(Continua il viaggio nel cinema western contaminato con le arti marziali. Il saggio completo in eBook gratuito lo trovate qui)
Nel dicembre del 1973 Mario Caiano porta in sala il primo vero esempio italiano di western marziale: Il mio nome è Shanghai Joe (anche se le locandine dell’epoca riportano la scritta “Shangay”). L’attore improvvisato che veste i panni del guerriero cinese, Chen Lee, è molto lontano dalla qualità di Lo Lieh (si dice anzi che fu reclutato in una palestra romana!) e dopo alcuni film italiani sembra aver abbandonato il mondo del cinema.
È la storia classica di un emigrante straniero (cinese, in questo caso) che cerca un onesto lavoro nel Far West ma incappa in un bieco boss locale che sfrutta il lavoro dei poveri braccianti. Il cinese non è tipo da farsi sfruttare e reagisce alle provocazioni, tanto che viene spiccato un mandato di cattura per quello che viene battezzato Shanghai Joe. Ma quale cacciatore di taglie (come Klaus Kinski) o sceriffo saprà battere il kung fu del cinese?
Aiutato dallo stupendo tema musicale di Bruno Nicolai – che non fa molta fatica, in quanto ripropone pressoché identico il suo tema di Buon funerale, amigos!… paga Sartana (1970) – Il mio nome è Shanghai Joe piace, anche perché è violento proprio come vuole il pubblico: molto più dei veri film di Hong Kong. In un momento di incredibile citazionismo, Shanghai Joe cava gli occhi a un cacciatore di taglie, rifacendosi palesemente a quel Cinque dita di violenza che ancora spopola al cinema. E poi un attore di nome Chen Lee attira, vista la forte vicinanza con il nome di Bruce Lee e il suo personaggio più noto (Chen, appunto): chi gli ha scelto il nome posticcio, sapeva quel che faceva. Lo dimostra il fatto che quando pochi mesi dopo esce nelle sale “The Blind Boxer” con il titolo Dopo l’urlo un uragano di violenza («Per assistere a questo film ci vuole un cuore a prova di bomba!» recita il lancio della sua uscita nel maggio 1974) il nome di Chen Lee viene attribuito posticciamente al bravo Jason Pai Piao.
Intanto, finita la parentesi dei Tre Supermen, Bitto Albertini prende in mano l’idea di un sequel del cinese nel Far West. Il ritorno di Shanghai Joe, conosciuto anche come Che botte ragazzi! (titolo con cui è stato recentemente distribuito in DVD), arriva nel febbraio del 1975 ma, a parte la presenza di un Klaus Kinski in forma splendida, non c’è più nulla del film precedente. A partire da Chen Lie che, con l’aggiunta di una “i” nel cognome, si scopre essere un attore ancora peggiore del precedente Lee.
Quando in un paesino di poveri agricoltori viene trovato il petrolio, iniziano i guai. Il boss locale Barnes (Klaus Kinski) controlla la criminalità della zona e vuole mettere le mani sul petrolio, ma non ha fatto i conti con uno straniero appena giunto in città: un cinese di nome Shanghai Joe (Chen Lie).
Siamo lontani dagli occhi estirpati o dai tori uccisi con un colpo di kung fu del primo film, in questo sequel vige ormai la regola dei film con Bud Spencer e Terence Hill: botte sì, ma con umorismo così da stemperare. Con l’aggiunta del caratterista Tommy Polgár, infatti, nel sequel si crea una coppia d’azione pressoché identica a quella di Spencer-Hill: il piccoletto sveglio e l’omaccione spacca-tutto.
(alla prossima puntata)