergan, figlia di un pastore protestante della cittadina del New England.
A questo punto il giovane scrittore decide di lanciare il dado e di varcare il Rubicone: si trasferisce ad Aurora nella casa di proprietà del suo mentore, anche se non potrebbe visto che si tratta di una scena del crimine, e inizia a frequentare gli stessi luoghi e le stesse persone che Harry Quebert aveva conosciuto nella sua gioventù. Dopo un viaggio a ritroso nel tempo lungo quasi ottocento pagine, nel quale la verità cambia volto in continuazione tanto che appare impossibile assegnarle un volto definitivo, Goldman riesce a ricostruire i fatti che hanno portato alla morte di Nora Kellergan e a scagionare il suo amico dalle accuse.
Le prime centocinquanta-duecento pagine sono scritte impeccabilmente, secondo un canovaccio molto seguito dalle case editrici, poi il libro sprofonda in una melassa di banalità e luoghi comuni veramente irritante, tanto che si viene presi dalla tentazione di saltare a piè pari interi capitoli, con il conseguente rischio di perdere dei dettagli importanti per la comprensione della vicenda. Le ultime duecento pagine, infine, riabilitano parzialmente l’autore, che ci conduce al traguardo attraverso un crescendo mozzafiato di colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva veramente notevoli.
Ciò che manca alla soluzione finale, a mio avviso, è quel pizzico di genialità e di estrosità che sta alla base dell’impostazione del libro, il vero punto di forza del romanzo: pubblicato nel 2011, narra una vicenda accaduta nel 2008 (l’arresto di Harry Quebert) per sbrogliare la quale il protagonista deve fare luce sugli avvenimenti dell’estate del 1975, che a loro volta rimandano all’estate del 1969 e, ancora più indietro, agli anni cinquanta. Il tutto immerso in una sorta di meta-rappresentazione della condizione dello scrittore moderno che assomiglia a un manuale di retorica, con tanto di consigli dispensati a piene mani per ottenere il maggior successo di pubblico possibile. Indubbiamente è questo canovaccio l’elemento di maggior fascino dell’opera, perché la mediocrità della scrittura fanno dubitare che si tratti di farina del sacco di Joel Dicker e che, al contrario, qualche austero direttore di casa editrice abbia intessuto sapientemente questa intelaiatura per offrire a un giovane e raccomandatissimo rampollo dell’establishment ginevrino la possibilità di promuovere la propria carriera di scrittore.
Come voto finale, tenuto conto di tutto, gli assegno un bel sette perché in fondo penso che sia valsa la pena acquistarlo, anche se non mi sento di consigliare ad altri di spendere i diciotto euro richiesti dall’editore. Inoltre vi avviso che per comprenderlo a fondo è necessario possedere un’ottima, sottolineo ottima, conoscenza degli avvenimenti storici degli ultimi quarant’anni, inclusi quelli che di solito non compaiono nei libri di testo. Decidete voi se comprarlo o meno.