Anonimo: Il caso editoriale dell’anno

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Cosa succede quando uno scrittore (forse) brillante ma di scarso successo, autore di tre opere importanti -romanzi di formazione travestiti da noir travestiti da romanzi esistenziali- mette da parte le pretese letterarie(1) per confezionare una sorta di “Bridget Jones degli scrittori vanesi”(2), un’ “emerita cazzata, una boiata infame, una cosa scritta per rilassare la mente”?
Semplice: l’ignoto scrittore balza rapidamente all’onore delle cronache (letterarie), e, amatissimo dalla critica e dal pubblico, si ritrova a girare in Hummer, alloggia nei migliori alberghi, cena nei migliori ristoranti, arriva a fregarsene degli appuntamenti mondani, vince una marea di premi letterari e viene dato come possibile candidato al Nobel(3).

A raccontarci questa storia a tratti eccessiva ma, almeno nelle premesse, tutt’altro che inverosimile(4), è un autore che ha “saggiamente” deciso di rimanere anonimo. Si tratta, senza ombra di dubbio, di persona informata sui fatti, ma la vaghezza di certe affermazioni(5) vanifica ogni impegno induttivo: potrebbe trattarsi di chiunque, o meglio di una qualunque delle figure che ruotano intorno al mondo editoriale, dal grande scrittore redento all’agente letterario pentito, dal critico esausto all’organizzatore di saloni e fiere, al giurato pronto a vuotare il sacco, e così via fino al semplice lettore ben informato e incarognito. Certo, chi frequenta una certa letteratura italiana contemporanea un’idea di chi possa essere l’autore misterioso potrebbe essersela fatta: un po’ per lo stile e per i toni, un po’ per il riferimento a luoghi (in primo luogo Parigi), ambienti e gusti musicali ricorrenti, un po’ per il passaggio da certi snodi narrativi già visti(6), ma soprattutto per il taglio concettuale dell’operazione, tutta giocata su una duplicità di marca tipicamente postmoderna(7).
L’anonimato, da scelta dettata da considerazioni utilitaristiche, diviene garanzia della veridicità del contenuto del romanzo(8), assurge a rappresentazione della “morte dell’autore”, e si fa realizzazione di un desiderio inconscio (ma neanche troppo) del protagonista(9). D’altra parte, il “vero” anonimo, l’autore anonimo per necessità, tende ad occultare la cosa o ad attenuarne la gravità (perché restare anonimi, in fondo vuol dire anche non avere del tutto il coraggio delle proprie azioni o addirittura non poter dimostrare tutto ciò che si afferma), mentre qui, l’apposizione della dicitura “anonimo” sia sul dorso che sulla copertina del libro vuole chiaramente sottolineare l’aspetto deliberato dell’anonimato, così come il titolo crea una volontaria confusione tra l’oggetto-libro(10) e l’oggetto del libro(11).
Mi piacerebbe, certo, che l’operazione alchemica tentata dall’anonimo autore avesse successo, che la trasmutazione dell’opera nel suo oggetto fosse possibile; si tratterebbe di un fatto più unico che raro in quel panorama editoriale che questi dimostra di conoscere così bene; cionondimeno devo notare con dispiacere che pur assolvendo parte della sua funzione, la messa in scena finisce per occultare i restanti meriti del romanzo, a cominciare dallo stile. Diciamolo: l’anonimo è una buona penna. Anzi, un’ottima penna. E nel suo romanzo si respira un’aria cosmopolita che dimostra un’assidua frequentazione della letteratura contemporanea (oltre a Nooteboom, si sentono, tra le righe, eco di Amis, di McEwan, di Houellebecq, di DeLillo, Coupland, McInerney, B.E. Ellis e Salinger; tutti autori che, peraltro, l’autore cita direttamente).
E la trama non si riduce, come alcuni recensori sembrerebbero dare ad intendere, alla critica del mondo editoriale con i suoi aspetti grotteschi; tutt’altro. L’autore si dimostra invece scrittore generoso, pronto a spendere (e non a sperperare) numerosi spunti e svariate sotto-trame, che rendono l’opera -un libro sottile, come piacciono a Calvino e anche a noi- un felice ibrido, un “romanzo di formazione travestito [qua e là... ndr] da noir travestito da romanzo esistenziale travestito da conte philosophique, o qualcosa del genere”; un romanzo godibilissimo e ben scritto, sostenuto da un’operazione letteraria di indubbia intelligenza.
Insomma, tutt’altro che un Bridget Jones da scrittore vanesio…

Il caso editoriale dell’anno è edito da Anordest edizioni.

(1)Per i suoi primi romanzi, si parla di “scritture e riscritture e ancora riscritture e limature e piallature e tagli e aggiunte e cesellature e ripensamenti e sedimentazioni e ancora riscritture e ancora ripensamenti” (Anonimo, Il caso editoriale dell’anno, Anordest edizioni, Treviso 2013, p. 6); il quarto, invece è una sorta di “divertissement”, “un breve romanzo” nato “quasi per scherzo” e “scritto in un mese” (Ivi, p. 7).
(2)Ibidem.
(3)“La mia agente è sempre più convinta che presto invece toccherà a me, e parlo del Nobel: i troppi soldi che le sto facendo guadagnare probabilmente l’hanno fatta impazzire definitivamente. Lei dice o Murakami Haruki o Don DeLillo o Cees Nooteboom o Philip Roth o Milan Kundera oppure il sottoscritto”. (Ivi, p. 154).
(4)Basti pensare alle recenti, comprensibilissime, polemiche relative all’assegnazione del Premio Bancarella…
(5)Vaghezza che in nessun modo mitiga l’asprezza critica di questa sorta di anti-parabola.
(6)Anzi, se l’ipotesi dovesse rivelarsi corretta, si direbbe al limite dell’auto-citazione.
(7)Anche se l’epigrafe di Nooteboom, che cita Calvino, sembra voler rivendicare una diretta discendenza moderna…
(8)“Solo restando anonimo ho potuto raccontarvi quel che avevo da raccontarvi”, sembra voler dire l’autore, e pertanto si finisce per dare per scontato che il contenuto del romanzo sia davvero scottante…
(9)La sparizione come ultima via d’accesso all’otium, in un mondo in cui l’opera letteraria è vista declassata a prodotto di consumo tra prodotti di consumo, e pertanto la stessa creazione artistica è ridotta al livello di mera produzione, dunque negotium. Non a caso, il romanzo si chiude con una citazione dai Passages benjaminiani, nella quale il “profitto dell’ozio” è contrapposto a quello del lavoro. La sparizione, insomma, come unico sentiero percorribile verso la flânerie.
(10)Un romanzo intitolato Il caso editoriale dell’anno.
(11)Parte del contenuto del romanzo, ovvero un entità fittizia generata dall’autore, della quale nulla sappiamo se non che ha l’aspetto esteriore di “un Bridget Jones degli scrittori vanesi” e che, pur essendo un’“emerita cazzata” e “una boiata infame” (o forse proprio per questo), si impone, all’interno del mondo diegetico (fittizio ma tremendamente realistico), come “caso editoriale dell’anno”.

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One Response to Anonimo: Il caso editoriale dell’anno

  1. Pingback: recensione (molto bella) pubblicata (in questo momento) su “Non Solo Noir” (a cura di Fabrizio Fulio-Bragoni) di “Il caso editoriale dell’anno”… | ilcasoeditorialedellanno

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