Ci allontaniamo di alcuni metri, inoltrandoci nel sentiero circondato da corbezzoli. Arrivati a un certo punto, che ricordavo dalla precedente escursione, chiedo al gruppetto di osservare la roccia di fronte a noi. Voglio tentare un esperimento, simile al test delle macchie di Rorschach.
Nel blocco di granito che sovrasta un breve strapiombo, S. vede la stessa cosa che vedo io, un avvoltoio appollaiato. G. e M., invece, vedono un elefante.
Alle nostre vigorose proteste, M. si mette in precario equilibrio su uno spuntone di roccia, più in alto, per osservare da un altro punto di vista il nostro avvoltoio. Col suo plaid frangiato piegato e buttato sulla spalla come un poncho, magro e dinoccolato com’è, sembra il Clint Eastwood del Marghine, sghignazzo. Continuando a litigare sulle forme animali, rientriamo verso la Tomba.
Altre verifiche con la bussola, sopra l’ingresso e davanti all’esedra. Sempre lo stesso risultato: il nord continua a variare di 30°, avanti e indietro. Foto del betile aniconico e dei focolari, che sono stati usati recentemente per qualche spuntino.
Senza dire nulla, M. stende il suo plaid sotto la volta del bassissimo ingresso, ed entra carponi. Avanza di poco e subito dopo io lo seguo. Quindi è la volta di G. e poi di S., che ha riposto la macchina fotografica e la bussola nello zaino, là fuori.
Ci alziamo in piedi, facciamo un giro su noi stessi per guardarci attorno, poi ci sediamo. Tutti e quattro, sul plaid piegato, davanti all’ingresso, da cui filtra la luce.
Appena fuori dell’ingresso, abbiamo lasciato occhiali, orologi, anelli, braccialetti, tutti gli oggetti metallici che avevamo addosso. Dapprima, osserviamo distrattamente i graffiti dei soliti fessacchiotti. Ci sentiamo protetti, come in un guscio senza tempo. Sempre con un tono di voce sommesso, parliamo di nostre impressioni, di cose avvenute nel passato.
Poi la mia amica G. si lamenta del freddo, non sente più le mani. S. ride, lui invece sente molto caldo. Le sue mani sono caldissime. Allora le impone su quelle di G. Sotto la guida di M., le mani di S. funzionano meglio di un termoforo a sabbia.
G. sorride, si rinfranca, ride di cuore insieme a me, quando M., nel guidare S., gli fa cambiare posizione dei palmi delle mani e lo rimprovera: “Attento, sennò così mi bruci la donna!”
Dopo alcuni contorcimenti e manovre per evitare di cavarci un occhio o pestarci gli alluci, dato lo spazio ristretto – M. puntualizza che, tecnicamente, la nostra si chiama ammucchiata – G. ed io ci scambiamo di posto.
È il mio turno al termoforo, ridacchio. Ero diffidente, ma devo ricredermi. Percepisco distintamente il calore che emana da S..
Dopo un po’, su indicazione di M., impone le mani sul mio ginocchio matto. Pochi minuti, e il ginocchio sembra voler prendere fuoco.
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