Di Isabella Pesarini
Domenica di quasi estate. Dieci del mattino, parcheggio ai piedi di Valbondione. Partenza da Milano alle prime luci dell’alba, ritrovo con amici a una rotonda a Vimercate, si prosegue in autostrada in direzione Bergamo (per Val Seriana). Dopo un paio d’ore di strada si gira a sinistra al bivio che divide le cascate del fiume Serio di Val Seriana dalla strada per Clusone. La meta non sono le cascate più alte d’Italia e al secondo posto in Europa, ma uno spettacolo ancora più promettente: Valbondione. L’obiettivo della giornata è quello di avvistare gli stambecchi!
Si lasciano le automobili parcheggiate in uno spiazzo apposito, partiamo già sui 1600 metri di altitudine. Segue l’immancabile rito di cambio d’abito per camminare in montagna, alias trekking per gli internazionali: perlomeno l’adozione di scarponi adeguati, oltre ad acqua, alimenti nutrienti, che siano banane o cioccolato, cappellino e protezione solare. Il cielo è terso, il sole scotterà a breve. Lo zaino da montagna è già pieno, fortunatamente il peso maggiore ora lo indosso ai piedi: sto parlando degli scarponi da montagna.
La compagnia non potrebbe essere più improvvisata, eppure, come spesso accade nella casualità degli eventi, ben equilibrata: io, un’amica di vecchia data gran camminatrice, l’amica dell’amica che mi ha recuperato strada facendo e che ho conosciuto durante il tragitto in auto, un fotografo appassionato di natura, un’amico del fidanzato della mia amica, un baldanzoso ragazzo come guida di trekking. La passione comune mia e della mia amica per gli animali liberi di vivere nel loro habitat naturale porta verso gli stambecchi, ci aspettano dalle tre alle tre ore e mezza di camminata, per arrivare a 1900 metri di altitudine. Non camminando da tanti, tanti anni su per le montagne direi che questa è una bella sfida. Bene, zaino in spalla, si parte!
Il primo sentiero è un dolce boschetto, con alberi alti parecchi metri e dai rami parecchio frondosi. C’è chi parla e chi conserva il fiato; scopro così di non essere l’unica a non essere allenata, al contrario, se si escludono la guida e il fotografo nessuno del gruppo è per nulla allenato! Il boschetto diventa presto sentiero aperto, la via conta più sassolini, i dirupi si mostrano più pronunciati. La mia amica esclama per lo stupore: sul lato opposto della montagna si avvista già uno stambecco, che scompare presto alla vista. Facciamo poche soste di qualche minuto, il tempo per recuperare fiato e elasticità ai polpacci. Proseguiamo! La via ora è decisamente ciottolosa, i sassi sono più fini e scivolosi, le suole da carro armato degli scarponi da montagna si rivelano fondamentali per avventurarsi verso l’impervio. La guida lascia momentaneamente l’unico sentiero presente per scendere leggermente lungo la fiancata della montagna: sono stati altri stambecchi, che stanno scendendo verso valle, a spingere il ragazzo all’arduo gesto! Stambecchi che sembrano in fuga, tanto sono veloci, per cui la guida decide di lasciar perdere e risalire velocemente per riprendere con noi il sentiero. La meta è un rifugio, dove potremo riposare e rifocillarci.
Una e mezza del pomeriggio, rifugio in Valbondione. Sì, il conteggio preliminare di tre ore e mezza di via si è dimostrato preciso come un orologio svizzero! Lo spettacolo che si presenta davanti agli occhi è superbo, un’impronta decisa della perfezione della natura. Cime innevate, nonostante siano trenta gradi e l’estate si stia avvicinando, un lago naturale racchiuso tra le montagne di un azzurro così forte che pare aver rubato la tinta alla tela di chissà quale pittore.
Ci stendiamo sull’erba soffice, aspettando che si liberi un tavolo per sei al rifugio. Al momento del pranzo la mia amica accusa un malore. Sono effettivamente preoccupata, acconsento a lasciarla riposare stesa sulle panche in legno del rifugio, mentre noi abbondiamo con polenta concia, taglieri di salumi e formaggi e genepì. Dopo un’oretta la mia amica si risveglia, alla scelta se rimanere lì e poi scendere oppure continuare un poco per godere della vista di cascate naturali e tornare verso sera è proprio lei a optare per l’alternativa più impegnativa. Quindi, di nuovo zaino in spalla e ripartenza!
Tre del pomeriggio, cascate in Valbondione. Un po’ scherziamo con la mia amica, per tenere alto il suo morale, lei reagisce bene, svuotando di parecchia cioccolata lo zaino dell’amico del fidanzato. Dopo una mezz’oretta di strada sul fianco del sentiero c’è già una cascatella naturale, che nasce e si sviluppa lungo le pareti di nuda roccia della montagna. A tratti c’è ancora neve, soprattutto negli angoli bui delle rocce, i prati sono fioriti, sbocciati al culmine della primavera, poco più avanti lo spettacolo di una cascata decisamente imponente, che schizza e riversa le sue acque ai nostri piedi ci spinge a sostare, per godere di un panorama senza eguali.
L’arrivo dell’uomo ha portato solo una piccola traccia: un caratteristico ponticello in legno che consente di passare all’altra sponda del fiumiciattolo creatosi dalle acque della cascata in tutta sicurezza.
Proprio su questo terreno avvisto qualcosa di familiare: un pezzo di plastica rugosa, gialla. Lo raccolgo. L’amico del fidanzato della mia amica avvista altri pezzi simili e mi fa notare che è come se fossi io a lasciarli, passo dopo passo. La guida di trekking mi si avvicina e mi invita ad alzare i piedi, per mostrargli la suola. In cima alla montagna, con una discesa completa da affrontare, i miei scarponi da montagna hanno ben pensato di abbandonare me, la loro padrona, cedendo la preziosa suola al terreno dei monti, tassello dopo tassello di quello che era stato il carro armato. Va bene, calma, niente panico! E ora … come diamine faccio a, non dico proseguire, ma almeno ridiscendere? Provo a contrarre pianta e dita dei piedi, un po’ come fanno le scimmie quando si arrampicano sugli alberi. Riesco, e bene! Studio la reazione dei polpacci, il tutto per un’oretta buona mentre i miei compagni di trekking si solazzano tra scatti fotografici improvvisati, palle di neve, sequenze yoga, prolungato relax.
Mentre torniamo al rifugio mi impongo di non pensare, so solo che riuscirò a scendere, senza intoppi. Già c’è la mia amica che viene tenuta costantemente sott’occhio dalla guida di trekking e poi bisogna raggiungere l’obiettivo iniziale della giornata in montagna: l’avvistamento di stambecchi. Non faccio in tempo a ricordarmelo che la guida ci chiama tutti: proprio di fronte a noi c’è uno stambecco! È fermo, sotto … sotto l’oggetto meno naturale che una montagna potrebbe ospitare: il traliccio per i fili dell’energia elettrica! La guida passa a ognuno di noi il suo cannocchiale piccolo piccolo eppure efficientissimo, sicuramente professionale. Ogni tanto devo togliere lo sguardo dalle lenti per non perdere l’equilibrio, tanto è marcato e preciso l’ingrandimento. È come se avessi lo stambecco dieci passi più avanti! E ora chi vuole più scendere? La guida fa cenno, si scende.
Dopo un breve tratto con corrimano in corda di sicurezza, strapiombi di decine e decine di metri, sentieri con sassi scivolosi, piatti, taglienti, piccoli, rotolanti, dopo tre ore di discesa intravediamo l’amato boschetto, il che significa meta raggiunta.
Non potrei essere più soddisfatta di me stessa! Il fiato ancora tiene, i muscoli delle gambe non sono per nulla affaticati, i piedi potrebbero percorrere ancora molti chilometri, il tutto per quasi quattro ore di camminata su un sentiero oltre lo sterrato, aggrappando ad ogni passo con un equilibrio di ginocchia, polpacci, quadricipiti e dita dei piedi. Pure la guida di trekking accusa dolore a un ginocchio! Sarà stata la forza conferitami dalle meraviglie visive e di emozioni che le montagne di Valbondione hanno concesso, chissà.