Gli spettatori delle stragi

Da che mondo è mondo di memoria labile, occorrono anniversari per fare il punto su orrori e vittorie. Il grigio che sta in mezzo figura perlopiù come indifferenza riempita di segnali, gesti, apparizioni atroci che innescano bombe fisiche e vergogne. Il grigio della sagoma opaca di chi ha diretto e assistito alla strage della “Morvillo Falcone” di Brindisi è il buio che cala sullo spettatore un secondo prima delle scene. Ciò non significa restare e resistere inermi, provare per forza noia passiva o affogare nello sgomento di un’altra giornata appassita. Significa anzitutto osservare e provare ad affrancarsi da quel grigio.

Lo stesso vale per il calcolatore delle ossessioni, il mandante ed esecutore di una fine collettiva, quella maceria indelebile contro i giusti che oggi, 23 maggio, anch’io ricordo tornando a un pomeriggio in cortile. A una sfida a palla prigioniera, con i colpi sul portone del negozio di biciclette violenti e serrati, da bulli, ma senza vendetta.

Poi la notizia urlata dalla finestra, la voragine di Capaci e quel silenzio che iniziava a calare sulle teste sudate senza reale coscienza, più immobile di qualsiasi altro lutto indotto da commemorazioni pubbliche. Eravamo spettatori seduti l’uno di fronte all’altro con i tagli alle ginocchia e nessuna distanza dalla ripetizione a catena delle immagini sull’autostrada deflagrata.

Lo spettatore è l’apparizione durante e dopo il fatto, posa la palla ignaro e corre in casa. Ma può anche erompere da dietro un chiosco con una telecamera puntata a sua insaputa, e da lì innescare la rabbia contro addomi imberbi. Serve allora coprirsi, mettersi in salvo. Serve il disagio del non fiatare più, serve un’ennesima volta il poeta ammiraglio che confronta quel che lo spettatore ha solo osservato:

«Dopo ogni guerra

c’è chi deve ripulire.

In fondo un po’ d’ordine

da solo non si fa.

 

C’è chi deve spingere le macerie

ai bordi delle strade

per far passare

i carri pieni di cadaveri.

 

C’è chi deve sprofondare

nella melma e nella cenere,

tra le molle dei divani letto,

le schegge di vetro

e gli stracci insanguinati.

[…]

C’è chi, con la scopa in mano,

ricorda ancora com’era.

C’è chi ascolta

annuendo con la testa non mozzata.

[…]

Chi sapeva

di che si trattava,

deve far posto a quelli

che ne sanno poco.

E meno di poco.

E infine assolutamente nulla.

 

Sull’erba che ha ricoperto

le cause e gli effetti,

c’è chi deve starsene disteso

con una spiga tra i denti,

perso a fissare le nuvole».

 

Wislawa Szymborska, da La fine e l’inizio

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Il Karamazov di Brie ha il sorriso dei bambini

Nella ricerca degli universali spesso fatica a trovare giustificazione un teatro di partiture fisiche e relazioni che evocano i colori della vita in uno spazio che cambia restringendosi o dilatandosi. E quando lo spunto viene dalla Russia, dai vertici di Dostoevskij e da quel principio di nostalgia che è rifugio di un popolo e delle sue tradizioni, allora l’esito è ancora più a rischio di genericità. La prova esistenziale e filosofica sottesa a I fratelli Karamazov si innesta sull’ascesa impervia del suo autore alla catarsi della fede passando attraverso tradimenti, colpe di padri e figli, riscosse violente, vendette e risentimenti feroci dentro un linguaggio che non risparmia la prostrazione degli innocenti.

Ritornano allora alla memoria la macchia di sangue che ossessiona Raskolnikov in Delitto e castigo o l’inestricabilità del rapporto tra l’uomo e le sue azioni più sordide in Ricordi dal sottosuolo, con quell’insistenza sulla caduta volontaria nel dolore cupo e irrazionale del sentirsi inadeguati. Ben distante è la chiave registica abbracciata dall’argentino César Brie – formatosi alla scuola dell’Odin Teatret di Eugenio Barba e fuggito dalla Bolivia per aver messo in scena nel 2006 Otra vez Marcelo sul tema dei desaparecidos – che coraggiosamente declina la degradazione umana e la sua discesa agli inferi dostoevskijani in una tragedia illuminata dal respiro di un coro di giovani.

Dopo un lavoro di netta riduzione drammaturgica fino a un copione basato sul principio della sintesi poetica, battute istantanee riassumono interi monologhi liberando I fratelli Karamazov dal solco pericoloso del Grande Inquisitore e smascherando il più possibile l’umano nella sua abiezione o purezza infantile attraverso pose e canti leggeri.

Una sfida che implica l’esporsi brechtiano e continuo degli attori a vista anche fuori dal recinto della scena descritta da un tappeto che si solleva e altera i confini. Ognuno attraversa un’immagine, interpreta uno o più personaggi che si moltiplicano per effetto di coreografie di gesti, cornici di dialogo e racconto di quel che avviene secondo un uso mai individuale, ma sempre collettivo di musiche e oggetti di scena. Emblematica l’infilata di grucce a forma di croce che si fanno presto tombe e ganci cui è appeso il destino comune, mostrato più volte con il gusto della farsa o di una certa goffaggine grottesca e a tratti caricaturale.

Le braccia si tendono come le note del piano che accompagna le smanie per il piacere di padre Fëdor, brutalmente assassinato per i suoi incurabili cedimenti, o il male d’amore accecante di Dmitrij, suo primo figlio, la sete rabbiosa di vendetta di Smerdjakov, il figlio illegittimo che nello sbattere le uova racconta il tremore dell’epilessia, e infine i ragionevoli dubbi del serioso Ivan contro l’ingenuità degli occhi di Aleksej, gli ultimi due Karamazov. Ai margini, al di là di panchine rovesciate simili al giro inverso e talvolta incomprensibile della sacralità, si alternano figure come il monaco Starets e Iluša, il bambino-pupazzo brutalizzato nel tentativo di difendere il padre dalle umiliazioni.

Allo sguardo di Brie proprio l’infanzia incarna il terreno comune da cui tutto proviene: bene e male abitano una catena di eventi narrati preservando il diritto di pietà ed esaltando il ruolo della memoria come salvezza finale nel rito funebre che destina alla scena solo altri pupazzi monito di massacri. L’incanto che il teatro concede allora come promessa di equivoci da sciogliere, convenzione e falso che si rende vero in un’adesione senza compromessi, si fa anche eredità di nature che sbocciano da testimoni e combattenti instancabili.

Quegli universali tanto ricercati e ammessi nella lotta tra i dogmi della fede e la compassione, quel grido scomposto e ricomposto da Dostoevskij in fiumi di pagine colme degli oscuri più tetri della mente, diventano il riscatto in qualche modo primordiale di un regista che predilige il corpo a corpo di una tela intima, vitale, più spesso inno d’amore che non indagine stratificata. Eppure, si avverte nella freschezza del segno e dell’abbraccio degli amanti magrittiani col volto coperto, come di tutte le altre personalità in rapida sequenza, la perdita dell’occasione di una drammaturgia convincente attorno alla parola di Dostoevskij. La versione russa esce infatti più simile a un antagonista letterario che non a un accattivante spettro di riscrittura o strumento per far lievitare dialoghi e aforismi rendendosi coprotagonista di una sincera e intensa polifonia.

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RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE?

Il principio della Resistenza intesa come movimento e parola sovrana di testimoni, rivolta prima interiore, canone di battaglie ai vertici che decimano e hanno decimato. Nella convenzione teatrale la stessa Resistenza genera riletture, intrecci di citazioni malamente accordate in drammaturgie pressoché inesistenti. Se poi il tema è la memoria della guerra, allora si finisce per esorbitare in strilli, coreografie, pose sceniche e mimiche che mettono a repentaglio il pur denso materiale dei diari di chi con la carne ha voluto essere ricordato a testa alta.

Proprio la misura che al combattente e condannato si impone involontariamente dovrebbe mantenersi salda, imprimere un’estetica comune alle visioni registiche e interpretazioni che di parole e macerie fanno feticci isolati, prove umane messe al bando da e per l’oblio più spettacolare.

Basta infatti una sola morte nota a solleticare pietas prima inesistenti in insospettabili luoghi teatrali o teatralizzati e imbevuti di ricorrenze che diventano recital di sangue e impotenza. I veleni delle industrie, i patrioti delle famiglie, gli agguati mediorientali e i partigiani che tremolano sopra i bastoni sono solo alcuni ingredienti possibili di una resistenza contaminata fuori e dentro la scena. E allora sembrano ancora più necessarie le cronache dei grandi che se ne vanno, i memoires non ancora scalfiti e sopravvissuti agli eroi dello schiamazzo. Quei messaggeri quasi divini di una rabbia contraria alla gestazione del potere e ai suoi agganci.

Le loro scritture orali, i loro inchiostri senza per forza dirsi autori o partigiani, ma gladiatori silenti di un tempo, potranno essere riletti alla luce del giorno, lontani da invenzioni e trucchi, e più simili a resistenze estranee al riavvolgimento delle coscienze. Perché nulla dovrebbe essere costretto, dimostrato in fatto di resistenze, ma liberamente testimoniato per secondo, terzo, millesimo passaggio di voce. La parola insufflata del resistente va ripulita dal plauso generico e fatta verso, nel senso di rigo poetico che ammette lo sguardo di fronte a sé e alla propria fine scelta con incomprensibile serenità e predestinazione del coraggio d’esserci.

Resistente è anche il poeta, che in quel movimento dato dalla storia e dalle sue secche, muore senza più essere attore agli occhi di chi non lo riconosceva nemmeno quand’era in scena. Serve cioè “Resistere, resistere, resistere” sul Piave della critica che commemora ma non ci crede, sull’ultimo letto sfatto e inciso dall’artista ritirato, sulla panca povera che fa parlare i gesti della libertà bella senza sacrifici d’esibizione.

 

 

«[…] Vediamo ciò che vediamo

e vedere è mutare

la luce che avvizzisce una montagna

e lascia in vita un uomo

Il pulsar batte come un cuore

il cuore che si fa strada a fatica nel mio corpo

[…]

Ho resistito per tutta la vita

al centro della traiettoria di una batteria di segnali

le trasmissioni più precise i più

indecifrabili linguaggi dell’universo

[…]

Sono uno strumento sotto forma

di una donna che tenta di tradurre pulsazioni

in immagini per il sollievo del corpo

e la ricostruzione della mente.»

Adrienne Rich, Planetario

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DENTRO LA GABBIA DI SHAKESPEARE

 

Agli occhi di un ingenuo o di un sapiente, la verbalità carnale e contemporanea di Shakespeare è molteplice e ininterrotta, un pezzo di realtà direbbe Peter Brook. Una volta in più se ne resta convinti osservando Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani. Sceneggiatura, regia e montaggio si ispirano al Giulio Cesare di Shakespeare senza che si senta la mancanza di una presa di posizione più ideologica di quanto già non faccia la metafora sanguinolenta e torrida della tragedia. L’ala del carcere di massima sicurezza di Rebibbia e i suoi attori detenuti se ne assumono i ruoli partecipando a uno dei tanti laboratori teatrali che prevede anzitutto un provino, una presentazione di sé e del proprio nome in due situazioni differenti di pianto e rabbia. Nessuna reazione è mai vigliacca, ma la chiara premessa di una compagnia che ha già un capocomico tra gli ergastolani, uno che alla fine confesserà di aver conosciuto l’arte e sentito da allora il peso della cella come prigione.

Il cerchio è squarciato in apertura proprio dalla messinscena finale, dalla presentazione dell’esito del laboratorio con tanto di costumi e implorazione di Bruto perché qualcuno tra i congiurati lo aiuti a uccidersi. Poi si torna indietro, agli occhi che ragionano di follia e rimorso mentre il rosso delle tuniche, i corpi massicci e i dialetti si mescolano levando alto il grido collettivo della gabbia. E infine si replicano le scene, mentre gli attori detenuti rimettono piede tra le proprie pareti di isolamento sprangate dagli agenti, serrate in ogni parte e vernice verde delle finestrelle. Il tiranno Cesare, che approfitta della parte per rivendicare a un compagno maldicenze sentite dire alle sue spalle, spezza per poco la sovrapposizione voluta dall’inizio alla fine tra la finzione delle prove in pellicola bianco e nera e la sequenza dura delle vite, i giorni di malumore dopo i colloqui con i famigliari. Un’improvvisa rottura del ritmo, necessaria al senso di realtà quanto all’immedesimazione in linea con quel motivo di musica per sax forte negli occhi di Cassio, il capocomico, come nell’inquadratura di finestre e griglie da cui si racconta la folla ottusa di Roma antica e odierna. I luoghi veritieri vengono sorpassati dalla corrispondenza con l’oggi e dal bisogno di tornare alle arti per liberare l’umano dal proprio crimine.

Oltre i luoghi, ecco la rimonta odiosa del potere tradito e sconfitto proseguire imperterrita quanto la presunzione della vendetta più cruenta e inutile. Le armi dei corpi tatuati e flaccidi, degli sguardi faticosamente silenti, delle cariche rabbiose e represse, delle ferite placate con le regole. Cesare deve morire sceglie la platea della pellicola per ricordare chi siamo in vesti scomode di scena e moralità, perché solo il teatro con la sua anima precaria e universale sa ammettere gli orrori dietro le sbarre più comuni. Le sa nascondere e poi sfoderare nei propositi di una comunità che respira la stessa aria fetida e crede di vincere il male con la morte. Nessuna vittoria di fatto nella serpe che esce e abusa a sua volta del diritto di fine, nessun compimento per Bruto che colpisce con uguale cecità e con la scusa del bene di tutti. Nel mucchio, quello della gabbia invisibile se non alle cronache di ripetuti suicidi c’è ancora posto per un palcoscenico fedele alla finestra di chi potrebbe ripetere gli errori dell’impero lontano.

Ed è allora sempre più necessario che risuoni che «l’abuso della grandezza si ha quando si divide la pietà dal potere», poiché «è una verità di esperienza che l’umiltà serve da scala all’ambizione ancora giovane e chi sale rivolge ad essa il volto, ma giunto all’ultimo gradino, figge gli occhi nelle nubi disdegnando gli umili gradini per cui salì.»

 

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«Ho già te, mamma»

 

Scegliere di donarsi semplicemente come madre o restituire una responsabilità ereditata come figlia: qual è la giusta regola? E, se ne esiste una, quale atto di coraggio superiore all’accettare un suicidio volontario? Con ’night, Mother Marsha Norman vinse il Pulitzer nell’ormai lontanissimo 1983, quando ancora poco si discuteva del diritto al possesso pieno della propria esistenza. L’AIDS era la nuova epidemia straripante dai copioni e dibattiti di gender sollevati da Kushner, la vergogna degli omosessuali, il male e lo scatto di proibizioni di un’America WASP.

In quel clima Norman sceglie di raccontare da vicino, perché ne conosce i segni più riposti, la notte più lunga di una madre, Thelma, e sua figlia Jessie, sole a combattere dentro la programmata fine di quest’ultima con un colpo di pistola. Tutto si svolge due ore prima del burrone definitivo, bramato a senso unico da Jessie, malata di epilessia da anni con un matrimonio fallito alle spalle e una carrellata di giorni in balia di crisi improvvise. Neppure il pensiero di Ricky, il figlio, la fa desistere: insiste piuttosto a volersi liberare di giornate identiche e inadatte al miglioramento. La speranza ha fallito, la malattia ha corroso fino a riesumare solo il bisogno di pace assoluta, e il gesto dovrà essere rapido e preciso come per spegnere il cicaleccio della radio. Il potere decisivo di un istante con l’arma del padre e dei proiettili freschi.

Quel che resta tra le cicatrici, raggrumato come memoria, è allora il grido del sangue, il non detto che da convulso e umiliante come l’epilessia deve tornare cristallino e diretto prima del viaggio. Così, all’opposto, la madre si ostina più che mai a voler vivere anche se di abitudini e televisione. Sa di essere attaccata alle cose, come al corpo inerte di una bambina adulta troppo spesso cascata a terra e bisognosa d’essere ripulita e rivestita ogni volta.

In Italia si dà finalmente nuova luce a questo copione capace di lasciare aperto un varco dopo più di vent’anni di barricate ottuse e movimenti per la vita che negano diritti. Dopo le mirabili prove teatrali con Kathy Bathes e Anne Pitoniak, Brenda Blethyn ed Edie Falco, come pure del film con Sissy Spacek e Anne Bancroft, ora ci provano Ariella Reggio e Marcela Serli con la regia di Serena Sinigaglia. Un interno pensato magistralmente da Maria Spazzi tra pareti dipinte a cielo magrittiano attorno al ring di una casa sempre più vuota, predisposta alla partenza preannunciata. «Non è necessario che le cose siano vere per poterne parlare» osa replicare a metà la madre. Le scuse, le moine affettuose, il corteggiamento insperato e goffo del suo corpo stanco che vorrebbe incatenare per sempre la figlia a quella vita svuotata, non possono nulla contro una lista che Jessie continua a rileggere. L’elenco del bucato e dei gusti di caramelle, i nomi di chi si occuperà di tutto dopo, l’ordine delle azioni da svolgere prima e dopo il funerale.

Il duo Reggio-Serli è in reale combattimento e coinvolgimento, quello temuto da certi critici per non lasciarsi affliggere e ammantarsi di una spocchia allergica al dolore dello spirito. Resistono invece forti quegli equilibri di leggerezze gravi tra cioccolate senza più sapore e amori maldestri che la regia sa muovere sul filo di vecchi ricordi, senza facili nostalgie. Due attrici intense, in ascolto reciproco per servire tensioni mai verticali, ma spaesate e brutali nella verità che solo la morte inietta.

da giovedì 8 a domenica 11 marzo – ore 20.45, domenica ore 16.00

 

La Contrada – Teatro Stabile di Trieste

Buonanotte mamma

di Marsha Norman / traduzione Laura Curino / con Ariella Reggio e Marcela Serli / regia Serena Sinigaglia / scene Maria Spazzi

Teatro Ringhiera Via Boifava, 17 – 20142 Milano

 

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IL PROSCENIO DELLA MEMORIA

Le ragioni della memoria, il dibattito incrociato sui regimi e il loro primato di nefandezze, la griglia degli impotenti disprezzati e torchiati fino allo stremo dalla banalità del male. Coloro che non hanno retto il peso della propria intelligenza e si sono gettati lungo la tromba delle scale. La sagoma della nave mostro sospesa sull’acqua prima d’essere sommersa e mai salvata coi corpi di chi ha ceduto il posto di salvezza. Il regista greco “poeta della storia” che finisce travolto da una moto nel cuore della civiltà dopo che il regista video-artista ha mobilitato camionette per il diritto a una messinscena sul volto cristiano.
Tutto ha una memoria che incombe e fa scena, le scarpe dei deportati non smettono l’orrore necessario nella sacralità di un anniversario che sembra avere gonfi sostenitori nei social network dotati di megafono per dare lezioni di storia israelo-palestinese a chi non ne ha bisogno. E se, invece, a questa scena servisse più il tacere del gridare? Se lo spettatore invocasse per una volta il diritto a guardare dentro la sua finestra e sospendere gli alterchi seppur parzialmente doverosi?
Nessuno dei deportati con o senza elezione ha scelto di morire, nessuno ha invocato una scena da memoriale. Eppure, quando si inaugurano cantieri della Shoah alla presenza di governatori e direttori di quotidiani, il gelo dei discorsi tronfi scritti da chissà quali mani svuota e serve altre urla anonime. I protagonisti del proscenio scartano l’opportunità del silenzio sopra le teste incanutite delle famiglie rimaste a piangere alla finestra. A loro, alla loro secondarietà imposta dalla crisi e dalle manovre vanno i diritti dei documentari con cui giovani blogger faranno forse carriera, vanno gli anni carichi sulle spalle di altri offesi che quel silenzio lo vorrebbero recitare in prima linea e più volte durante l’anno, senza assistere all’abitudine opaca del 27 gennaio.
Inutile ergersi a difesa di Israele, se non si accenna alla carne degli arabi con cui condividono il sacrificio della terra, inutile e presuntuoso calcare le assi delle tivù e dei controcanti di protesta, se non si ha mai conosciuto la perdita e con essa l’ammutinamento di qualsiasi ricordo. Inutile dare il libro nero di tutte le stragi siberiane, armeno-curde, vietnamite, di Sabra-Chatila e di ogni altro Afghanistan irrorato di massacro, se non si riesce a stare in silenzio per ricordare. Perdere la memoria non è soltanto sinonimo di un decadimento della vecchiaia o di una facile diagnosi. Significa smettere di affacciarsi ogni giorno alla finestra per un diritto di ossa strozzate da mille invadenti lezioni sui negazionismi più criminali, da allievi svogliati che del binario 21 sentono solo la puzza di muffa e gelo e non la ferita incisa in una cerniera di numeri su braccia raggrinzite.

Ci dovrebbe essere un solo posto in scena, quello dei diari in forma di versi, dei versi in forma di canti, dei canti in forma di silenzio. Per quell’anima sempre e per sempre ammessa dal poeta. Solo così la memoria riabita il proprio proscenio.

Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
D’un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
Appiattati così come vecchia brace
Nel camino. Il ricordo sarà la vampa
Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.

N.Ginzburg

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DESDEMONA E LE ALTRE

I drammi del tempo, si dice troppo spesso concentrando in un unico stereotipo il ritratto della tentazione epidemica femminile. Femmine come delizie che popolano i governi, femmine come canne che anziché piegarsi al vento lo rivoltano in tempesta, femmine come intercettazioni che dimostrano il gioco delle parti. Qualche sera fa ho assistito a una messinscena dell’Otello dove si è volutamente dispersa qualsiasi contestualizzazione shakespeariana per far aderire il volto di Desdemona a un pavimento di tango. Riquadri scenici alla Vettriano, tavolini da milonga e fisarmoniche pronte a suggellare le dilatazioni più drammatiche. Un’esplicita dichiarazione che proverebbe a unire la morte del personaggio all’ossessione filmica di Bertolucci.
Nessun contatto, in realtà, tra le due versioni se non lo sgretolarsi di tutte quelle coperture, a parte e facciate da cui riesumare un briciolo di integrità morale appare una fatica impensabile e risolta con la violenza che uccide. La stanza di Brando e Schneider coltiva l’insistenza, il calco fisico che consuma, quanto la carne tonante di Otello si fa a pezzi in un soffio di maldicenze ben presenti alle nostre tragedie domestiche. E in quel sospetto elisabettiano passato di mano in mano i padroni che uccidono oggi in casa non affidano ad alcun Iago la responsabilità di una trama nascosta. Oggi più che mai è tanto suggestivo, quanto ferocemente inconsistente sopprimere il flagello di Desdemona in una danza. Poetico il suo arrestarsi nelle volute sensuali, ma improbabile da ammettersi se il confronto è con le altre di cui Desdemona stessa sembra portare il peso e rischiare a Shakespeare l’accusa di aver scritto un tragedia inferiore ad Amleto.
Le altre che non servono alla letteratura, ma al teatro per rendere la consistenza universale della realtà:  le quattro pareti allora cadono inesorabilmente di fronte alla lista di vittime senza Iago, ma con Otello feroce di palmo e carnefice che imbratta le città con l’odio represso, che sfonda cassonetti in cui getta corpi femminili già martoriati. Perché non tentare questa strada? Perché non lasciare a Desdemona, per una volta, almeno l’ultima vera rabbia del male più vergognoso?

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BARRICADERI PER FINTA

Quel che non muore, si rilegge. Il principio della replica, del valore inesausto del provare, ritentare ed essere più fortunati. La folla degli slogan che si rovescia sulle teste bisognose di uno spettacolo e di un’arena scenica per ritrovare nella convenzione e riproduzione uno schema paradossalmente ben più vivo del pollice alzato dentro le piazze virtuali.

Molto spesso gli snobismi, ma anche le pose più naturali dei teatranti tengono a sottolineare che il valore unico del metterci la faccia consiste nell’opera viva. E da lì la stessa idea di piazza o arena non assomiglia più a un abito da sera incrostato di formalità, ma a un’opportunità. Un’idea che ammette d’essere riproducibile, eppure coinvolge versi, mimiche, respiri, sudori e risa circoscritte ma avvertite. Non sommesse o semplicemente immaginate. Non evocate, né inerti, ma trascinate nel vortice che i palchi scoperchiano per chiunque, senza distinzioni.

Diventa talmente semplice ampliare la replica viva a riflessioni più larghe sull’intelligenza, sull’immobilità dei governi e delle tecnocrazie, sulle marce in avanti e indietro fino all’ultima goccia di guerra. E non solo o non ancora per il pane. Di primavere se ne attendono troppe e l’eccesso guida la rivolta con l’ancora dell’occhio velato dalla massa, con il barrito di attori che si assommano gli uni agli altri credendosi più scaltri e risoluti. Con i pugni alzati contro le razze e i meticci che non vogliamo essere.

Di fatto, non è ancora tempo per muoversi davvero oltre il costone di tutte le iniquità che arroventano pensiero e coscienza, ma resta in scena l’agone che il 14 agosto 1943 scriveva:

«I mali di cui soffrono attualmente nonché gli italiani ma gli europei, vengono in massima parte dal che essi restringono l’idea della vita e del mondo entro la cerchia dei propri consanguinei, dal che non mandano lo sguardo oltre la barriera delle proprie abitudini quotidiane, delle proprie conoscenze, delle proprie cognizioni: egoismo, meschinismo, iniquità, settarismo, grettezza mentale e il corollario di queste qualità, cioè a dire la malvagità accompagnata dal suo sottoprodotto la crudeltà, e la disposizione di nuocere al prossimo senza scrupoli né rimorsi, anzi con certo quale intimo convincimento che nocendo al prossimo si benefica se stessi e “i suoi”

[…]

La guerra che attualmente strazia più continenti nasce sì dalla rivalità tra popoli in istato di sviluppo e popoli in istato di stasi o anche di decadimento, nasce da rivalità commerciali, nasce dalla necessità di una più equa ripartizione delle materie prime, nasce da opposizione di ideologie, nasce dal bisogno che hanno certi popoli di territori più vasti e più ricchi, ma nasce pure, nasce “soprattutto” da questo meschino ed egoistico racchiudere la propria mente entro la cerchia “familiare”, ossia dall’immiserimento e restringimento del concetto “nazione”».

Alberto Savinio, Sorte dell’Europa

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Rompere le righe, in memoria di Christa

Da tempo mi domando se sia congenito ai teatranti il voler spezzare una linea continua, interrompere il silenzio. Se basti il ritenersi sufficientemente liberi e coerenti per essere ricordati, e se il lecito e l’illecito delle convinzioni si sposino davvero con esiti rivoluzionari. A queste domande Christa Wolf ha risposto in più versioni. Da saggista e drammaturga, da testimone dell’inutilità dannosa, mortale di un muro alzato con residui di ideologie mutilate e tra i mali dell’aver creduto sino in fondo.

A volte, si piange troppo a lungo credendo che il non esistere possa essere il vessillo migliore, eppure le identità di Christa hanno manifestato il contrario: il desiderio della resistenza, pur nella frustrazione dell’incedere. Il passato non serve a guarire, ma a rimestare, e il presente raccoglie le confessioni e i cori delle stesse tragedie. Non c’è come smettere di piangere, per non abitare più da nessuna parte e sentirsi infermi, indifferenti solo per pochi secondi a quello scorrere delle scene che Cassandra scolpiva in flash back senza ritorno vitale. Vincono solo gli scatti a un certo punto, e il dire ammutolisce per infiniti secondi.

«Se a tentoni oggi vado a ritroso lungo il filo della vita, che è arrotolato dentro di me; salto la guerra, un blocco nero; lentamente, con nostalgia giungo a ritroso agli anni di prima della guerra; al tempo del sacerdozio, un blocco bianco; sempre più a ritroso: alla fanciulla – e poi resto impigliata nella parola, la fanciulla, e ancor più mi impiglio innanzitutto nella sua figura. Nell’immagine bella. Sono stata sempre legata più alle immagini che alle parole, è singolare e in contraddizione con la mia funzione, che però non posso più adempire. In ultimo ci sarà un’immagine, non una parola. Prima delle immagini le parole muoiono.»

Ma una voce ritorna e la sua contraddizione si riapre, si scortica nell’impatto con la testimonianza dell’aver avvistato prima degli altri. Il pianto secca e il teatrante fa i conti con la stessa giacca e il rumore di fondo di soluzioni mancate. L’essere appesi e il toccare il fondo, l’ammonirsi e assolversi nello stesso momento per paura della fine identica che spetta agli amanti giudicati e ai corpi insepolti.

«Faccio la prova del dolore. Come il medico punge un arto per verificare se è insensibile, così io pungo la memoria. Prima che moriamo, può darsi che muoia il dolore. Se così fosse, questo sarebbe da raccontare, ma a chi? Qui nessuno, se non quelli che moriranno con me, parla la mia lingua. Faccio la prova del dolore e penso agli addii, ciascuno fu diverso. Alla fine ci riconoscevamo dalla coscienza che si trattava di un addio. Talora alzavamo solo lievemente la mano. Talora ci abbracciavamo.»

Davvero tutto è demandato a un addio? Davvero si scommette su un’alzata di mano? Forse basta per allentare un po’ il filo, ma c’è da risolvere altro prima. Prima del riconoscersi amanti o simili, teatranti o vicini di scritture, c’è la rottura delle righe. La guerra che si può e si deve combattere perché altro sale scenda dagli occhi e colmi le labbra di un’umanità che insiste per non rimanere afflitta per sempre. La giacca è lacera, ma serve armarsi o addolcirsi con le partiture di qualche testimone crollato sempre troppo rapidamente.

«Io mi permisi qualche previsione e un pochino di caparbietà. Caparbietà, non coraggio. Da quanto non penso ai vecchi tempi. È vero: la morte imminente rimette in moto tutta la vita. Dieci anni di guerra. Furono lunghi abbastanza da far dimenticare completamente come nacque la guerra. Durante la guerra si pensa solo a come andrà a finire. E si rimanda la vita. Quando sono in molti a fare così, dentro di noi nasce lo spazio vuoto dove si rovescia la guerra. Che anch’io all’inizio mi abbandonassi alla sensazione di vivere in quella fase solo provvisoriamente; di avere ancora davanti la vera realtà; che mi lasciassi sfuggire la vita: questo mi dispiace più di tutto.»

Per Christa, per la tua strada verso la fortezza.

 

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THE HISTORY BOYS: CODICI O CHICCHE?

«Appoggia, amore, il tuo capo assonnato umano sul mio braccio infedele», recita Lullaby di Wystan Hugh Auden. E dalla scorsa settimana, da quando finalmente ho potuto assistere alla ripresa di The history boys al Teatro dell’Elfo di Milano, queste parole sono state in qualche modo ripescate e restituite a molti destinatari. Un pubblico solenne o ignaro, una platea mondiale che del testo di Alan Bennett avrà colto certo l’affilata ironia inglese e la inevitabile goffaggine cui qualsiasi resa italiana andrebbe incontro nell’affrontarla, masticarla e riproporla sui palcoscenici.

Eppure, The history boys in versione casalinga e non Broadway, sa incidere profondamente nell’ascolto più pervicace delle sue sottigliezze. Sfilano manie e ossessioni di linguaggio che le traduzioni non sanno e, in fondo, non possono davvero ammettere con identico convincimento e con loro le vite di una classe in lizza per il college. L’atmosfera più goliardicamente british de L’attimo fuggente di Weir con un professore, Hector (l’irresistibile Elio De Capitani), che sentenzia per annullare le sentenze.

Una libera scherma di corpi e giovanilismi con lo strascico di un’insolenza ben resa dalle mosse spaccone degli attori, dalle fobie del neo arrivato insegnante di storia Irwin (il bravo Marco Cacciola) o dalle rigidità sputate dalle morali di cui è tanto facile farsi beffe e poi servirsene per far carriera.

La voce grossa del preside, spesso in eccesso di foga, è di fatto un pendant inevitabile nella visione complessiva di un copione che sembra scritto al millimetro e ricorda i cinismi più arguti e divertiti de La sovrana lettrice o La cerimonia del massaggio. Quel che il teatro in più smaschera dello stile di Bennett sono le identità all’apparenza forbite e ammirate, le passioni e vanaglorie machiste, le perversioni del maestro verso l’allievo fresco di scoperte e l’ombra grigia dell’inconsistenza cui le citazioni alte spesso vanno incontro per consolare lo spirito. E davvero con Hector si discute se siano codici o chicche quegli insegnamenti spinti all’estremo per negare qualsiasi regola e lasciare libere letteratura, arti e celebri filosofie di scavarsi tane per l’eternità.

Ci si immerge allora quasi senza volontà nelle disquisizioni cucite e subito alleggerite da sketch in cui gli allievi sfidano il professore a indovinare la sequenza di un film. La rottura avviene solo con lo scoppio della verità oltre l’aula chiusa, con le nevrosi di Irwin e della sua soffocata omosessualità o semplice passione per la bellezza di Dakin (l’efficace Angelo Di Genio).

All’apparenza tutto è davvero sfrontato, una volta di più il linguaggio, che si infiltra nei margini e decreta sia il rischio dell’astrazione, sia la supremazia indomabile di sarcasmi e tragedie intime su cui rare volte calano abbandono e silenzio. Verrebbe da poggiare davvero il capo sul braccio infedele del poeta, perché nulla è più infedele e al tempo stesso vivido di una scrittura teatrale che scalfisce se stessa.

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