…il magico Natale…

“S’io fossi il mago di Natale farei spuntare un albero di Natale in ogni casa, in ogni appartamento dalle piastrelle del pavimento, ma non l’alberello finto, di plastica, dipinto
che vendono adesso all’Upim: un vero abete, un pino di montagna, con un po’ di vento vero impigliato tra i rami,
che mandi profumo di resina in tutte le camere, e sui rami i magici frutti: regali per tutti.”
G. Rodari – Il magico Natale
L’abete rosso o peccio (Picea excelsa (Lam.) Link, famiglia Pinaceae) è un albero ampiamente diffuso in tutto l’arco alpino, dove lo si può trovare fino a circa 1800 m di altitudine. Si tratta di una pianta tipicamente mesofila (legata a moderate condizioni di umidità, di temperatura e di luce), ma che presenta la capacità di resistere a condizioni di leggera aridità e scarsa luminosità, oltre che alle basse temperature invernali e ai geli primaverili; non tollera però i climi eccessivamente umidi e le temperature estive troppo o troppo poco elevate. L’abete rosso, che ha portamento conico e può raggiungere i 50 m di altezza, è così chiamato per il colore rosso-bruno della sua corteccia, che con l’età diventa bruno-grigia e si squama in placche sottili; le foglie sono aghiformi, di colore verde scuro e dall’apice acuminato e si dispongono su tutti e quattro lati del ramo che le porta. I fiori di questa conifera sono detti “amenti”: quelli maschili sono ovoidali, dapprima rossi e poi gialli all’apertura, quelli femminili sono cilindrici, di colore rosso-violaceo e si trovano sulla stessa pianta; il frutto, la pigna, ha forma cilindrica, colore marrone e può raggiungere i 15 cm di lunghezza.
Il peccio è una specie arborea largamente coltivata per il valore del suo legno, il cui impiego avviene in svariati ambiti: in falegnameria, per le pavimentazioni, nell’industria cartaria e, grazie alle sue eccezionali proprietà di risonanza, in liuteria per la costruzione di tavole e casse armoniche per strumenti musicali (pianoforti, violini, organi). Un particolare impiego dell’abete rosso è come albero di Natale, la cui origine sembra sia da collegarsi alla tradizione degli “Adam und Eva Spiele” (Giochi di Adamo ed Eva), diffusa in Germania già nel Medioevo: il 24 dicembre, per ricreare l’immagine del Paradiso, le piazze e le chiese venivano riempite con alberi di frutta, simbolo dell’abbondanza e del mistero della vita. La nascita “ufficiale” dell’albero di Natale si può però considerare risalente al XVII secolo in Alsazia, regione dalla quale provengono le prime testimonianze della presenza nelle abitazioni di abeti ornati con rose di carta, mele, zucchero; nell’Ottocento, con la fabbricazione di decorazioni di vetro soffiato, la moda dell’albero di Natale costosamente addobbato si diffuse in tutte le corti d’Europa. In Italia la sua introduzione è relativamente recente: la regina Margherita, moglie di Umberto I, ne fece allestire uno in un salone del Quirinale, residenza della famiglia reale. La novità piacque tanto che agli inizi del Novecento l’albero cominciò a diffondersi tra le famiglie italiane, diventando una tradizione natalizia accettata anche dal cattolicesimo, tanto che durante il pontificato di Giovanni Paolo II fu introdotta la consuetudine di allestire un grande albero di Natale in piazza San Pietro. Tra le interpretazioni allegoriche introdotte dal cattolicesimo vi è quella secondo la quale l’abete simboleggia la figura di Gesù, il Salvatore che ha sconfitto le tenebre del peccato: per questo motivo esso viene adornato di luci.

GLOSSARIO
Amenti: forme particolari di infiorescenze a spiga, caratterizzati da fiori unisessuali.
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Il Tasso del tasso barbasso

“Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”. Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”. Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.”  Achille Campanile
Il tasso (Taxus baccata L., famiglia Taxaceae) è un albero o arbusto sempreverde originario del Nord Africa e dell’Asia sud-occidentale. E’ diffuso in tutta l’Europa centro-meridionale, dove cresce allo stato spontaneo nei boschi ombrosi di latifoglie da 300 a 1500 m di altitudine; nei secoli scorsi è stato quasi cancellato, ma molto lentamente è riuscito a riprendersi. Si tratta di una pianta longeva, ad accrescimento lento, che può arrivare fino a 20 m di altezza; presenta una corteccia bruno rossastra inizialmente liscia, ma che con l’età si solleva arricciandosi in lembi poco spessi. Le foglie, inserite sui rami in due file opposte, sono lineari, lunghe fino a 3 cm, di colore verde molto scuro nella pagina superiore e più chiaro in quella inferiore. Questa conifera non produce frutti, ma arilli, ovvero delle escrescenze carnose rosse a maturità che ricoprono il seme, duro e molto velenoso, come le foglie: è da questa caratteristica che deriva il nome volgare di “albero della morte”. L’arillo, invece, è commestibile e viene mangiato dagli uccelli, che in questo modo favoriscono la diffusione della specie: questi animali mangiano i frutti, che non vengono macinati e digeriti perché mortali, ma vengono espulsi ancora intatti; possono così insediarsi nel terreno e dare origine ad una nuova pianta. Il tasso è, quindi, una pianta zoofila, cioè che si serve degli animali per riprodursi; senza di essi, infatti, gli arilli cadrebbero al suolo ed i semi non potrebbero dare origine ad un nuovo individuo per la mancanza di luce e per la concorrenza della pianta madre per i sali minerali del terreno.
Il tasso viene ampiamente coltivato come pianta ornamentale in quanto sopporta bene la potatura, resiste all’atmosfera delle città e non ospita gravi parassiti; il suo legno duro, pesante ed omogeneo, viene impiegato per lavori al tornio e in ebanisteria, oltre che per costruire archi e manici di scuri.
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…fiore d’angelo…

“Filadelfo” (Philadelphus sp., famiglia Hydrangenaceae) è la denominazione comune di svariate specie arbustive originarie delle zone temperate dell’emisfero boreale; si tratta di arbusti alti 1-5 metri, che in Italia, anche se molto raramente, possono crescere spontanei nei boschi termofili delle Alpi Orientali e della Toscana.
Queste specie  possiedono un fusto rivestito da una corteccia che si sfilaccia in modo caratteristico e foglie di colore verde scuro, decidue, opposte, semplici ed ovate. I fiori, che sbocciano tra maggio e giugno, sono bianchi, talvolta con macchie purpuree alla base, e sono inseriti sulla pianta singolarmente o in racemi; sono spesso dotati di un delizioso profumo: quelli del Philadelphus coronarius (filadelfo comune), originario dell’Europa meridionale e diffusamente coltivato nelle regioni temperate di tutto il pianeta, possiedono una fragranza che ricorda quella dei fiori d’arancio. Alcune specie, come il Philadelphus inodorus, originario degli Stati Uniti, hanno fiori molto simili a quelli del filadelfo comune, ma non altrettanto profumati, mentre altre, native del continente asiatico, sono più alte ed odorose.
Il nome del filadelfo, detto anche volgarmente “fiore d’angelo” o “gelsomino della Madonna”, deriva dal greco “philéo” (amare) e “adelphos” (fratello), secondo alcuni in riferimento ai molti stami, secondo altri ai numerosi rami che si intrecciano tra loro, secondo un’ulteriore interpretazione all’intenso profumo di questa pianta, che potrebbe simboleggiare la profondità dell’amore fraterno.
GLOSSARIO
Racemo: il racemo o grappolo è un’infiorescenza semplice costituita da un asse centrale sul quale si inseriscono fiori con peduncoli della stessa lunghezza, i più vecchi nella parte più bassa dell’asse fiorale, i più giovani verso la sommità.
Pianta termofila: pianta che predilige un clima caldo.

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Il vecchio castagno…

“Ora un giorno che stava a lavorare sotto il castagno, e che sotto i suoi sguardi pendean le vacche dalle stipe amare, dei tonfi udì, come se quei bastardi fosser lì con sassetti e con pinelle, chiotti, per darle briga… Erano i cardi. Cadeano giù con le castagne belle e nere in bocca, che sul musco arsito ruzzolavano fuori della pelle.”                         G. Pascoli – Il vecchio castagno
Il castagno comune (Castanea sativa Mill., famiglia Fagaceae) è una pianta a portamento arboreo che vegeta nell’areale circum-mediterraneo, anche se in coltura può inoltrarsi nell’Europa media ed occidentale; è tipico degli ambienti boschivi collinari e montani di bassa quota e, a causa dell’opera assidua dell’uomo, ha occupato assai più spazio di quello che naturalmente gli spettasse, a spese dei querceti e di altri boschi prealpini. Spesso, perciò, lo si trova accompagnato da querce quali rovere, roverella e cerro, oltre che da altre specie arboree come frassino, carpino nero, noce e nocciolo. Il castagno è una specie moderatamente termofila che possiede precise esigenze riguardo all’umidità e al suolo: si sviluppa maggiormente in aree caratterizzate da pronunciata piovosità unita ad una certa mitezza di clima e predilige terreni freschi, profondi, decalcificati o silicei e anche vulcanici. Questa pianta può raggiungere un’altezza variabile tra 10 e 30 m e possiede una corteccia liscia di colore bruno-giallastro solcata da lunghe nervature; le foglie sono alterne, ovali, lunghe fino a 20-22 cm e larghe fino a 10 ed hanno forma lanceolata, acuminata all’apice e dal margine seghettato. I frutti, le castagne, sono commestibili e racchiusi in numero da uno a tre all’interno di un involucro spinoso (riccio) che in autunno, giunto a maturità, si apre dividendosi in quattro parti. In epoca antica il castagno ha raggiunto un’ampia espansione verso nord in Europa, Asia ed America, come testimonia il suo attuale areale spezzato in tre grandi isole (americana, europea e dell’Estremo Oriente); l’avvento delle glaciazioni, però, ha provocato la contrazione verso sud della sua distribuzione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale un fungo patogeno estremamente virulento ha provocato la diffusione del cosiddetto “cancro del castagno”, che provocava la morte della pianta ed ha portato ad un drastico abbandono della coltivazione di castagneti da frutto.
Il frutto dell’”albero del pane”, così chiamato perché un tempo era coltivato per sfamare, riscaldare, medicare e conciare le pelli, è stato utilizzato fin dall’antichità per la produzione di farine, impiego che oggi ha un’importanza marginale ed è circoscritto alla produzione di dolci come il castagnaccio; diffusa è invece la destinazione della castagna al consumo diretto ed alla produzione industriale di marmellate e marron glacé.
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…ascolta…

“Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti…“       G. D’Annunzio – La pioggia nel pineto
Se devo essere del tutto onesta non amo affatto D’Annunzio (sì, sì, quest’affermazione rischia di garantirmi il linciaggio, ma come si dice…de gustibus), però devo ammettere che La pioggia nel pineto ben si addice ad introdurre la specie (anzi il genere) di cui voglio raccontarvi oggi…Il ginepro (Juniperus sp., Famiglia Cupressaceae) è un arbusto sempreverde con foglie aghiformi, fiore non appariscente e bacche blu-nere che maturano a partire dal secondo e terzo anno di vita della pianta. Si tratta di un arbusto mediterraneo spontaneo e piuttosto diffuso, che, invecchiando, può assumere forme ardite e pittoresche, fatto questo che conferisce ai gruppi di ginepri un fascino tutto particolare. Le bacche di questo arbusto (in natura cibo per merli e tordi) sono carnose, dolci ed hanno un sapore aromatico molto intenso, un po’ resinoso, ma gradevole e caratteristico. Esse sono impiegate in cucina per aromatizzare le carni e le zuppe, ma servono soprattutto per aromatizzare le grappe e per produrre degli speciali liquori, come il gin. Gli Indiani d’America usano bruciare gli aghi di ginepro come incensi e far bollire le bacche per curare i raffreddori; anche in erboristeria viene utilizzato l’olio essenziale delle bacche, che, tra le altre, ha proprietà diuretiche, depurative e tonico-digestive.
Diverse leggende ruotano intorno alla pianta del ginepro, che in greco è chiamata “arkeuthos”, dal verbo “arkéo = respingere un nemico”; essa era considerata in grado di proteggere dalle malattie e dagli spiriti maligni grazie ai suoi rami spinosi. In molti paesi vi era l’abitudine di piantare il ginepro vicino alle case e, addirittura, di colpire eventuali fessure o crepe del muro con le fronde per evitare che quei punti potessero fungere da via d’ingresso per le negatività, le malattie e gli spiriti malvagi. Angelo De Gubernatis (letterato e studioso soprattutto di problematiche sociali) racconta che nel pistoiese esisteva l’abitudine di appendere sulla porta di casa un ramo di ginepro in quanto si credeva che le streghe, alla sua vista, non potessero resistere a contare i suoi aghi; questi, però, erano molti, il che portava le malcapitate a perdere il conto e, spazientite, ad andarsene. In Germania si credeva che esistesse uno spirito benefico che portava il nome della pianta (“Frau Waccholder”); esso, se invocato con un particolare rituale, faceva sì che eventuali ladri che avevano rubato, restituissero il “bottino” al legittimo proprietario. All’origine di questa credenza vi erano i rami spinosi e contorti del ginepro, considerati capaci di bloccare la fuga del ladro. Un’usanza di origine norvegese voleva invece che alla vigilia di Natale le case venissero ornate con i rami dell’arbusto per purificare l’aria con il suo profumo. Al ginepro è stato anche attribuito il merito di aver protetto la fuga della Sacra Famiglia quando era inseguita dai soldati di Erode: si narra che Maria abbia trovato rifugio e nascondiglio fra i suoi rami e che in seguito a questo avvenimento, riconoscente, abbia benedetto l’arbusto, lo stesso che successivamente avrebbe fornito il legno per la croce di Cristo.
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Sultano dalla veste di seta…

Al genere Hibiscus (Hibiscus sp., famiglia Malvaceae) appartengono circa 300 specie di piante originarie di svariate aree, principalmente asiatiche ed africane; a seconda della specie può assumere forma arborea, arbustiva o erbacea perenne o annuale. Di diffusa coltivazione nell’area mediterranea, soprattutto come arbusto, l’ibisco presenta steli robusti, foglie scure, lucide e spesso seghettate che lo rendono ornamentale anche in assenza di fiori; sono questi ultimi, tuttavia, a destare la maggiore ammirazione: i colori accesi che li caratterizzano (bianco, rosa, giallo, rosso, salmone), le notevoli dimensioni che possono raggiungere (il diametro può arrivare fino a 15 cm) e l’eccezionalmente lunga “colonna” che porta stigmi e stami li rendono molto appariscenti. Si tratta, però, di fiori effimeri: la loro durata è di un solo giorno, ragion per cui viene loro attribuito il significato di rappresentare la “fugacità della bellezza”. Ad essere utilizzato come pianta ornamentale è soprattutto l’Hibiscus syriacus L., una specie molto rustica e resistente al freddo, con foglie decidue di colore verde chiaro e fiori di colore bianco, rosa o blu, semplici o doppi, che sbocciano dalla primavera inoltrata fino all’autunno. Adatto a climi più mediterranei è l’Hibiscus rosa-sinensis L. o ibisco cinese, pianta sempreverde dal fogliame color verde scuro brillante, lucido, di forma ovale con margine seghettato; la sua fioritura è spettacolare, con fiori di grandi dimensioni e colore rosso intenso, ma ne esistono parecchie varietà di colore giallo, viola, fucsia, striate e con macchie in colori a contrasto. In Polinesia questa specie di ibisco rappresenta un simbolo: le ragazze sono solite portarne il fiore tra i capelli, mentre i ragazzi ne appoggiano uno sull’orecchio destro se sono fidanzati, sull’orecchio sinistro se sono “liberi”; con il fiore dell’ibisco cinese viene prodotta anche una vernice nera che in Giamaica viene utilizzata per lucidare le scarpe. Con i fiori essiccati dell’Hibiscus sabdariffa L. si produce il karkadè, bevanda molto diffusa in Paesi caldi come il Nordafrica, l’India e l’America tropicale grazie alle sue proprietà dissetanti e rinfrescanti, utili durante i periodi di intensa sudorazione; è chiamato anche “tè rosso” per il suo colore, ma non contiene sostanze eccitanti come il vero tè o il caffè. In Italia la fama del karkadè ha raggiunto il suo apice durante il Fascismo, quando vigeva il divieto di consumare prodotti stranieri: l’Hibiscus sabdariffa veniva coltivato in Eritrea, che era una colonia italiana, perciò il karkadè non era considerato una merce d’importazione. Negli Stati Uniti, durante il periodo del proibizionismo, il “tè rosso” veniva servito, proprio per il suo colore, in sostituzione del vino, mentre nei Paesi in cui viene prodotto è una bevanda legata alle festività.
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Con il tempo e con la pula…

…anche la nespola matura.     Detto popolare
Il nespolo del Giappone (Eriobotrya japonica Lindl., Famiglia Rosaceae) è un piccolo albero sempreverde originario della Cina orientale e del Giappone, da cui è stato importato a metà del XVIII secolo e dove viene ancora coltivato; è diffuso negli Stati Uniti e nell’areale mediterraneo soprattutto come pianta ornamentale, mentre viene coltivato in Spagna ed in Italia. Quest’albero può raggiungere i 5-6 metri d’altezza, ha corteccia scura, rami sinuosi e chioma tondeggiante, spesso aperta ad ombrello; le foglie sono grandi (25-30 cm di lunghezza, 8-10 cm di larghezza), ovali, di colore verde scuro sulla pagina superiore e grigio-marrone e tomentose sulla pagina inferiore. In tardo autunno (novembre) inizia il periodo di fioritura, durante il quale il nespolo del Giappone produce pannocchie di fiorellini bianchi delicatamente profumati, che in primavera vengono sostituiti da frutti tondeggianti, carnosi, di colore giallo-arancione, commestibili, contenenti semi grossi con tegumento bruno.
Si può apprezzare in pieno il sapore della nespola quando è ben matura: la maturazione deve avvenire però in un luogo asciutto, lontano da frutti che emanino sostanze come l’etilene prodotto dalle mele. Tradizionalmente le nespole venivano poste sulla paglia in stanze arieggiate e non umide finché assumevano il tipico sapore vinoso dolce e venivano offerte agli ospiti con miele e acquavite. Dal frutto di quest’albero si può ricavare anche un prelibato liquore, il Nespillo, i cui ingredienti di base sono noccioli di nespola freschi, alcool e zucchero. Un tempo, per corteggiare la propria amata, era usanza che lo spasimante portasse sotto la sua finestra decorazioni di ramoscelli e frutti; l’albero da cui prenderli veniva scelto in base al valore simbolico e secondo la tradizione il nespolo (il cui nome deriva dal greco méspilon) è la pianta per la donna virtuosa. Nella tradizione contadina la nespola era considerata un frutto ricco di proprietà (in effetti è ricca di fibre, zuccheri, sali minerali, acidi organici e vitamina A); i contadini se ne servivano anche per scandire il passare delle stagioni: il nespolo, infatti, è la prima pianta a fiorire, ma i suoi frutti sono gli ultimi a maturare. Una buona fioritura di questa pianta veniva inoltre considerata come premonitrice di un ricco ed abbondante raccolto.
GLOSSARIO
Pannocchia: modo in cui viene comunemente chiamato il racemo composto. Svariate specie di piante non presentano fiori unici o isolati, ma riuniti in gruppi (infiorescenze) distribuiti su un asse (rachide); tali infiorescenze possono essere semplici o composte: tra le semplici si trova il racemo, che presenta fiori disposti singolarmente sul rachide a differente altezza e portati da peduncoli che diventano via via più brevi dal basso verso l’alto. Il racemo composto è detto appunto “pannocchia”.
Foglia tomentosa: foglia ricoperta di peli morbidi intrecciati a formare una specie di feltro.
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Scolpirsi nella memoria…

“I nati sotto il segno del Bagolaro conducono spesso una vita inconsueta ed affascinante e rimangono scolpiti nella memoria di chi gli vive accanto. Un Bagolaro non dimenticherà mai la prima scoperta, la prima avventura, la prima conquista, la prima trasgressione. I nati sotto questo segno amano brillare in società e sovente sprecano le loro energie pur di farsi notare.”          Oroscopo celtico degli alberi
Il bagolaro (Celtis australis L., famiglia Ulmaceae) è un grande albero originario dell’Asia sud-occidentale e dell’Europa meridionale; si può incontrare fino ad 800 m di altitudine e costituisce boschi in associazione con querce, aceri, noccioli, carpini ed orniello. Può raggiungere i 20 m di altezza ed il suo tronco, breve e robusto, presenta una corteccia liscia e di color grigio pallido; i rami primari sono di notevoli dimensioni, mentre quelli secondari tendono ad essere penduli. La chioma è piuttosto densa ed espansa, un po’ rotondeggiante. Le foglie sono lunghe fino a 15 cm, larghe fino a 5 e presentano un apice allungato; la pagina superiore è di colore verde intenso, mentre quella inferiore è verde-grigiastro e pubescente. I fiori, di un colore verde-giallastro, sono piccoli, senza petali e possono essere singoli oppure riuniti in piccoli grappoli all’ascella delle foglie; la fioritura avviene tra aprile e maggio. I frutti sono rotondi, simili a bacche, larghi fino ad 1 cm; dapprima presentano un colore giallo o grigio-verde chiaro, poi con la maturazione divengono scuri, quasi neri. Si tratta di una specie che riesce a vivere anche su terreni sassosi ed aridi: il robusto apparato radicale che la caratterizza penetra nelle fessure delle rocce, favorendone lo sgretolamento; da questa peculiarità è derivato uno dei nomi volgari di questo albero: “spaccasassi”. L’utilizzo del suo legno per manici di fruste sarebbe invece valso a questa pianta il nome di “bagolaro”: esso deriverebbe infatti dalla parola “bagola”, termine dialettale del nord Italia che significa, appunto, “manico”. Gli alberi di questa specie sono spesso coltivati come piante ornamentali ed utilizzati con successo nelle alberature dei viali e nei parchi cittadini, grazie al loro rapido accrescimento, alla loro resistenza all’inquinamento ed alla capacità di produrre una fitta ombra.
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…Déjà vu…

“Una volta una farfalla mezza nera e mezza gialla, si posò su una violetta senza manco salutarla, senza dirle una parola. E la viola, dispiaciuta d’esser tanto trascurata, glielo disse chiaramente: quanto sei maleducata.” Trilussa – La violetta e la farfalla
No, no, nessun dejà vù, né memoria corta da parte mia…so di avervi già parlato di viole, ma ne esistono tante specie e dunque ho deciso di raccontarvi qualcosa su quelle che ho potuto incontrare nel mio peregrinare sui monti nostrani.
La prima in cui mi sono imbattuta è stata la Viola biflora L., specie artico-alpina diffusa nelle regioni artiche di Europa, Asia ed America Settentrionale e sulle principali catene montuose dell’emisfero nord; cresce ad altitudini comprese tra 1500 e 2300 m. Si tratta di una pianta erbacea perenne che può raggiungere i 10 cm di altezza, dalle foglie reniformi con margini crenati ed evidenti nervature. I fiori, che sbocciano tra giugno ed agosto, sono simili a quelli della Viola odorosa, ma di colore giallo con striature porporine e inodori; ogni fusticino termina con due peduncoli, ciascuno dei quali porta un fiore. Questa specie predilige località umide ed ombrose tra le rupi, le alte erbe e i boschi.
Sulle nostre Alpi e sull’Appennino possiamo incontrare anche la Viola calcarata L., forse tra le viole di montagna la più notevole per la grandezza dei suoi fiori; si trova tra le rupi e nelle praterie alpine e può raggiungere i 10 cm di altezza. Le sue foglie, riunite in rosette, sono più piccole rispetto a quelle viste finora, hanno forma ovato-lanceolata e sono crenate; dal piccolo fusto si dipartono lunghi peduncoli che portano un solo fiore, solitamente di colore violetto (ma può essere anche giallo o bianco): esso è caratterizzato dalla presenza di un lungo sperone, a cui si riferisce il termine “calcarata” (dal latino “calcar” = sperone).
L’ultima specie di cui vi parlo è la Viola tricolor L., meglio nota come “viola del pensiero”, pianta erbacea perenne che può raggiungere i 15 cm di altezza e che predilige prati e pascoli mesofili e idrofili dal piano collinare al subalpino. Le sue foglie sono ovato-lanceolate con margini crenati, mentre i fiori, che sbocciano tra maggio e settembre, sono di colore variabile dal bianco al giallo e dal blu al viola scuro: essi possiedono proprietà depurative e decongestionanti per la pelle, oltre che antinfiammatorie e diuretiche (se volete provarli rivolgetevi ad un erborista, che vi saprà dare indicazioni dettagliate sul loro utilizzo e sul dosaggio).
Glossario
Specie artico-alpina: si tratta di specie comuni all’Artide ed alle Alpi, la cui individuazione risale ai periodi interglaciali. Nel corso delle ere si sono alternati, a livello globale, periodi di grandi glaciazioni e fasi di ritiro dei ghiacciai (interglaciali appunto): durante queste ultime il miglioramento del clima ha favorito la risalita verso nord e verso maggiori altitudini della flora artica e subartica diffusasi nei periodi glaciali a latitudini ed altitudini inferiori rispetto a quelle odierne.
Mesofilo: legato a moderate condizioni di umidità, temperatura e luce.
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Oh dolce violetta del pensiero…

“Così ho rimproverato la violetta audace: ladra soave, a chi rubasti quel dolce tuo profumo se non al respiro del mio amore? Il purpureo orgoglio che a color dimora sulla tua soffice corolla è ovvio che l’hai presa dalle vene del mio amore.”                                                                        W. Shakespeare – Sonetto 99
La “violetta audace” che il Bardo rimprovera non può che essere una Viola odorata, almeno a giudicare dalla ragione per cui lo fa: essa è infatti una delle poche viole, se non l’unica, ad emanare un delicato profumo. Comunemente conosciuta come “viola mammola”, la Viola odorata L. è una pianta erbacea perenne appartenente alla Famiglia delle Violaceae che può raggiungere i 15 cm di altezza; presenta stoloni striscianti che emettono radici ogni 7-13 cm e foglie di forma ovato-cordata riunite in rosette basali, da giovani maggiormente arrotondate e reniformi. Il fiore, di colore viola scuro, sboccia alla sommità di un lungo peduncolo durante i mesi di febbraio-aprile ed è costituito da una corolla di cinque petali: due superiori eretti, due laterali ed uno inferiore con sperone. Questa pianta è presente in tutta l’Europa, dove cresce fino a circa 1000 m di altitudine, ai margini dei boschi e nelle radure, ma anche lungo i greti dei torrenti, le siepi e i fossati, prediligendo posizioni ombreggiate.
Il fiore della viola è stato utilizzato in svariati modi fin dall’antichità: i Greci vi creavano ghirlande da indossare, mentre i Romani ne ricavavano una bevanda. La prima volta che Giuseppina (al secolo Joséphine Beauharnais) incontrò Napoleone gli donò un mazzetto di viole mammole, i suoi fiori preferiti, con i quali il Bonaparte fece poi adornare la sua tomba (oltre, pare, ad adottarli anche per la sua amante Maria Walewska…questo secondo il gossip d’epoca); i bonapartisti fecero poi della viola il loro fiore simbolo, in contrapposizione al giglio borbonico. Questo bel fiore, dunque, nel corso della storia ha goduto di periodi di notevole popolarità: sembra che in Inghilterra, durante il periodo vittoriano, uomini e donne avessero l’abitudine di adornarne gli abiti e portarne all’occhiello della giacca un esemplare durante la primavera; dalla Francia venivano esportate verso l’Inghilterra grandi quantità di viole, tanto che ne nacque una vera e propria “industria”, specialmente a Devon e nella parte occidentale del paese.
Sia il profumo, sia il fiore della viola mammola sono da sempre impiegati in profumeria ed in cucina: vi si producono lozioni e profumi (a tale scopo la più nota varietà di viola adottata è probabilmente la violetta di Parma) e vi si decorano dolci e cibi in generale, si realizzano decotti, sciroppi e liquori; in passato vi si aromatizzavano anche l’aceto, lo zucchero ed il patè. Se volete produrre in casa delle violette candite potete farlo usando un cucchiaio di gomma arabica in polvere, che porrete in un vasetto a chiusura ermetica e nel quale aggiungerete dell’acqua di rose, per poi lasciar sciogliere e macerare il tutto per alcuni giorni. Nel frattempo procuratevi delle viole da candire (fate attenzione a dove le raccogliete, personalmente eviterei i centri urbani e mi informerei bene sulle caratteristiche del luogo di raccolta) e quando il composto ottenuto sarà pronto utilizzatelo per ricoprirne completamente tutti i petali, stando bene attenti a non lasciare parti scoperte; cospargete di zucchero a velo e lasciate asciugare. Del tutto cristallizzate e ben asciutte, le violette candite possono essere conservate in un vaso a chiusura ermetica ed utilizzate per decorare i dolci (ho trovato questi consigli sul libro La casa naturale, di Jane Newdick).
Glossario
Pianta perenne: pianta il cui ciclo vitale (nascita, crescita, riproduzione e morte) si svolge in più di due anni.
Stolone: ramo allungato e sottile che striscia a fior di terra, emettendo dei ciuffi di radici verso il basso e delle gemme che si allungano in fusti verso l’alto; in tal modo si forma una piccola pianta che, finché non è in grado di nutrirsi da sola, viene nutrita dalla pianta madre attraverso lo stolone.
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