Nati con la valigia

Firenze: a spasso nel tempo

Pubblicato il 6- Feb - 2014

Di Isabella Pesarini
Firenze, da qualche parte in città. Mi trovo da qualche giorno nella città d’arte che fa sognare tutto il mondo con le sue meraviglie sparse ad occhiata libera. Una coincidenza più che fortunata ha fatto in modo che scopra il capoluogo toscano in compagnia di una fiorentina, che abita in città da oltre trent’anni. Mi viene fatta una proposta insolita: un viaggio nel tempo, in differenti epoche, qua e là per il mondo. Come rifiutare? Solo, non riesco a cogliere la sfumatura di metafore per cui tutto questo può diventare reale. La mia amica sorride, un pizzico di malizia da autoctona si tramuta in un largo sorriso: solo i fiorentini conoscono lo Stibbert, il Museo Stibbert.

Firenze, quartiere Rifredi. In sella al motorino dell’amica-guida raggiungiamo in fretta via Montughi, al cui civico 4 ha sede il Museo Stibbert. A Firenze il motorino è quasi d’obbligo per muoversi in tempi ristretti, come testimoniano le decine di motorizzati che sfrecciano per le vie della città.
Il Museo Stibbert si trova all’interno dell’omonimo parco, un celebrazione di alberi di ogni tipo: avverto immediatamente la calma che i tronchi alti parecchi metri ordinano all’osservatore, una calma che sento venire dal cuore, dalla parte più vera e remota della mia persona. Mi volto. Ci troviamo sui colli, più precisamente sul colle di Montughi, che dà il nome alla via, sul piano dabbasso la cupola del Brunelleschi di Santa Maria del Fiore garantisce che non mi sono ancora spostata da Firenze.
L’entrata del Museo Stibbert è un cancello in ferro battuto, i cui lati sono sormontati da due aquile, emblema della maestosità, che quasi sembrano fare la guardia al prezioso museo. Entro e … resto ammaliata: appena all’ingresso si intravedono delle armature luccicanti, armature medievali, vere armature. Già, dovete sapere che il Museo Stibbert è nato dalla volontà di un uomo facoltoso, Frederick Stibbert, il quale trasformò l’eredità di famiglia, dal padre colonnello delle Coldstream Guards e soprattutto dal nonno generale in Bengala, in una vera e propria collezione privata senza eguali, che la città di Firenze, a sua volta, ereditò alla morte del fondatore, con tanto di testamento da egli scritto.
Sono doppiamente fortunata! Allo Stibbert è in corso una mostra temporanea, sui Samurai. Il tempo di fare il biglietto che stiamo già ammirando le armature complete dei complessi guerrieri giapponesi. Sì, mi sento in Giappone, secoli e secoli orsono, non mi trovo solo nei campi di battaglia, l’ambientazione più immediata evocata dalle armature indossate da calchi perfetti di coloro che le indossarono nel passato, ma anche in eleganti sale da té, con i leggendari infusori intarsiati così tanto nel dettaglio fino a sfidare la dimensione più piccola visibile ad occhio umano, in compagnia di dame eleganti, che celavano il volto servendosi di imponenti ventagli, dipinti a mano con i motivi della natura, faunistici e floreali.
Dopo la mostra sui Samurai arriva il cuore vero dello Stibbert, la casa-museo del facoltoso ereditiere. Ogni salone rievoca un ambientazione, per epoca e per località. Ecco i guerrieri europei a cavallo in battaglia, i costumi datati XV e XVI secolo. Ancora, ci spostiamo in Medio Oriente, le armature sono più riccamente drappeggiate, le scarpe più affusolate, i calchi dei guerrieri più abbronzati, le visiere dei cavalli più decorate. La ricostruzione delle epoche è talmente perfetta che veramente mi sento ora in Europa cinque secoli fa, ora nella penisola mesopotamica nello stesso periodo.
La sala successiva ridonda di simbologia: ecco una sirena, ecco un unicorno, ecco … Capitan Uncino? Cosa mai ci farà il più simpatico dei pirati nella casa di un facoltoso ereditiere del diciannovesimo secolo? Ricchezze, tesori, lusso … In effetti un pirata è sempre alla ricerca di tesori e, soprattutto, non chiede mai di entrare! Credo che qui Capitan Uncino abbia trovato, dopotutto, la propria casa.
Ritorniamo in Giappone, precisamente tra i guerrieri del periodo Muromachi ed Edo, XV e XVI secolo.
La casa è enorme, ora si sale al primo piano. Stiamo visitando la casa-museo con un gruppo di una ventina di persone, tutti accompagnati e tenuti d’occhio dalla guida ufficiale del Museo Stibbert. Anche la visita deve rispettare un orario di inizio e di uscita, di modo da assicurare la continuità temporale dei tesori.
Il primo piano presenta le camere degli abitanti della casa, il salone e la sala da pranzo: un tesoro dietro l’altro, un salto indietro nel tempo di due secoli. Drappeggi, broccati, i servizi igienici contenuti, eppure una fortuna per pochi appena centocinquant’anni fa. Dalla camera personale di Frederick Stibbert emerge come egli non sia mai stato sposato, evidentemente un personaggio fuori dal comune in tutto per tutto per il diciannovesimo secolo. Entriamo nel salone dei ricevimenti, soprattutto politici. Vedo la gente del gruppo affrettarsi verso una stanza, colta all’improvviso da un’inaspettata fretta. La tendenza del momento storico attuale si ripete, anche qui: uomini e donne che ammirano vestiti. Certo, in questo caso si tratta del completo che abbigliò Napoleone Bonaparte al momento dell’incoronazione come Re d’Italia. Tant’è, con tutti i tesori esposti e conservati con la massima cura e dedizione, proprio non capisco come sia sufficiente il nome di qualcosa, o qualcuno, già conosciuto, in questo caso Napoleone, per richiamare l’attenzione pubblica. Mi defilo verso uno degli ultimi corridoi del primo piano: le stampe originali di alcuni Toulouse-Lautrec sono la prova concreta di come i veri tesori siano nascosti dalla vista dei più, siano timidi, eppur generosi di farsi conoscere a chi ha l’audacia e la gentilezza di andare oltre l’ovvio e così scoprirli.

Firenze, giardino del Museo Stibbert. Usciamo dal museo a metà pomeriggio, dopo due ore di visita guidata, ci addentriamo nel giardino della villa. Tanta arte all’interno quanto tra un albero e l’altro. Fronde di alberi rigogliosi e cespugli vivaci proteggono un tempio dedicato a una dea greca. Le pareti della villa sono tappezzate degli stemmi delle varie casate succedutesi nel tempo, sotto la vigilanza di tulipani dai mille colori. Oltre gli alberi, le siepi, i fiori di decine e decine di specie, ecco presentarsi un laghetto, oltre a questo si erge un tempio, con sfingi e figure egizie all’entrata. La passeggiata continua, ogni tanto il busto di un personaggio di rilevanza storica o di un animale apre il passaggio per un’altra via, così come dal prato spunta una fontana a conchiglia.
Le sorprese del quartiere non sono finite. Poco più avanti l’amica, fidata guida fiorentina, mi porta a vedere quanto di più insolito si possa immaginare in una città d’arte come Firenze. Pochi passi verso il basso e un cartello mi informa che siamo arrivate agli Orti del Parnaso o Giardini dell’Orticultura o … giardino dei giusti! È un piccolo parco pubblico, dove i ragazzini vengono a fare quattro chiacchere dopo la scuola. Seguo lo sguardo divertito della mia amica. Tiro su il naso per la sorpresa: cos’è quella strana disposizione di pietre, di rocce, che segue la discesa delle scale? Costeggio la figura misteriosa, scalino dopo scalino, devo assolutamente capire di cosa si tratta prima di arrivare in basso. Chiunque voglia ritentare l’impresa sappia che è impossibile indovinare tale figura, a meno di non possedere un’innata e accentuata fantasia. All’ultimo scalino mi giro per fronteggiare la reale identità della scultura e quasi cado all’indietro per lo stupore. Rido divertita. Un drago alato, con la bocca spalancata, mi fronteggia in tutta tranquillità, ben radicato a terra.
Dopo lo scherzo arriva il momento di ritirarsi nell’interiorità. In silenzio io e l’amica fidata risaliamo le scale, i ragazzi sono tornati nelle loro case, la quiete regna sovrana nelle ultime ore di un pomeriggio a Firenze. Ci sediamo su una panchina che scruta il panorama tra due alberi e diversi cespugli ricoperti di romantici fiorellini bianchi, la cupola del Brunelleschi di Santa Maria del Fiore spicca immancabilmente all’orizzonte. Respirando il profumo dei fiori chiudo gli occhi e rivedo come in un lunghissimo fotogramma le bellezze eterne di una città altrettanto immortale, completamente sorprendente: Firenze.

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