Tutto l’universo obbedisce all’amore.

Questo è un post anomalo. Non parla di libri o di ricette o di litigi sui social, ma di speranza, di felicità, di tenerezza, di amore. Parla di una persona speciale, della persona che rende speciale la mia vita. Una persona che ha attraversato momenti difficili, che ha sofferto immeritatamente e insensatamente, che ha pianto e lottato. Di una persona che temevo di avere perso. Di una persona che ho ritrovato, più bella e forte di prima.

Parla di un periodo che è stato uno dei più dolci della mia vita. Un periodo che paventavo, che temevo con tutta me stessa: e che, quando un’amica me ne parlava, con l’affetto brutale che solo le vere amiche possono nutrire, allontanavo da me, col terrore di un coniglietto nella tana, che guarda il diluvio e rosicchia l’ultima carota della scorta. Un periodo che si è rivelato tenero, che mi ha riportata indietro: ai risvegli soffusi, al tepore delle coperte, alle voci sussurrate soffiate accennate; agli sguardi ridenti e aperti, ai regalini che carezzano il cuore, come un pulcino ritagliato con cura nel cartoncino, e piegato in modo da farlo stare in piedi, perché mi guardi mentre dormo e mi faccia sorridere per un bel sogno.

Parla di una persona che ha saputo dimenticare il suo dolore atroce per comprarmi un orsetto di cioccolato che mi addolcisse la bocca e i pensieri, quando il terrore le divora il respiro; che mi ha accompagnata ogni sera giù per le scale, per darmi un bacio lontano dagli occhi degli altri. Che mi ha aspettata alla finestra, che mi ha sorriso fino a farmi dolere il cuore, che mi ha ceduto la sua minestra, che ha mandato giù coraggiose cucchiaiate di pastina per non farmi spaventare. Che ha deciso di portare con sé un blocco e una macchina fotografico per documentare quello che poteva essere uno dei frammenti più stranianti e dolorosi della sua vita, e che si è rivelato invece un momento costruttivo, di rinascita, di inizio.

Questo post parla di quanto sia sciocco, a volte, aver paura di qualcosa di nuovo; di quanto sia difficile fidarsi degli altri, ammettere di aver bisogno di aiuto, lasciare che una collega ci accompagni quando ne abbiamo bisogno, che ci tenga una mano sulla spalla e ci faccia segno di tacere, perché a volte troppe parole non servono. Parla di quanto faccia bene, quando si sta male, avere qualcuno che pensi a noi, che ci venga a trovare, che ci telefoni, che porti con sé una chitarra o un omino biscottino. Di quanto sia strano e liberatorio scoprire chi ci vuole davvero bene.

Questo post, come questo periodo, è solo un primo passo: e non so come sarà domani, non lo immagino e devo imparare a non cercare di figurarmelo. Devo ricordare sempre questo periodo, e quello che ci è stato detto: di non pensare, di affidarsi, di seguire la corrente, di spegnere il cervello e andare avanti.

Questo post è per la mia Ste’: per la persona speciale che mi ha resa quello che sono. Per la persona speciale che è, e che ogni giorno continua a essere. Per la fortuna, immeritata e insensata, di averla nella mia vita. Perché non dimentichi mai quanto vale, quanto la stimo, quello che provo per lei, e altre mille parole che non saprò mai dire, ma che lei saprà leggere senza che io me ne accorga.

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Momenti di trascurabile infelicità.

Quando arrivo a piazza Magione e scopro che quella Punto blu che mi è stata davanti per tutta la strada ha occupato l’ultimo posto disponibile. Quando finalmente posteggio e mi si avvicina un uomo basso e nerboruto, con la canottiera anche a gennaio, che pretende che gli paghi un dazio per aver lasciato la macchina accanto alla sua sedia. Quando vado via senza dargli niente, e lo sento biascicare insulti al mio indirizzo.

Quando arrivo in ufficio per prima, e devo cominciare ad aprire le finestre e mettere su il caffè prima ancora di accendere il pc. Quando vado via dall’ufficio per ultima e devo chiudere le finestre, controllare che non ci siano cicche accese nei posacenere e che la stampante sia spenta, anche se sono stanca e affamata e vorrei solo andare a casa.

Quando al supermercato non hanno avocado, carote baby o yogurt all’albicocca senza pezzi di frutta dentro. Quando dimentico il pranzo nel frigo dell’ufficio e devo mandar giù un’insalata di riso insipida e ghiacciata. Quando la pizza a domicilio non è calda come speravo. Quando ho assaggiato la caipiroska alla fragola dopo tanto tempo e ho scoperto che non ha più lo stesso sapore.

Quando per strada incontro un cane che mi sta simpatico e lo apostrofo dicendo Ciao, cane c’è sempre un padrone all’altro capo del guinzaglio che soggiunge Non si chiama cane oppure Si chiama Spike, e non capisce che non mi importava nulla di saperlo.

Quando vorrei accarezzare un cane simpatico ma il padrone ha un’espressione troppo altezzosa che mi blocca a sei passi di distanza. Quando sono a spasso con canenando e qualcuno prova a fargli una carezza sulla testa e lui si spaventa e inizia ad abbaiare e saltellare in cerchio. Quando un qualsiasi cane incrocia canenando mentre siamo a fare una passeggiata, e lui si spiaccica sul pavimento e non vuole muoversi più.

Quando sorrido a un senzatetto e lui mi risponde male o non mi risponde neanche, e a me manca Ife un po’ più del solito.

Quando non trovo un libro che mi soddisfi e inizio una serie di romanzi che già so che mi deluderanno. Quando finisco di leggere un libro prima di addormentarmi, ma è presto e non ho ancora sonno e non so come risolvere il problema se non pescando a caso sul kindle un libro di riserva che il giorno dopo scarterò con sdegno. Quando ho completato già tutti i giochi carini della Settimana enigmistica, parole crociate senza schema a gruppi variabili a sillabe incroci obbligati bi-triletterali, ma non voglio comprarla nuova perché ancora ci sono tanti cruciverba intonsi, ma sono quelli facilitati che mi annoiano.

Quando qualcuno visualizza un messaggio e non mi risponde. Quando mi arrivano telefonate di lavoro alle 15 di sabato. Quando uno scambio di messaggi si protrae per ore senza che ci sia niente di reale da dirsi.

Quando mia madre si lamenta perché non stiro e sostiene che i miei vestiti sembrano pezze.

Quando mi sento sola.

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Metti una sera in pizzeria.

Qualche sera fa sono stata in pizzeria. Al tavolo accanto mangiava una famiglia: due coppie di genitori sulla quarantina con caschi da moto appesi agli schienali delle sedie degli uomini e brutti tatuaggi a forma di farfalline cuori e stelline che sbirciavano dalle scollature delle donne; una ragazzina preadolescente taciturna e annoiata; una bambina sugli otto anni che ha giocato incessantemente col tablet, mandando gridolini di divertimento a intervalli regolari; una nonna con l’abito da lutto e spessi occhiali da vista. Mentre mangiavano la pizza, la nonna ha fatto un’osservazione alla bambina, che immediatamente è scoppiata a piangere. I quattro adulti si sono subito prodigati in difesa dell’inerme frignona: mentre le donne sibilavano parole di stizza (mamma, come ti permetti di parlare così alla piccola?!), gli uomini trasportavano fuori a braccia la nanetta, cercando di calmarla con carezze sui capelli e promesse di farla baloccare con il pane in pasta. L’anziana, confusa e mortificata, è rimasta in silenzio per il resto della cena; non ha ordinato il dolce, ha fissato i bicchieri con aria desolata mentre gli altri, nipote in primis, ridevano, ciarlavano, scherzavano, trangugiavano la panna cotta. Alla fine della serata la nonna ha pagato il conto, confondendosi e chiedendo aiuto a uno dei generi che, esasperato, le ha strappato di mano il borsellino. Mi sono sentita malissimo per lei: per la vecchietta che aveva invitato la famiglia fuori a cena per festeggiare qualcosa, o forse solo per passare un po’ di tempo insieme, e si è ritrovata a tacere e guardare il vuoto per aver osato rimbrottare, non so se a ragione a o torto, una bambina che, con ogni probabilità, se fosse stata solo consolata con calma e se la vicenda fosse stata minimizzata e riportata alle giuste proporzioni, avrebbe dimenticato tutto nel giro di pochi minuti.
Non so se la bambina dimenticherà questa spiacevole serata, o se la ricorderà, da adulta, con umiliazione e fastidio, come faccio io quando penso a tutte le volte che ho maltrattato i miei nonni e che alla frase Non puoi rivolgerti così, sono più grandi di te ho risposto Non per merito loro. So solo che sarebbe stato compito dei genitori spiegare che a volte gli anziani hanno punti di vista diversi dai nostri, ma che li dobbiamo rispettare e comprendere; e poi, sorridendo e facendo finta di niente, coinvolgere la nonna nella conversazione, sollecitarla ad assaggiare il parfait di mandorla, punzecchiarla dolcemente fino a farla sorridere. Sarebbe stata una perfetta integrazione del ruolo di genitore con quello di figlio: ma è più semplice scegliere un capro espiatorio, rimproverarlo, ostracizzarlo. È molto meno stancante.

Nel giro di pochi anni ho perso tre dei miei quattro nonni. L’ultimo vive ormai in un mondo tutto suo, in cui io ho un’edicola – o forse lavoro in un ufficio, a seconda dei giorni – e il suo amico Peppino è vivo, solo che si è trasferito a Milano e lui non trova il numero. Mi mancano un bel po’, i miei nonni: con loro sono cresciuta, ho imparato a parlare imitando le loro cadenze e ricalcando i loro detti, ho costruito il mio palato sui loro piatti, ho corso nei loro corridoi, giocato a campana sui loro tappeti, conosciuto le loro case meglio della mia. Il 2 novembre, a Palermo, i morti portano i regali: a me hanno portato Ranocchi sulla luna di Primo Levi, che corteggiavo da quasi un anno e che ancora non avevo avuto il coraggio di comprare. Grazie, nonni, anche per questo.

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Nomen omen.

Ho finito da poco di leggere un libro stra-bello: Stanza Letto Armadio Specchio di Emma Donoghue. L’ho incrociato per caso, forse su un gruppo di lettori su Facebook, più probabilmente digitando a caso su un motore di ricerca un frase come “libro bellobello che non ho ancora letto” o qualcosa di simile. Il romanzo ha un inizio claustrofobico, asfissiante: Jack e sua madre, Ma’, vivono dentro Stanza, rinchiusi lì da Old Nick, un uomo che Jack non ha mai visto perché, ogni volta che arriva, lui si rinchiude dentro Armadio e conta i suoi denti, aspettando che Ma’ lo tiri fuori e lo porti a dormire su Letto. Al di fuori di Stanza c’è solo Cosmo: ma Jack sa bene – glielo ha detto Ma’ – che solo quello che si trova dentro Stanza è reale: il resto è finzione, come nei libri e alla tv. Adesso, però, Jack è grande: ha sei anni e, se sarà bravo e ricorderà tutti i passaggi del piano, potrà uscire insieme a Ma’ e visitare Cosmo. Ma gli piacerà, confrontarsi con tutte quelle persone, e case e macchine e animali e sole e pioggia? E davvero Ma’ gli ha mentito per tutto questo tempo, e Stanza era soltanto un pezzetto di Cosmo, e non tutto il mondo?

Molti libri mi fanno paura, si sa; questo non me ne ha fatta neanche un po’, e certo avrebbe potuto, vista la durezza della premessa – due persone sequestrate, un carico non indifferente di violenza fisica, sessuale e psicologica, un elevato grado di tensione. Ma tutta la storia è filtrata attraverso lo sguardo di Jack, un bambino precoce e attento, curioso e scrupoloso nell’eseguire quello che gli viene indicato. Un bambino molto poco bambino, a tratti inquietante nella sua chirurgica visione di ciò che lo circonda, a tratti tenero fino all’inverosimile nella sua ansia di protezione nei confronti di Ma’. Non mi sono spaventata, ma ho trepidato e poi ho rotto l’anima a chiunque mi capitasse a tiro dicendo che bel libro stavo leggendo/avevo appena finito di leggere/avevo ormai terminato. Adesso, come sempre, sono vagamente triste: perché il libro bellobello è finito e io non ne ho un altro sottomano, e poi ho chiesto consigli ma mi sono stati dati titoli di libri quando io sto cercando IL libro, e non UN libro. Speravo di poter replicare con qualche altro romanzo della stessa autrice, ma le trame mi interessano poco: per cui brancolo con occhio vitreo nel web, inserendo Stanza Letto Armadio Specchio come chiave e cercando qualcosa che gli si avvicini per affinità tematica o stilistica. Intanto ho ripiegato su un giallo, scialbo e insipido, che non so nemmeno se finirò.

Stanza Letto Armadio Specchio è anche una splendida riflessione su quanto conti dare un nome alle cose; da persona che ha sempre amato poco il proprio nome – forse anche non-brutto, di per sé, ma poco adatto a me – sono sempre andata in cerca di definizioni: che siano i soprannomi con cui vengo chiamata da amici e parenti o lo stato civile o la qualifica professionale, qualunque cosa mi aiuti a delineare me-nel-mondo è gradita: anche “la sorellina del BuffoCaneGiallo”, per dire. Persino Facebook ci ha messo lo zampino, imponendomi di togliere il nickname che mi ero cucita addosso: ma va bene così, in fondo.

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Scritto sul corpo.

In questi giorni ha trovato spazio sui giornali l’ennesima polemica sul corpo delle donne; Michela Murgia, scrittrice che peraltro non amo, si è lamentata per l’esibizione, sulla copertina di una rivista femminile, della foto di una modella dal fisico molto snello. In uno scambio serrato di post, cinguettii e commenti con la direttrice del periodico e con blogger e banali fustigatori feisbucchiani, la ragazza è stata eletta a metro di una femminilità da aborrire, da non proporre come esempio ad altri, da stigmatizzare. Al netto della querelle, dal mio punto di vista abbastanza sterile, la domanda è sempre la stessa: perché una donna non ha il diritto di mostrare il suo corpo, quale che sia?

Da anni, ormai, è di moda criticare le ragazze dal fisico esile: si va dall’attacco insulso e rabbioso (ma mangia qualcosa!) alla critica moraleggiante (non voglio che le mie figlie emulino quel modello di donna), dal malinteso senso di responsabilità (la taglia 38 non è normale, qualcuno aiuti quella ragazza) al motteggio pseudo-medico (quel corpo è malato, dovrebbe farsi curare). I tempi passano, i canoni di bellezza ciclicamente si alternano: le maggiorate sono nuovamente in auge, e della cosa m’importa il giusto. Ma perché nessuno si preoccupa della salute delle donne in sovrappeso, a cominciare dalla Murgia stessa, che esibisce, a voler essere buoni, una ventina di chili di troppo? Perché nessuno sente il bisogno di chiederle di dimagrire, per non sfornare generazioni di ragazzine diabetiche e votate all’infarto, grassocce nel tentativo di imitare la loro scrittrice del cuore? Perché, con un atteggiamento che avrei potuto comprendere nelle mie nonne, cresciute in tempo di guerra, le forme prosperose devono essere considerate automaticamente un emblema di sana e robusta costituzione? Un tempo, a scuola, ci è stato insegnato a non deridere i ragazzini rotondetti: se qualcuno di noi apostrofava Giuseppe dandogli del ciccione, la maestra lo redarguiva con energia. C’era un sottotesto che recitava che, poverino, non era colpa sua se era grasso: dovevamo far finta di niente. Per i magri, invece, vige la regola contraria: sei sottile perché non mangi, è una tua scelta, e per questo posso rovesciarti addosso tutti i miei improperi. Non vuoi essere criticato? Ingrassa! Persino una persona che stimo molto e a cui voglio molto bene – e che mi ha ricattata fino a farmi scrivere questo post – ha dato dello scheletro vestito alla modella da cui è partito tutto. Perché? Chi è molto magro non sempre lo ha scelto: forse ha problemi alimentari, forse mangia molto ma non ingrassa, forse ha un metabolismo molto rapido. O forse, molto più semplicemente, si piace così: e non è affatto in cattiva salute, a meno che i suoi esami non mostrino squilibri di qualche tipo. E in ogni caso, sarebbe solo un problema suo: o forse ci sentiamo in diritto di aggredire chiunque beva un bicchiere di vino, per evitare che i figli ci diventino ubriaconi per emulazione? Davvero pensiamo che una persona anoressica lo sia perché vuole corrispondere a un canone di bellezza esterno? Perché il corpo di una persona in carne è solo il suo corpo, mentre quello di una persona snella è una minaccia verso il mondo, un modello proposto ad altri, una dichiarazione d’intenti?

Sono stata cresciuta nell’idea che non si debba mai giudicare o criticare qualcuno per il suo aspetto: pensavo che questo valesse per tutti, grassi e magri, alti e bassi, belli e brutti. La prossima volta risponderò brutto ciccione a chi dà del mucchio d’ossa a una donna da lui considerata troppo magra: vediamo che ne pensa. Se si offende, potrò sempre dire che mi preoccupo per la sua salute.

Svincolato dal post, un consiglio di lettura: è bello e intenso Verrai a trovarmi d’inverno di Cristiana Alicata. Ci sono dentro tante forme di amore, quello appagante, quello incompleto, quello totalizzante, quello filiale. Una bella scoperta, di una piccola casa editrice che pochi conoscono ma che meriterebbe attenzione.

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Dove vanno le anatre di Central Park quando il laghetto gela?

Quando ero bambina, ero convinta che da grande sarei stata un’atleta; guardavo in tv le gare di ginnastica artistica – all’epoca non c’erano i programmi televisivi in cui sedicenni atteggiate a donne fatte mostrano alla nazione i propri allenamenti alla trave -, mi beavo di salti e volteggi, avevo una bambola del cuore dal corpo di pezza che viveva in tuta (ovvero, priva dello splendido vestitino a fiori in dotazione) per potersi esibire in spaccate e verticali. Andavo in palestra, mi impegnavo molto, partecipavo a gare e concorsi; poi, a un tratto, ho sentito crac, e il piede destro ha iniziato a farmi male. Saltavo e avevo dolore, correvo e avevo dolore, balzavo sulla pedana e avevo dolore, e anche paura. Ho lasciato la ginnastica artistica, ho iniziato a fare atletica; saltavo ostacoli, zompavo nella buca della sabbia, calpestavo il teflon su cui molti anni prima si era allenato Pietro Mennea e il dolore non spariva.

Intanto ero cresciuta, avevo appena iniziato il liceo, vedevo ortopedici più spesso che gelatai e finalmente uno di loro, non-bravo come tutti i precedenti ma più onesto, mi ha consigliato di farmi visitare fuori, al nord. Due mesi dopo ero in una camera di ospedale, avevo una gamba ingessata, venti punti e la promessa che il dolore sarebbe passato. Avevo anche un comodino, nella stanzetta verdolina: era Le strade di Jessica di Angelo Petrosino, un romanzo simpatico per ragazzine che mia zia mi aveva regalato, soprattutto perché ambientato a Torino, la gelida città che mi ha vista quell’unica volta e di cui non conosco neanche la Mole. Mi è piaciuto molto, mi ha tenuto compagnia in aereo, mentre planavo dolorante su Palermo, e poi a casa, mentre studiavo il modo per dormire con un arto che si gonfiava a dismisura non appena chiudevo gli occhi. Mi hanno regalato anche, in quell’occasione, un classico – che, come tale, ho odiato – della letteratura americana: Il giovane Holden, di cui ricordo solo noiose elucubrazioni su anatre e povertà. Uno dei libri mi è rimasto nel cuore, l’ho riletto molte volte anche da adulta, l’altro è finito presto nel calderone dei dimenticabili. Una cosa, però, mi è stata chiara: non puoi affrontare un momento potenzialmente stressante, un esame un concorso un intervento o un parto, senza il libro adatto: che ti coccoli, ti tenga compagnia, ti faccia sentire speciale.

Per ora il mio livello di stress è abbastanza alto, e non ho il libro che cerco: sto leggendo con poco interesse L’ora del tè di Alexander Mc Call Smith, un giallo gradevole ma con poco ritmo e molte ripetizioni, alternandolo con Prendimi di Lisa Gardner, autrice che di solito mi piace molto ma che questa volta non sta riuscendo a farmi entrare nel vivo della storia; sono frustrante e sbuffante: non è il momento per i libri scialbi e opachi. Un consiglio è gradito.

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È colpa dei geni.

Tra le parti che mi piacciono di più del mio lavoro, a pari merito con le gite alla posta e gli autori che mi regalano libri o piante o dolciumi, c’è quella che comprende istruire e formare dei mini-me: le nanette del mio cuore, le piccole instancabili lavoratrici della sala riunioni, le stagiste. Una variante, più variopinta ma purtroppo meno curata – nel senso che ho meno tempo per curarle – sono le volontarie dei festival che organizziamo: volenterose, infaticabili, a volte precise fino alla pignoleria, altre pasticcione e buffe, ma senza cui non potremmo mai (mai!) tenere insieme quei baracconi con libri e stand ed editori che ci piacciono tanto. Da sempre, tra i miei compiti in caso di festival – oltre alla cura del sito internet e dei social media – c’è il potere indiscusso e dittatoriale sulle volontarie: mi devono devozione e obbedienza, in cambio del mio amore incondizionato e della possibilità di stringere la mano a Francesco Piccolo. Ormai, dopo anni di tentativi, ho perfezionato la tecnica, che prevede riunioni brevi e intense nel pre-festival, coinvolgimento di tutte durante il montaggio, orari bilanciati e ben distribuiti per ciascuna (aspetta, no, non posso mettere F. di sera, non guida, e G. va sistemata insieme a C., che abitano vicine e vengono insieme; U. può fare tutte le mattine, mentre I. solo la sera), giro di controllo prima di ogni turno, istruzioni semplici e comprensibili (prendi tutte queste sedie e portale laggiù, adesso) e tanto affetto. Adesso, dopo mesi di tempo, abbiamo organizzato un pomeriggio con le volontarie: una torta e una mare di chiacchiere con le piccole preziose nanette. Abbiamo parlato loro di corsi e di lavoro, loro ci hanno parlato di vacanze e di esami all’Università, abbiamo finito per discutere di libri: cosa stanno leggendo al momento, cosa vorrebbero non aver mai letto, cosa non si può non leggere. Inspiegabilmente – o forse bluffano, chissà, – sono tutte appassionate di classici, e mi hanno coperta di contumelie – incuranti del fatto che la prossima volta, per ripicca, assegnerò loro turni impossibili – quando ho ammesso di non aver mai letto Madame Bovary. Tra gridolini di sorpresa e occhiate di finto compatimento, hanno urlacchiato in coro che non è possibile, devo subito colmare questa lacuna, sono disposte a regalarmelo, a leggermelo a voce alta, a farne un cd da farmi ascoltare in macchina; e allora Anna Karenina, e Guerra e pace, e L’idiota? Sconsolate, sono andate via con la faccia sporca di sciroppo di frutti di bosco, scuotendo la testa per il disappunto. La sera, ho chiesto a mia madre se lo avesse mai letto: mi ha risposto che no, mai, mamma mia, m’ammoscia. Ecco spiegato tutto: sono geneticamente predisposta all’odio per i classici.

Questo post è un regalo di compleanno per una persona speciale. Spero che le piaccia: a me sta piacendo molto il libro che mi ha consigliato, L’ora di pietra di Margherita Oggero, sul quale avevo non pochi preconcetti (gli altri libri dell’autrice mi avevano lasciata un po’ fredda). E invece è intenso e coinvolgente, oltre che languidamente triste, di quella mestizia di quando sai che non avresti potuto fare altrimenti. Auguri, laMate.

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Libri da compagnia.

Che non leggo soltanto librimpegnati, librinoiosi e librifighi con cui fare bella figura alle cene si sa già. Che amo le serie televisive stupide, con intrecci romantici e sciocche sottotrame sentimentali si sa pure. E che, quando non riesco a pensare, l’unica cosa che so fare è leggere è anche questa una verità consolidata. Per questo sono entrata nel tunnel dei gialli di James Patterson delle donne del club omicidi. È successo per caso: in estate, spesso vengono abbinati libri ai giornali; io di solito leggo laRepubblica, che ogni anno propone gialli e/o noir, la maggior parte dei quali ho già letto o ho scartato in precedenza perché non mi interessavano. Ma quando, una manciata di giorni fa, è stato proposto Le testimoni del club omicidi, ho pensato di provare a leggerlo; l’ho iniziato e finito in una notte: mi ha tenuto compagnia in un momento difficile e mi ha intrigata al punto da farmi cercare su internet qualche notizia in più sull’autore: che, ho scoperto, è tra i più venduti negli Stati Uniti. Ho scoperto anche che il libro è il dodicesimo di una serie: da lì, procurarmi gli altri undici è stata solo questione di tempo.

I libri di Patterson – spesso scritti in coppia con altri, ma il nome grande in copertina è il suo, va’ a sapere perché – sono pieni di brio, di colpi di scena e di situazioni per nulla credibili. C’è una protagonista, Lindasy, tenente della omicidi di San Francisco, e ci sono le sue amiche: un medico legale, una giornalista, un procuratore distrettuale. E poi ci sono serial killer sanguinari, orridi delitti, sparatorie a mai finire, intervallate da passeggiate col cane Martha, storie d’amore più o meno durature, serate da Susie’s a bere margarita. Quel genere di libri che ti fanno invidiare i personaggi per quello che hanno: un lavoro avvincente, molti amici sempre disponibili, un cane che sa andare al passo senza guinzaglio, qualcuno che spara loro addosso senza fare troppo danno. La serie perfetta per tenere compagnia, con discrezione e assiduità: senza ridondanti descrizioni, senza la richiesta di sforzi di memoria o di fantasia, senza inghippi o cadute di ritmo. Come una fiction tv, in cui sai che comunque la protagonista riuscirà a rotolare su un fianco all’ultimo momento, schivando i colpi di pistola e riuscendo a consegnare alla giustizia il cattivo che, per qualche strano motivo, in realtà ha fatto quel che ha fatto perché ce l’aveva con lei, proprio con lei, in maniera assurdamente personale, anche se nel frattempo ha fatto fuori altre sette persone che c’entravano poco o nulla.

In Italia, per motivi a me ignoti, la serie è praticamente sconosciuta. La pubblica Longanesi e le affibbia delle copertine di insopprimibile bruttezza, che danno l’impressione dei classici libri da spiaggia o da aeroporto, da scorrere e dimenticare su una sdraio. Invece non sono niente male, davvero.

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Di Pf, degli F, del futuro e di altro ancora.

Pf non è ancora un bimbo, ma presto lo sarà: è un patatino-in-pectore, una promessa di bambinità, un futurobambino. Pf ancora non ha un nome: ma sua madre e suo padre si chiamano F, e quindi lui è Pf di diritto. Pf è un maschietto, per ora, solo per comodità e per artificio linguistico: forse sarà una Pf, chissà. Pf ancora non ha viso mani piedi, ma ho già da parte per lui un pacchettino di affetto che gli consegnerò appena lo vedrò.

Pf è il futurobambino degli F, e già per questo è fortunato: perché sua madre è una persona intelligente e dolce e sensibile, ed è amica mia, e questo non guasta, e suo padre è un uomo pratico e sicuro di sé e concreto, e anche lui è amico mio, e anche questo non guasta. Pf è il primo futurobambino di cui conosco bene i genitori: a differenza di Pagnottino, che mi è vicino solo in maniera obliqua, e di Generico, che è un piccolissimo esponente della famiglia, ma di quel lato con cui ci si vede raramente e in occasioni che sconfinano col formale, Pf nascerà in un contesto che mi è familiare, in una casa che ho visto cambiare, evolvere, nascere nella sua nuova gioiosa forma e riempirsi di lampade e poltrone verdi e grandi divani e faretti da fornello e librerie su misura; potrò immaginare Pf – posso già immaginarlo – in una stanza in cui sono entrata, alla fine di un corridoio che ho percorso; passando sotto il palazzo con la macchina, al ritorno dal lavoro, potrò guardare verso la finestra e pensare ecco, Pf dorme, o mangia o gioca o ride, a seconda dell’orario e del temperamento che avrà.
Pf avrà due genitori che conosco, a cui sono affezionata, che ho visto crescere: soprattutto sua madre, di cui gli potrò dire
me la ricordo quando aveva diciott’anni e si faceva fare i dread nel giardinetto dell’università, frase che potrà tornargli utile ogni volta che si vedrà contestare un look o un taglio di capelli non omologati. Vivrà con persone che ho visto imparare ad amarsi, diventare coppia in una calda estate palermitana in cui le casse di birra erano l’unico sedile ammesso e i gabbiani volavano un po’ troppo vicini ai capelli, e poi sposarsi e ipotizzare la presenza di un Pf e renderlo concreto, tangibile, vero.

Pf è il primo bambino la cui imminente nascita mi è stata annunciata dai genitori, e non da parenti o affini o altri, con la consegna di tacere e fare la faccia stupita quando mi fosse stato detto ufficialmente: no, dell’arrivo di Pf me l’hanno detto gli F, in una sera ancora mite di giugno, sul nostro divano rossiccio, con in mano un bicchiere di succo di mirtillo, e per l’emozione ho perso una pantofola. Lo avevamo avvertito, l’arrivo di Pf, qualche giorno prima della comunicazione: quando avevo detto alla Gio’ sai che è successo? e lei aveva risposto F aspetta un bambino? e non c’era alcun motivo di pensarlo ma in realtà era davvero così.

Pf avrà uno dei nomi che abbiamo ipotizzato una sera a cena, o forse ne avrà un altro diverso, e sarà bello e adatto a lui e gli calzerà a pennello: ma per me rimarrà Pf, il figlio degli F, il bimbopiccolo a cui auguro un cuore pieno del sole di questi giorni, e gli occhi pieni di mare e cielo azzurro e sorrisi.

La F mi ha chiesto che libro inserirò, a corredo di questo post; il sempiterno Storie di primogeniti e figli unici di Francesco Piccolo, che in questo caso mi sembra davvero adeguato.

Il libro sul tagliere si prende una settimana di pausa: lo so, laMate, sbufferai, ma.

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Crescere.

Una persona che mi conosce bene mi dice spesso che sono cambiata: sei cambiata, lo sai?; non lo dice con astio o allarme, ma con compiacimento: sei cambiata, mi dice, sei cresciuta. A trentadue anni?, rispondo io. Sì, mi dice lei: hai messo da parte tante stronzate. Chissà se crescere è questo, penso: mettere da parte le stronzate.

Stronzate, in realtà, ne ho ancora molte, moltissime: paure immotivate (il mostro del corridoio mi sbranerà prima che arrivi al letto?), dubbi logoranti (Mirella si sarà divertita stamattina? Avremmo dovuto procurare più fenicotteri?), sensi di colpa lancinanti (perché non ho dato a Ife un sacchetto più grande di pomodori secchi?), tempo perso in calcoli e programmi e schemi mentali (se uso l’ultima fetta di prosciutto per la torta salata cosa metto domani nei sandwich? E se per cena preparo pasta col tonno, domani posso mettere a tavola la pasta all’insalata? È il caso di spazzare di nuovo in bagno, o lascio perdere e ci penso tra mezz’ora?). Occupano molta parte del mio tempo, delle mie energie, del mio spazio mentale; mi impegnano, mi stancano. È vero pure, però, che di qualcuna penso di essermi liberata: dell’abitudine di mettere i puntini sulle i, per esempio; la stramaledetta consuetudine di correggere, emendare, uniformare alla mia idea di ordine tutto quello che mi circonda, compresi pensieri e parole altrui. Forse sono queste, le stronzate di cui dovrei fare a meno: tutte quelle che mi rendono contratta, dura, tirata, una pallina da squash in viaggio verso il muro e pronta a parare il colpo chiudendomi a pugno.

Mi sono spesso chiesta cosa significhi davvero crescere: forse, appunto, saper essere flessibili, abbandonare le rigidità per adattarsi alla vita; prendere quello che viene, non con rassegnazione ma con sorridente spavalderia, con allegra voglia di dimostrare che, accidenti, neanche questa volta siamo schiantati al suolo come asinelli sotto il basto. Cercare di ricordare che gli altri esistono: non solo come contorno del nostro show personale, ma con problemi e dubbi e dolori; spostare lo sguardo, da dentro a fuori: passare da adolescenti autocentrati ad adulti consapevoli, pazienti, rasserenanti, capaci di ascoltare e soprattutto di ricordare, di chiedere, di forzare con delicata tenacia il silenzio altrui. Mettere da parte qualche critica, qualche battuta acida, qualche commento sarcastico: tacere, sorridere, incoraggiare. Guidare, lasciarsi guidare: avere fiducia in sé, avere fiducia negli altri. Avere delle idee, dei principi, dei valori per i quali valga la pena di battersi: ma, per il resto, firmare un armistizio col mondo, mettere fine alla guerra da sedicenni io-contro-tutti. Fermarsi a respirare, guardare il cielo, alzare le spalle, andare avanti.

Per crescere, anche a trentadue anni, servono amore, buon esempio e molti libri. Ho appena iniziato Cosa resta di noi di Giampaolo Simi, di cui ho amato La notte alle mie spalle; speriamo di fare il bis.

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