NonSoloNoir al salone del libro

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Con grande piacere vi annuncio che, su richiesta dell’editore Fanucci, sabato 11 maggio sarò al Salone Del Libro di Torino per presentare tre romanzi della collana Nero Italiano: Tempo da lupi di Corrado Pelagotti, Il delitto del fascista Nuvola Nera, di Angelo Marenzana e La donna di Picche, di Remo Bassini.
L’evento si terrà sabato 11 alle 19.30 all’interno della sala rosa.

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Andrew krivak: Questa terra

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Tiberio Mitri: La botta in testa


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Lawrence Osborne: La ballata di un piccolo giocatore

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Nickolas Butler: Sotto il falò

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Gregorio Magini: Cometa

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Raffaele e Fabio.
Il primo è un ragazzo di buona famiglia il cui unico obbiettivo è, forse, sopravvivere alla noia (1); il secondo è il classico nerd con il pallino dei fumetti, dei videogame e, più avanti negli anni, della programmazione.
Uno è un orfano, cresciuto negli agi grazie alle dubbie “cure” di un nonno arricchito; l’altro è uno come tutti, figlio di una famiglia di classe media.
Il primo conduce un’esistenza dissipata, passando da una donna all’altra senza particolare emozione né interesse; il secondo vive ritirato in se stesso, è chiuso, schivo, timido; se e quando ha delle relazioni, non è per sua volontà.
Eppure queste due esistenze sono destinate ad incrociarsi, per caso (secondo le regole di un mondo realisticamente privo di qualsivoglia teleologia): insieme, i due ragazzi si dedicheranno alla creazione di un fumoso progetto artistico, e poi alla produzione di “Comeetr”, un nuovo, misterioso social network, e la loro collaborazione finirà per cambiare definitivamente il corso degli eventi.
Definitivamente?
Forse.
O forse no, e magari tutto tornerà ad essere come è sempre stato, almeno per il momento…

In Cometa, di Gregorio Magini, molti temi essenziali del romanzo contemporaneo si agitano (verrebbe quasi da dire a disagio, ma in senso molto positivo) sotto la superficie familiare e rassicurante di una narrazione a più voci; per questo, quanto segue non sarà una vera e propria recensione, ma un invito alla lettura e all’interpretazione.
Cominciamo dalla narrazione: apparentemente si tratta di un bildungsroman a due voci; le due parti, quella di Raffaele e quella di Fabio, tendono però, come in ogni montaggio alternato che si rispetti, ad un punto comune, quello della convergenza o dell’incontro e, più oltre, a quello tratteggiato dall’epilogo: un futuro che è al contempo compimento e smentita del destino di entrambi.
Ed è un’anticipazione fondata su un doppio canone, che sfiora e sfora i limiti del discorso scientifico e umanistico, nel vano (ancora una volta vano) tentativo di superare l’impasse del postmoderno.
In questo senso mi pare che da una parte si possa tranquillamente abbandonare l’etichetta del romanzo di formazione, e che dall’altra si possa parlare, più che di fantascienza (ché il termine ormai, soprattutto in certi ambienti, vale per tutto e per niente) o di ricorso al fantastico, di una forma di realismo allargato ed anticipatore.
Da un lato c’è, dunque, questa proiezione, questa anticipazione di un un futuro svuotato, in cui curiosità e incredulità cadono sotto i colpi dell’insensatezza(2) e forse anche dell’errore(3); dall’altro c’è tutta un’archeologia, che investe, con mossa ironicamente deterministica(4) l’intero arco (quasi trent’anni) di vita dei due personaggi, ricostruendone l’evoluzione storica, politica(5) e culturale dagli anni ’80 fino ad oggi (o a domani?), tra tocchi di modernariato ed effetti nostalgia debitamente depotenziati e disinnescati, visioni tecnologiche, impressioni in prima persona, strizzate d’occhio alle teorie del complotto, e piccole (grandi?) citazioni(6).
C’è poi l’intreccio vero e proprio, fatto di avvenimenti e di fatti piccoli e grandi, intimi, personali o sociali e politici, alti e bassi, accattivanti e noiosi, che rendono il romanzo godibilissimo.
E infine c’è lo stile: l’autore si affida ad una lingua piana e lineare, a dispetto delle (quasi) invisibili modulazioni interne e alle palpabili differenze che distinguono il discorso di un personaggio da quello dell’altro.
Sempre in campo stilistico, sono da segnalare alcune riuscitissime, deliranti (e non necessariamente per motivi “chimici”),  sequenze nelle quali la lingua s’impenna e l’autore, con furiose accelerazioni e accumulazioni (di discendenza celiniana?), getta letteralmente il lettore in un turbinio di impressioni e stimoli (7) che nella loro incontenibile caoticità sono quanto di più vicino a una rivelazione il romanzo abbia da offrire.
D’altra parte, Cometa funziona alla grande, anche senza rivelazioni, o proprio perché non ha niente da rivelare, se non che al momento non ci sono rivelazioni da fare, e questo va detto,  e nel dirlo ci si accolla volentieri anche il rischio di essere presi a ginocchiate da Raffaele….

Il romanzo Cometa, di Gregorio Magini (classe 1980, già fondatore del progetto Scrittura Industriale Collettiva e autore del romanzo La famiglia di pietra, Round Robin 2010) 3), è proposto ai lettori italiani da Neo edizioni.

(1)Come Vaneigem, Raffaele rifiuta di scambiare la “garanzia di non morire di fame con il rischio di morire di noia”, o almeno così pare. In ottica post-situazionista pare poi di poter leggere i suoi “3 comandamenti dell’ebrezza”: “I) Non lavorare. II) Non aspettare. III) Non invecchiare”. ( Magini, G., Cometa, Neo Edizioni, Castel di Sangro 2018, p. 30)
(2) La fine della storia (tema classico del postmoderno che pare emergere anche in un dialogo tra Fabio e Carla, una delle molte donne che attraversano questo romanzo; Cfr. Ivi, p. 226) significa anche il blocco di ogni possibilità di porsi in maniera significativa, di produrre o di trovare un sifnigicato;  qui, invece, sia Fabio che Raffaele, a dispetto del loro cinismo, sembrano alla disperata ricerca di un senso, costantemente a caccia di una rivelazione che è sempre fuori portata, sempre lontana dal darsi. Ed è una ricerca alla quale ognuno si accosta a modo suo (Fabio attraverso la ricerca del codice pulito, incorrotto e forse incorruttibile; Raffaele attraverso il sesso occasionale, le droghe ecc.). “Se a qualcuno fosse saltato in testa di chieder loro qual era l’insegnamento riservatogli dalla vita”, si legge poi, “Raffaele avrebbe risposto che tutti i guai non avevano scalfito d’un millimetro la sua fame di fica, dunque non aveva imparato niente, mentre Fabio avrebbe borbottato: è la vita che non impara, dopodiché si sarebbe chiuso nel silenzio. Quindi la morale è che non c’è nessuna morale? Avrebbe potuto insistere quel qualcuno. A quel punto ci sarebbe stata una reazione forte, Fabio l’avrebbe tenuto fermo e Raffaele l’avrebbe preso a ginocchiate nella pancia.” (Ivi, p. 234)
(3) “Molti si illusero che la somma di tutte le costellazioni componesse la figura serena”… (Ivi, p. 234)
(4)L’autore regala infatti al lettore, attraverso i falsi ricordi dei due personaggi bambini, non tanto una giustificazione, quanto un’anticipazione simbolica dei caratteri dei due adulti.
(5)Doveroso citare, qui, la ricostruzione degli eventi del G8 di Genova, essenziali sia nello sviluppo dell’ormai presente futuro del contesto, che per la formazione del Raffaele “adulto”.
(6) Per qualche ragione, alcuni passi del libro richiamano alla mente Challenger di Lopez (Lopez, G., Challenger, Eris Edizioni, Torino 2017, traduzione di Francesca Bianchi, Illustrazioni di Sonny Partipilo) e Nel Mondo a venire di Lerner ( Lerner, B., Nel mondo a venire, Sellerio, Palermo 2016, traduzione di Martina Testa) e, in un certo senso, anche il discutissimo Realismo capitalista di Fisher (Fisher, M., Realismo capitalista). Ma, certo, nell’economia generale del testo, anche ULTIMA IV, Commander Keen e The secret of Monkey island hanno la loro importanza.
(7) Cfr., per esempio. pp. 74-78 o197-203, sequenze, queste, in cui l’autore dimostra tutta la sua bravura, la sua capacità stilistica.

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Enrico Palandri: Boccalone

 

Tutte le sere esco dalla mia piccola casa in centro; fisco qualche arietta allegra alla bella luna di maggio e seguo con gli occhi quello che mi accade intorno; una passeggiata serena, tra i vicoli e le piazzette, fino a tardi senza incontrare nessuno, oppure fermandomi spesso a parlare con tutti;
le giornate passano, e io so di poter bighellonare.
Così, per molte ore sono assieme ai miei amici, altre sono solo, sto sempre piuttosto bene.
Adesso è gennaio, va molto peggio, e parlare di maggio, il bel maggio odoroso, mi fa piacere.
Anna ha una salopette bianca e una giacca rossa, non sempre naturalmente, solo ogni tanto.
(Enrico Palandri, Boccalone – storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano 2011 p.7)

Bologna, 1977. Enrico (1), detto boccalone, ama anna. E anna? Be’, anna è fidanzata. O forse non lo è più. E magari resta a dormire da lui, da enrico. E forse si trasferisce proprio, anche se è giovane, non ha ancora finito le superiori. Magari, però, ogni tanto prende un treno e va a Roma a trovare un certo giocatore di basket. Mentre enrico, roso dalla gelosia, si dispera e si strugge.
Intanto, sullo sfondo della cittadella universitaria di Bologna, il movimento del ’77 pare essere agli sgoccioli, qualcuno già medita la fuga verso oriente, qualcun altro prepara l’uscita di un libro di una certa rilevanza politica…
Ma poi le stagioni passano, e il tempo è destinato a dissolversi in un turbine di incontri e di relazioni, di piccoli incidenti e di banale quotidianità – un vortice nel quale personale e politico, idealmente inseparabili, si intrecciano e poi fatalmente si districano.

In Boccalone, romanzo d’esordio pubblicato dal ventitreenne Palandri nel 1979, il naufragio di una relazione si fa metafora del tramonto di una stagione politica, o forse (ma in fondo è lo stesso), la fine di una stagione politica a fare da controcanto alla tormentata relazione tra anna ed enrico).
Recuperando il modello del romanzo di formazione, Palandri si affida alla voce del protagonista, che, tra sintassi sciolta, nessi logici allentati, ripetizioni, analessi e prolessi, andate e ritorni, esuberanza e ripensamenti, si rivela perfetta per rendere i tumulti interiori di un ventenne alle prese con una storia d’amore difficile.
D’altronde lui, enrico, è un boccalone, uno che non si controlla, e ha una bocca che “perde come un rubinetto che cola”…
In primo piano, dunque, c’è la dimensione intima del protagonista, ma è un aspetto che non risolve l’intero romanzo: al contrario, importantissimo risulta, nell’economia generale del racconto, il tentativo di registrare una realtà collettiva (2), strada già percorsa da Tondelli in Altri libertini.
Ma, se Tondelli riesce pienamente(3), e il soggetto del suo testo è indiscutibilmente un “noi”, il romanzo di Palandri è il prodotto di un fallimento/tradimento. E su questo recesso verso l’individualità, verso la sfera del personale, l’autore (e con lui il narratore intradiegetico) si interroga, e probabilmente è proprio questo stare in bilico tra il singolare e il collettivo, l’aspetto caratteristico di Boccalone, che è “storia vera”, perché basata su fatti e impressioni di boccalone-enrico, ma “piena di bugie”, perché in fondo tutti i personaggi ritratti nel romanzo, personaggi che non hanno facoltà di parlare se non per bocca (o per mano) di enrico, hanno sicuramente un’altra versione dei fatti, la cui mancanza intacca la veridicità del libro.
E il racconto è dunque tormentato tra il tentativo di registrare la realtà dura e pura (4), l’impossibilità di superare la percezione per arrivare al fatto, e il vago senso di colpa per aver abdicato al compito di raccontare una realtà collettiva, ritornando alla cara, classica (5) narrazione del singolo, per di più in prima persona.
A fare da corredo, c’è poi tutto il campionario delle citazioni e dei riferimenti del giovane aspirante scrittore, da Rimbaud a Woody Allen, passando per Majakowskij e Bob Dylan.
Ci sono, innegabilmente, le avanguardie artistiche, qui recuperate e riutilizzate livello formale, in una maniera un po’ vecchiotta – per esempio nella sovversione delle regole ortografiche e tipografiche – che è facile associare allo stile “sovversivo” della pubblicistica del settantasette. In questa scelta, più che comprensibile(6), si trova, mi pare, l’unico aspetto un po’ datato di un libro che per il resto, a quasi quarant’anni dalla pubblicazione, si legge ancora con grande interesse e forse un po’ di nostalgia: la nostalgia per un periodo storico che sembra sempre più lontano. Un periodo in cui l’idea romantica di far coincidere vita ed arte era ancora diffusa, e la riflessione teorica applicata alla politica, alla produzione artistica, alle relazioni, alla vita, non era appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori, ma era sentita come un diritto (e forse come un dovere), se non da tutti, almeno da molti.

Boccalone, di Enrico Palandri, è proposto ai lettori italiani da Bompiani.

(1) Anzi, enrico, come scrive l’autore in spregio alle maiuscole, e così farò io, da qui in avanti.
(2)Idea che risponde e nel contempo tradisce il progetto, accennato nel libro, di pubblicare un volume collettaneo, Il vestito policarpico, che nelle intenzioni avrebbe raccogliere materiale non pubblicato nel famoso Bologna, marzo 1977…Fatti Nostri…(Bertani, Bologna 1977), documento essenziale per capire il movimento del ’77, curato, tra gli altri, dallo stesso Palandri.
(3)Anche se, ovviamente, attraverso un artificio: i dubbi espressi da Palandri, ammesso che si voglia “resgistrare” la realtà, e non già ricostruirla, colpiscono, retrospettivamente, anche il libro di Tondelli.
(4)Tentativo al quale l’autore si dedica abbracciando totalmente l’individualità, come testimonia il ricorso al discorso indiretto libero.
(5)“Borghese”, si sarebbe forse detto all’epoca?
(6) È vero, il ricorso a certe scelte d’avanguardia ha perso il suo valore sperimentale – ma qui, come in altri testi del ’77, non si tratta di una semplice imitazione, quanto di un’estesa citazione che vuole rivelare un’affinità ideale con lo spirito delle avanguardie…

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Mario Vargas Llosa: Crocevia

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Jennifer Egan: Manhattan Beach.

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«La flottiglia di corazzate lungo il fiume Hudson si disperse mentre il Pacemaker sfrecciava verso nord. Era la stessa tratta dei viaggi che Anna aveva fatto con la madre e Lydia da Minneapolis, ma non ricordava che quei treni andassero così veloci. Il Pacemaker ruggiva agli incroci, i panni stesi che svolazzavano sulla sua scia come storni spaventati. I soldati si aggiravano per i corridoi giocando a carte e lanciando le sigarette dai finestrini. La velocità del treno stimolò in Anna un formicolio di aspettative. Guardava dal finestrino: le città guizzavano imponenti in successione per poi ripiegarsi nell’evanescenza. I treni che andavano nella direzione opposta passavano a tutta birra.»
(Jennifer Egan, Mahnattan Beach, Mondadori, Milano 2018, p. 496. Traduzione di Giovanna Granato).

New York, anni ’40.
Da quando gli uomini sono partiti per la guerra, la manodopera femminile ha trovato largo impiego nell’industria bellica. E forse per contribuire allo sforzo bellico, o forse per aiutare sua madre, la giovane Anna Kerrigan ha lasciato il college e ha trovato lavoro nel reparto misurazioni di un cantiere navale. Ma il lavoro le sembra inutile, e nessuno sa spiegarle cosa siano le parti meccaniche che misura tutto il giorno, e in quale modo possano decidere la sorte degli alleati. D’altronde, la ragazza deve darsi da fare, perché, da quando il padre è misteriosamente scomparso, a lei, a sua madre e alla sorellina Lydia non resta, per tirare avanti, che lo sporadico aiuto della zia Brianne.
Poi, un giorno, mentre cammina sui moli in un momento di pausa, Anna vede delle strane manovre su una piattaforma. Laggiù, le dicono, si addestrano i palombari. Nel momento stesso in cui li vede sfiorare la superficie dell’acqua, chiusi nel loro improbabile scafandro, decide che diventerà un palombaro: sì, lei diventerà la prima donna palombaro della storia.
In questo clima di ritrovata libertà e di progressiva emancipazione, Anna si troverà a frequentare i locali notturni di New York. Qui, quasi per caso, incontrerà Dexter Styles, un uomo – forse l’unico uomo- in grado di aiutarla a far luce sulla misteriosa scomparsa di suo padre.

A sette anni da Il tempo è un bastardo(1), premiato nel 2011 con un prestigioso (e meritatissimo) premio Pulitzer per la narrativa, Jennifer Egan torna in libreria con Manhattan Beach.
In questo nuovo lavoro, un corposo, ma velocissimo romanzo storico, l’autrice riesce a innestare una serie di temi di grande importanza (2) sul tronco di una narrazione classica, costruendo un racconto newyorchese fino al midollo, che occhieggia qui al bildungsroman, lì alla storia di gangster e ancora al romanzo d’avventura ecc.
Lo stile della Egan è sempre lì, perfetto, complice la bella traduzione di Giovanna Granato; i personaggi sono ben costruiti e la trama, che pure, per stare in piedi, richiede qualche stratagemma da romanzo d’appendice, convince pienamente(3), anche grazie alle ambientazioni ricostruite con maniacale cura per il dettaglio (4).
L’effetto è un classico rivisitato, un romanzo storico dell’era di instagram, una sorta di riuscitissimo ibrido tra Fronte del Porto Bomb Girls.
Certo, per chi segue Jennifer Egan da Il tempo è un bastardo (e per chi magari la segue proprio per la sua capacità di mettersi in ascolto del presente tentando di anticipare il futuro) una punta di preoccupazione resta, perché, a guardarla oggi, pare che l’autrice abbia perso parte della sua freschezza, della sua originalità e della voglia di sperimentare(5); sia detto, questo, senza nulla togliere a Manhattan Beach, piccolo gioiello mid-brow che regala grandi soddisfazioni al lettore, e che è sicuramente destinato a conquistare un pubblico più ampio di quello di Il tempo è un bastrardo.

Manhattan Beach di Jennifer Egan è proposto ai lettori italiani da Mondadori nella traduzione di Giovanna Granato.

(1)Se a noi italiani l’attesa è parsa più breve è perché solo dopo l’uscita di Il tempo è un bastardo sono stati tradotti in italiano i precedenti Guardami e La fortezza (Minimum Fax, Roma 2012 e 2014, traduzioni di Matteo Colombo e Martina Testa), per non parlare della tweet novel La scatola nera, proposta prima online e poi in cartaceo, sempre da Minimum Fax.
(2 ) Accanto all’emancipazione femminile sono da segnalare, almeno, i temi dell’amicizia, dei rapporti familiari, della disabilità ecc. Temi complessi spesso appena abbozzati (e magari lasciati irrisolti) ma mai banalmente liquidati per accaparrarsi le simpatie del pubblico.
(3)Anche se a volte la meccanica da romanzo d’avventura impone qualche spostamento ai limiti della verosimiglianza, che tocca i personaggi (penso in particolare a Dexter Styles e a Ed Kerrigan) oltre alla trama. Ma a questo punto del racconto si presume che il lettore sia talmente avvinto da aver momentaneamente sospeso l’incredulità, e in effetti in buona misura è così.
(4) La stesura di questo romanzo ha richiesto all’autrice quasi 10 anni di ricerche, e non c’è da stupirsene, vista la cura messa nella ricostruzione di costumi, abitudini, passioni, ambienti…
(5) Anche se, nel corso della presentazione del romanzo tenutasi al Circolo dei Lettori di Torino, l’autrice ha tranquillizzato i suoi fan: a quanto pare le ricerche preparatorie per Manhattan Beach erano in corso ben prima della stesura di Il tempo è un bastardo, e in futuro pare che la Egan riprenderà la via della sperimentazione.

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S. E. Hinton: The Outsiders – i ragazzi della 56a strada

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«Quando sono uscito alla luce forte del sole dal buio del cinema avevo solo due cose in testa: Paul Newman e un passaggio fino a casa. Volevo tanto assomigliare a Paul Newman – lui ha l’aria da duro e io no- ma comunque so di non essere male. Ho i capelli castano chiaro quasi rossi e gli occhi verdegrigio. Vorrei che fossero più grigi, perché odio i tipi con gli occhi verdi, ma devo accontentarmi di quello che ho. Porto i capelli più lunghi degli altri, tagliati cortissimi dietro e lunghi davanti e di lato, ma sono un Greaser e dalle mie parti in genere non si pensa molto a farsi tagliare i capelli. E poi sto meglio con i capelli lunghi.» (1)

La storia la conosciamo un po’ tutti: dopo la perdita dei genitori, morti in un incidente d’auto, il tredicenne Ponyboy vive solo con i fratelli Darrel e Sodapop. I tre, con gli amici Dally, Johnny e Two-Bit formano la banda dei Greasers. Come tutte le bande che si rispettino, i Greasers non sono esattamente un gruppo di educande: insieme bevono, fumano, si cacciano nei guai, si trovano coinvolti in qualche rissa, a mani nude o, quando capita, armati di coltelli, catene, bastoni e bottiglie rotte. La loro etica? Semplice: “quando sei una banda i membri li difendi” (2).  In particolare se si tratta di difenderli dai Socs, i figli violenti dell’alta società del west side.
Ed è proprio in seguito ad uno scontro con i Soci fnito male,  che Ponyboy e Johnny si trovano costretti a lasciare la città.
La rissa e le sue tragiche, imprevedibili, conseguenze porteranno i due a interrogarsi sui motivi e sul senso dei loro scontri con i rivali.

Scritto nel lontano 1964 dall’allora sedicenne S.E.Hinton e pubblicato pochi anni dopo, nel 1967, The Outsiders, forse più noto, da noi, nella versione cinematografica firmata da Coppola, è, nel mondo anglosassone uno dei romanzi di formazione più amati dai ragazzi. Le ragioni sono molte, e ancora valide, anche a rileggerlo oggi, da adulti e a cinquant’anni dalla pubblicazione.
Innanzitutto la lingua: lo stile della Hinton è piano e diretto, il genere di voce che sembra facile facile finché uno non si mette lì a scrivere e si rende conto che c’è tutto un mondo da limare, una serie di sviste da cancellare, un universo di riferimenti che rischiano di rendere inverosimile il racconto. E in questo l’autrice si dimostra sia dotata che fortunata: sarà forse che all’epoca della scrittura aveva sedici anni, e che quindi per cogliere le sfumature della voce narrante non aveva che da appuntarsi i modi e le espressioni in uso nel suo liceo, o sarà puro e semplice talento, ma il tono del racconto convince e come.
C’è poi il tema: una storia plausibile e ben costruita. Una storia attuale, “realistica”, forse la prima storia realistica pensata e scritta espressamente per un pubblico di teenagers fino ad allora nutrito a trite favolette. E, se anche The outsiders non è del tutto privo di un certo intento moralistico-didascalico, la partecipazione dell’autrice e l’empatia dimostrata nei confronti dei suoi personaggi sono talmente lampanti da mettere tutto in secondo piano.
Ci sarebbe da discutere sulla visione della differenza sociale(3) fra bande offerta dall’autrice, ma questo piccolo, fortunato, capolavoro della letteratura per l’adolescenza uscito dalla penna di una sedicenne (4), riesce quasi a mettere in comunicazione Il giovane HoldenGioventù Bruciata e forse non è lecito chiedere di più.

The Outsiders, di S. E. Hinton è stato riproposto ai lettori italiani da Rizzoli nell’ottima (e necessaria) nuova traduzione di Beatrice Masini.

 

(1) S. E. Hinton, The Outsiders – i ragazzi della 56a strada, Rizzoli, Milano 2017, p. 7. Traduzione di Beatrice Masini.
(2)Ivi, pp. 37-38.
(3)Se i Socs, o Socials sono ricchi e di buona famiglia, i Greasers sono poveri, circostanza che l’autrice risolve evocando un generico malessere adolescenziale che accomunerebbe (in questo caso il condizionale è d’obbligo) i membri dei due schieramenti…

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