Il capitale umano: il costo della vita

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Archiviata la parentesi poetica del delicato e sottovalutato Tutti i santi giorni, Paolo Virzì torna al cinema per raccontarci l’Italia di oggi adattando un romanzo americano di Stephen Amidon.

Il piccolo immobiliarista Dino Ossola e la sua compagna vivono in un paesino della grigia provincia lombarda, di quelli il cui nome finisce immancabilmente con il suffisso –ate. Sognando guadagni facili, copiosi e sicuri, Dino decide di entrare in affari con Giovanni Bernaschi, squalo della finanza, il cui rampollo adolescente coltiva un’amicizia amorosa con la giovane Serena Ossola. Questo ambiguo groviglio di affetti e interessi, soldi e sentimenti, incrinerà gli instabili equilibri dei due nuclei famigliari, fino a quando un tragico e misterioso incidente stradale irromperà con inaspettata irruenza nei destini dei due ragazzi.

Non succede spesso che il cinema italiano, anche quello cosiddetto d’autore, abbandoni i confortevoli lidi di una tradizione consolidata, per lo più comica, e sfidi se stesso sui terreni impervi di generi e temi poco esplorati. In questo senso, Il capitale umano rappresenta una sfida nella filmografia di Virzì, che ha scelto con audacia di accollarsi più di un rischio.

Innanzitutto, il regista livornese, da sempre attento cantore di vizi e virtù del ceto medio e operaio, cambia decisamente bersaglio e affonda il coltello nel ritratto impietoso dell’alta borghesia, classe sociale brutale e degradata, pericolosamente asservita alle regole di un capitalismo bieco e implacabile.

È poi da segnalare la scelta non banale di trasmigrare la vicenda dal Connecticut di Amidon a una desolante Brianza. L’operazione, di per sé ardita, ha scatenato una serie di (inutili) polemiche in seno all’orgoglio leghista (che si siano offesi per la colorita caricatura dell’assessore impegnato nell’elogio di un coro padano?). Ma la trasposizione è talmente puntuale nei toni, negli umori e anche negli stereotipi, da risultare tristemente verosimile: non si potrebbe infatti immaginare ambientazione più efficace di questo profondo Nord grigio e spettrale, in cui i valori morali si confondono e si perdono dietro una fitta coltre di nebbia e gelo. Virzì abbraccia questo paesaggio, a lui inedito, con una regia solida, fredda e priva di sbavature, impreziosita da una fotografia tagliente, che segnala anche una svolta stilistica nel percorso dell’autore.

Lodevole, infine, la scelta di abbandonare (più o meno) l’abituale registro comico per imbastire un thriller teso e livido: certo una bella scommessa per un regista che, grazie alle sue opere brillanti, è stato eletto erede dei grandi Maestri della commedia all’italiana.

Costruito su una narrazione a capitoli, che ripercorrono la stessa vicenda e lo stesso lasso temporale da diversi punti di vista, Il capitale umano dà vita a un mosaico cinico e beffardo sulla deriva etica del Belpaese, un racconto corale di spietata lucidità su una classe (e una generazione) che ha cinicamente “scommesso sulla rovina del nostro Paese” e ha vinto.

Virzì non sempre riesce a tenere fede ai suoi propositi: la ferocia a volte cede il passo all’indulgenza e il tono grottesco viene stemperato nella farsa. La sceneggiatura tuttavia, a firma del regista stesso con Francesco Piccolo e Francesco Bruni, sa mantenere sempre alta la tensione intorno al plot giallo e concede, allo stesso tempo, il giusto spazio per una caratterizzazione affilata e minuta dei protagonisti.

Personaggi tutti fortemente tipizzati, cui un’affiatata compagine di interpreti eccellenti dona complessità e umanissimo spessore. C’è lo spregiudicato finanziere di Fabrizio Gifuni, spietato e distaccato ma anche, a modo suo, eticamente corretto. C’è sua moglie Carla, donna vanesia e vulnerabile, irrimediabilmente complice di un mondo che la nausea, “dilettante” allo sbaraglio cui Valeria Bruni Tedeschi (presenza luminosa) conferisce una dolente spensieratezza. Ci sono il professorino frustrato di Luigi Lo Cascio e la psicologa ingenuamente cieca di Valeria Golino. C’è soprattutto il Dino Ossola di Fabrizio Bentivoglio, parvenu ridicolo e volgare, pagliaccio triste, figlio del ventennio berlusconiano, la cui maschera di apparente umanità e simpatia (o italianità?) nasconde una natura gretta, avida e meschina.

Virzì non rinuncia a un sorriso di speranza, affidato opportunamente ai personaggi più giovani, ma a prevalere è comunque un senso di amarezza e di crudele sopraffazione. Il capitale umano ci consegna il ritratto di una società in piena decadenza morale e culturale, in cui la rincorsa folle e ostinata al Dio Denaro (protagonista invisibile ma onnipresente) ha irrimediabilmente corrotto e compromesso anche i rapporti umani e le relazioni filiali. Una fotografia di inquietante puntualità sul nostro quotidiano. Un tentativo coraggioso di raccontare davvero, e finalmente, il presente.

Stefano Guerini Rocco

 

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One Response to Il capitale umano: il costo della vita

  1. Riccardo says:

    Film di livello. Il concetto di “crisi” è affrontato in tutti le sue sfaccettature, da quella economico-finanziaria a quella dell’essere umano. Mi è piaciuto finalmente vedere in un film italiano le diverse visioni del momento che stiamo vivendo, in particolare il confronto tra le generazioni, al di là delle provenienze sociali.

    Bentivoglio come sempre è il numero uno. Ma resto colpito più che altro da Matilde Gioli: spontanea, trasperente, cazzuta e bellissima. Brava.

    Yo!
    Riccardo

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