I migliori film del 2014

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Il 2014 è stato, cinematograficamente, un anno pieno d’amore. Amori teneri e liberatori. Amori tormentati e sofferti. Amori tossici, amori salvifici, amori non convenzionali. Amori capaci di risolvere crisi e imprevisti. Amori che soffocano e annientano. Amori sterili. Amori obnubilanti. Amori per un estraneo, per la propria metà, per la famiglia, per se stessi. Amori, nonostante tutto:
Ma noi ci amiamo ancora, vero?
Certo. È la cosa che ci riesce meglio.
(Mommy, Xavier Dolan, 2014)

1. Lei di Spike Jonze (USA). In un prossimo futuro, il mite Theodore (Joaquin Phoenix, performance ammaliante) si innamora di Samantha (la sola voce di Scarlett Johannson), sistema operativo di nuovissima generazione in grado di parlare, pensare e interagire come un essere umano. Sulla carta, l’ultima opera del geniale e visionario Spike Jonze avrebbe potuto essere un bizzarro film di fantascienza o un apologo sull’alienazione dell’uomo moderno in un mondo iper-tecnologicizzato. Non è così. Grazie a una scrittura di sorprendente finezza e misura, Jonze evita ogni banalità sociologica e ogni deriva moralistica per tessere la più bella, originale storia d’amore dell’ultimo decennio. Theodore e Samantha infatti imparano a conoscersi, diventano complici, si innamorano follemente e teneramente, si scontrano, diventano estranei, si lasciano, seguendo una parabola comune alla maggior parte delle avventure romantiche. Come quella, ormai giunta al capolinea, tra Theodore e l’adorata ex moglie, il cui ricordo irrompe spesso nelle malinconiche giornate del protagonista. Una presenza incorporea e un’assenza assolutamente fisica, dunque, che si alternano e si sovrappongono fino quasi a confondersi in un’unica emozionante, intensa incursione in quella che, ci ricorda il film, è “la sola forma di follia socialmente consentita”.

2. boyhood2. Boyhood di Richard Linklater (USA). C’è uno spaccato di Storia contemporanea, in questo “Boyhood”: le Torri Gemelle, Bush, la Guerra in Iraq, la gloriosa campagna del “Yes We Can” obamiano del 2008. C’è anche un pezzo della nostra storia quotidiana: i costumi, i consumi, le mode, le auto, le numerosissime canzoni che scandiscono la narrazione. Ci sono soprattutto quattro storie private, ordinarie: quelle di una normale famiglia americana, una tra le tante, i cui componenti crescono, cambiano, ingrassano, si tagliano i capelli, invecchiano. Con la sua celebre trilogia “Before Sunrise/Sunset/Midnight” Richard Linklater aveva già dimostrato di essere abile nel catturare su pellicola delle impressioni di realtà. Con “Boyhood”, progetto titanico, girato in 12 anni consecutivi con gli stessi attori e la stessa troupe, dimostra di saper catturare e mettere in scena delle impressioni di vita: un’impresa non da poco. Basti pensare al pianto disarmante di una madre ormai matura che confessa “pensavo di avere più tempo”. Oppure ancora allo splendido finale in cui il giovane protagonista, divenuto uomo, si affaccia alla vita carico di aspettative, sogni, speranze. Allarga il cuore.

3. le meraviglie3. Le meraviglie di Alice Rohrwacher (Italia, Svizzera, Germania). Dopo l’exploit di “Corpo celeste”, delicata avventura di un giovane corpo in (tras)formazione, la regista Alice Rohrwacher ripercorre la memoria della propria adolescenza per trasfigurarla sullo schermo in una fiaba di magico lirismo. Una fiaba costruita però sulla polvere e il sudore, la fatica del lavoro in campagna e le emozioni sottaciute, le tenerezze e le asperità di un padre amorevole e tirannico allo stesso tempo. Di colpo, inaspettato, irrompe il luccichio grossier e patinato della televisione, con le sue luci colorate e le scenografie di cartapesta, a solleticare i sogni di evasione, trasgressione e libertà della protagonista. Qualcosa si rompe, ineluttabilmente: la realtà fittizia dello spettacolo illumina in una nuova prospettiva quell’universo agreste così insolito e arcaico, rendendolo lontano, estinto, fantasmatico. Un cortocircuito straniante, che l’autrice sa sintetizzare con efficacia in sequenze poetiche di grande suggestione, metafora di un mondo (e un territorio) destinato a scomparire. Di certo, l’estro visivo non manca, ma è la capacità di sondare con profondità e maturità di sguardo gli smottamenti dell’animo umano, fuggendo scorciatoie narrative e tradendo facili aspettative, a rendere il cinema della Rohrwacher così intimo, personale e prezioso.

4. Mommy di Xavier Dolan (Canada). Xavier Dolan ha venticinque anni, cinque regie all’attivo e innumerevoli partecipazioni a Festival internazionali in curriculum. Il suo precedente, imperfetto “Tom à la ferme” (inedito in Italia) era intriso di un tale inquietante fascino da farne una vera folgorazione cinematografica. Quest’ultimo “Mommy” forse non è attraversato dallo stesso fremito, ma è senz’altro il lavoro più maturo di questo giovane veterano della Settima Arte. Maturo, per esempio, nello scompigliare giocosamente le regole di montaggio e di illuminazione (si pensi alla bellissima fotografia iper-satura di André Turpin, che a un certo punto s’inventa addirittura un black-out). Maturo nell’adottare con spregiudicatezza il kitsch quale cifra stilistica d’elezione, tracciando i confini di un’estetica eccessiva, bulimica, debordante. Maturo, soprattutto, nel giocare liberamente con il formato delle immagini: sembra infatti impossibile immaginare “Mommy” senza quello schermo quadrato che incornicia e ingabbia i protagonisti (su tutti, una Anne Dorval mostruosa e irresistibile), per poi allargarsi a concedere un po’ di respiro e di nuovo stringersi intorno a loro, costringendoli (anche fisicamente) nelle loro vite d’inferno. Una scelta brillante e coraggiosa, che fa di Dolan uno dei registi più interessanti dei nostri giorni.

5. alabama monroe5. Alabama Monroe – Una storia d’amore di Felix van Groeningen (Belgio, Paesi Bassi). Premiato a Berlino, ai César francesi, al Tribeca di New York e in pole position agli ultimi Oscar (alla fine la spuntò Sorrentino), “Alabama Monroe” è la più toccante, inattesa, fulminante sorpresa dello scorso anno cinematografico. Un piccolo film belga che mette in scena, al ritmo di bluegrass, la (de)costruzione di un amore: il suonatore di banjo Didier e la tatuatrice scanzonata Elise si conoscono, si piacciono, si amano, mettono al mondo una bambina. Poi la malattia irrompe spietata nelle loro vite: la lotta, la perdita, il lutto, la sfida atroce della vita che continua. Richiamando alla mente la pudica vitalità del delicatissimo “La guerra è dichiarata” e le sonorità country di “Walk the Line”, Felix van Groeningen realizza un melodramma intenso, straziante e mai retorico, che ripercorre la parabola dei suoi protagonisti muovendosi liberamente nel tempo, alternando senza soluzione di continuità le smanie focose dell’innamoramento ai piccoli gesti di una quotidianità svuotata di significato, impossibile da sopportare. “Will the Circle Be Unbroken?” viene chiesto, in musica, sui titoli di testa. La risposta è affidata a un finale intelligentemente aperto, doloroso e lieve allo stesso tempo.

6. frances ha6. Frances Ha di Noah Baumbach (USA). Autore di riferimento del cinema indie, sofisticato e modaiolo, Noah Baumbach aggiunge alla sua filmografia il ritratto di un altro personaggio eccentrico, lunatico e vulnerabile, colto nel mezzo di una crisi spiazzante. Ma a differenza del precedente “Greenberg”, “Frances Ha” evita il rischio di un cinema compiaciuto e autoreferenziale, che si guarda l’ombelico: l’autore eleva Frances a icona/manifesto di una generazione faticosamente alle soglie dell’età adulta, alle prese con un difficile percorso di crescita, tra illusioni perdute, nuove responsabilità e circostanze ostili. Il merito è anche (forse soprattutto) dell’interprete principale (nonché co-sceneggiatrice) Greta Gerwig, attrice di stralunato candore e rara sensibilità. Naïf e anticonformista nel senso più profondo e meno salottiero del termine, Frances è una donna versus, che non ha paura di correre da sola, controcorrente, di inciampare e di sbagliare, se capita. E che quando riesce a trovare il ritmo giusto per smettere di agitarsi vorticosamente su se stessa e progredire realmente, può anche permettersi di affermare, seduta e insolitamente posata: “mi piacciono le cose che sembrano errori”. Dopo tanto caos e confusione, il sospiro liberatorio nella placida tranquillità del suo nuovo appartamento ha il sapore di una conquista. Che sia questo, in definitiva, crescere?

7. nymphomaniac7. Nymphomaniac – Volume I & II di Lars von Trier (Danimarca, Germania, Belgio, Gran Bretagna, Francia). Probabilmente il film più discusso e atteso dell’anno: von Trier, certo non nuovo alle polemiche, ha creato una campagna pubblicitaria ammiccante ed efficacissima attorno a questo suo “prono d’autore”. E in effetti il film, diviso in due capitoli, è senz’altro esplicito e aggressivo, sebbene la versione distribuita in sala sia stata purgata dalle scene più scioccanti (si dice di un brutale aborto a tutto schermo nel Volume II). Ma, nonostante le premesse, il sesso non è affatto l’oggetto d’interesse del controverso regista danese. Al contrario, mano a mano che la visione procede, risulta evidente che esso è solo un mezzo attraverso cui imbastire il ritratto di una giovane donna famelica di vita, alla ricerca di se stessa e del suo ruolo nel mondo. Non a caso il sesso parlato, raccontato nei bellissimi duetti tra la protagonista Joe (Charlotte Gainsbourg, cardine della pellicola) e l’introverso Stiegman, raggiunge vette di fascinazione visiva e potere evocativo che mancano alle scene di sesso esibito, ostentato, manifesto. “Nymphomaniac” rivela così la sua vera natura: il profondo, doloroso romanzo di formazione di una ragazza (poi donna) che usa la propria sessualità come strumento di scoperta ed esperienza.

8. belluscone8. Belluscone – Una storia siciliana di Franco Maresco (Italia). Una provocatoria indagine sulle origini mafiose della fortuna di Berlusconi. Un ritratto grottesco del mondo dei cantanti neomelodici, delle feste rionali e degli amici “ospiti dello Stato”. Un avvincente mystery con il critico Tatti Sanguineti sulle tracce di un film incompiuto e di un regista scomparso. “Belluscone – Una storia siciliana” è tutto questo e altro ancora. Rimasto orfano del sodale Ciprì, perso per i lidi del cinema commerciale, Franco Maresco torna in sala con il suo film più disilluso e donchisciottesco: arriva a teorizzare (anzi, mettere in pratica) l’impossibilità del proprio successo, la patologica distanza umana e intellettuale che lo separa dal mondo di oggi. Infatti, il regista che l’improbabile detective Sanguineti sta cercando è Maresco stesso. Uno spettacolo vivace e puntuto, retto da una sceneggiatura originalissima, ricco di notazioni sagaci e brillanti e, allo stesso tempo, attraversato da una vena di implacabile amarezza che non abbandona lo spettatore nemmeno a visione terminata.

9. maps to the stars9. Maps to the Stars di David Cronenberg (Canada, USA, Germania, Francia). Ambientato in una Hollywood putrescente e depravata, al primo impatto “Maps to the Stars” potrebbe sembrare un pamphlet polemico e grottesco sulla spietata società dello spettacolo e gli abbietti personaggi che la animano. In realtà Cronenberg, coerente alla poetica di una vita, si spinge oltre per affondare le mani nella pieghe della mente e della psicoanalisi. Incesto, frustrazioni, abusi, vessazioni, omicidi… dietro le superfici patinate delle ville hollywoodiane (o dei volti liftati degli attori) si cela un incubo pronto a deflagrare in tutta la sua distruttiva mostruosità. Si pensi ad Havana (una spaventosa Julianne Moore), divetta avvizzita oppressa dal fantasma della celebre madre-matringa defunta, che inscena una terrificante danza macabra alla notizia della morte del figlioletto della sua rivale. Le “stelle” sono rovinosamente cadute, pare dirci l’autore canadese, e la “mappa” che dovrebbe guidarci tra esse è destinata irrimediabilmente a disorientarci, confonderci, distruggerci, demolirci. Un film inquietante e conturbante, forse imperfetto, ma che impone la necessità di una seconda, immediata visione. Non è certo da tutti.

10. il capitale umano10. Il capitale umano di Paolo Virzì (Italia, Francia). Costruito su una narrazione a capitoli, che ripercorrono la stessa vicenda e lo stesso lasso temporale da diversi punti di vista, “Il capitale umano” dà vita a un mosaico cinico e beffardo sulla deriva etica del Belpaese, un racconto corale di spietata lucidità su una classe (e una generazione) che ha cinicamente “scommesso sulla rovina del nostro Paese” e ha vinto. Virzì non rinuncia a un sorriso di speranza, affidato opportunamente ai personaggi più giovani, ma a prevalere è comunque un senso di amarezza e di crudele sopraffazione. “Il capitale umano” ci consegna così il ritratto di una società in piena decadenza morale e culturale, in cui la rincorsa folle e ostinata al Dio Denaro (protagonista invisibile ma onnipresente) ha irrimediabilmente corrotto e compromesso anche i rapporti umani e le relazioni filiali. Una fotografia di inquietante puntualità sul nostro quotidiano.

E ancora:
11. Due giorni, una notte di Jean-Pierre e Luc Dardenne (Belgio, Francia, Italia)
12. C’era una volta a New York di James Gray (USA)
13. Gone Girl – L’amore bugiardo di David Fincher (USA)
14. Nebraska di Alexander Payne (USA)
15. Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (USA, Germania, Gran Bretagna)
16. The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (USA)
17. Tutto sua madre di Guillaume Gallienne (Francia, Belgio)
18. Sils Maria di Olivier Assayas (Francia, Svizzera, Germania)
19. Father and Son di Hirokazu Koreeda (Giappone)
20. Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch (Gran Bretagna, Germania, Francia, Grecia, Cipro)

11. il giovane favolosoDelusione dell’anno: Il giovane favoloso di Mario Martone (Italia). Ha dato buona prova di sé al box office, e questo non può che essere un bel segnale per il panorama cinematografico nostrano. Resta il fatto che quello di Martone è un film vecchio, verbosissimo e senza guizzi visivi, che fallisce la sfida di tradurre in (belle) immagini i versi immortali del poeta di Recanati. L’uso non convenzionale (o almeno così si vorrebbe) del commento musicale e l’inserimento di qualche fugace nudo frontale non bastano per elevarne la statura a vero film d’autore. Certo, si potrebbe dire che Germano è bravissimo, ma suonerebbe come un premio di consolazione.

Stefano Guerini Rocco
Gennaio 2015

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