Da quando sono nata, ho a che fare con la disabilità; non ne faccio un vanto né una missione, né lo considero un argomento di conversazione particolarmente brillante o necessario, o un vessillo da appuntare sulla prora della mia vita: infatti, delle persone che abitualmente mi sono intorno, solo una minima percentuale ne è a conoscenza. Proprio a causa di questa lunga e costante frequentazione con la disabilità, tendo a notarla poco o per niente, e a privarla dell’assurda aura di sacralità che di solito la investe. Non trovo niente di strano nel fare una battuta che prenda in giro un disabile, né nel chiamare ‘carrozzato’ qualcuno che viva su una sedia a rotelle: nella stessa misura in cui Ife era per me un barbonchio, e non un senzatetto o senza dimora o come diamine il politicamente corretto ci abbia chiesto di dire. Non penso che trattare un disabile con pietismo o con atteggiamento da genitore compassionevole abbia alcun senso: o meglio, penso che se fossi io la disabile e qualcuno lo facesse con me, diverrei una belva.
Sono una grande appassionata di sport: in questo momento sono in corso le Paralimpiadi a Rio e, come e quando posso, le sbircio. Come sempre, la scherma e il nuoto e il ciclismo mi annoiano molto, quindi cerco di incrociare qualche gara di atletica o qualche sessione di tiro con l’arco, oltre al mio amato sollevamento pesi. Ho visto atleti bravissimi: grande tattica nella finale di pallacanestro femminile, rapidità e precisione nelle eliminatorie del salto in lungo, straordinaria forza e tecnica nella gara di sollevamento pesi. Ho visto allenatori incoraggianti o rigidi e inflessibili, travolgenti scene di gioia da parte dei vincitori, lacrime di rabbia e sconforto e frustrazione versate da chi è rimasto fuori dal podio. Ho visto, poi, i commenti sui social: tutti ugualmente roboanti e altisonanti, a lode della grandezza morale e del grande esempio umano dato dagli atleti paralimpici. Mi sono cadute le braccia: ma come, questi ragazzi si spaccano il culo dalla mattina alla sera per salire su un podio olimpico e voi lodate i loro valori morali? Vorrei leggere parole di ammirazione per i bicipiti d’acciaio di Alex Zanardi, e non per il suo atteggiamento o il suo coraggio; vorrei che qualcuno che ne capisce di scherma mi dicesse che Bebe Vio ha sferrato la sua stoccata con rapidità e grande prontezza di riflessi, piuttosto che commentare il suo sorriso o la sua grande forza interiore. Vorrei che fossero trattati da atleti quali sono, e non da disabili: categoria da mischiniare e a cui rivolgere uno sguardo benevolo venato di sottile, disgustosa superiorità; vorrei che si smettesse di paragonare gli atleti paralimpici ai calciatori vantandone la superiorità morale, che la si piantasse di acclamarli come ‘gli unici che possono salvare l’Italia’ e di proporli a cariche politiche o istituzionali. Che si avesse per loro il rispetto di vederli nella loro interezza, con pregi e difetti, sottolineando gli eventuali errori, spronandoli a lavorare sui propri punti deboli. Che smettessero di essere visti solo come dei malati, e iniziassero a essere delle persone.
Continuo a essere impantanata nel sadismo di “Dobbiamo trovarla” di Lisa Gardner; mi sta spaventando molto, piacendo moderatamente, cominciando un poco ad annoiare.
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