Una rosa per un sogno – Valenza F.

George si richiuse la giacca, spingendo con dita gonfie i bottoni consumati. Una spina gli si era conficcata nell’indice, fin dentro, e continuava a infliggergli un dolore costante e acuto, sebbene circoscritto. Si sedette sul marciapiede.

L’incrocio era vuoto, l’ultima auto era passata che dovevano essere le otto o giù di lì.

Aveva sentito il campanile suonare. Nove rintocchi di solitudine. Ogni tanto un formicolio si irradiava dalla pianta dei piedi, diffondendosi verso le caviglie, e quello era tutto ciò che ancora riusciva a sentire di essi. Così stanco come non mai, ed era dalle tre del pomeriggio che quei due pezzi di ghiaccio che aveva sotto gli stinchi avevano perso ogni sensibilità.

Posò il mazzo di rose incartate in cellophane scrocchiante sull’asfalto freddo e si strinse le mani, sfregandosele per creare un po’ di calore. I suoi occhi guizzarono alla ricerca del padrone, perché non fosse nascosto da qualche parte a osservarlo durante quell’attimo di tranquillità. Ogni tanto lo faceva, e se vedeva che George approfittava della calma standosene fermo sul bordo della strada vuota, accanto alla cabina dell’autobus per ripararsi da una ventata ghiacciata, e poi magari ci rimaneva di più per il breve sollievo che lo rinfrancava, il suo padrone lo raggiungeva e la prima cosa che faceva era di dargli uno schiaffetto sferzante sulla guancia, guardandolo con un sorriso acido. “Te ne sei approfittato, eh!” gli diceva. Dunque gli prendeva dieci euro come punizione e se li metteva in tasca. Gli mostrava il suo sorriso fatto di denti marci e infine “Non devi più farlo” gli urlava. “Se tu stai fermo, io guadagno di meno” e allora arrivava un altro schiaffo, quello grosso. Le guance congelate lo subivano con un’esplosione di dolore.

George si rasserenò, in quel momento il suo padrone non c’era. Poteva rimanere seduto qualche minuto di più.

Sentì dei passi, riconobbe la falcata decisa e quasi minacciosa, scrutò attorno e pregò che nel giorno che precedeva il Natale dei cristiani passasse qualche macchina, proprio in quel momento.

La macchina, l’auto di un altro infastidito italiano, era tutto ciò che gli serviva.

Ecco il piede spuntare da dietro la porta monumentale… Spuntò un uomo d’una quarantina d’anni, gli passò accanto, lo osservò e gli fece un sorriso (lo facevano sempre agli srilankesi), oltrepassandolo.

George tirò un sospiro di sollievo e sorrise dentro di sé.

Infine arrivarono le macchine, tutte in massa, una lunga coda al semaforo che divenne rosso. Lui si alzò subito, le ginocchia ridotte a due ganci arrugginiti, i tendini come corde di metallo scricchiolarono per il freddo e lui si diresse verso la colonna. Si avvicinò alla prima auto e fece un sorriso all’autista, piegandosi verso il finestrino. Mostrò il suo mazzo di rose. Il sorriso era importante: se glielo faceva sapeva che l’autista poteva reagire bene, e se no avrebbe potuto mandarlo al diavolo senza batter ciglio. Qualcuno non muoveva un solo muscolo del viso, fisso sul vuoto di fronte a lui.

Perciò si avvicinò, gli sorrise e gli fece vedere le rose, ma l’uomo scosse la testa: inutile insistere. Passò alla seconda macchina.

La donna al volante stringeva tra l’indice e il medio una sigaretta appena iniziata, accesa in tutta fretta. Soffiò dalla bocca un fumo nervoso che si diffuse per l’abitacolo, e non voltò nemmeno il capo per fargli un cenno negativo. Nulla, nemmeno mosse gli occhi, come se di colpo lui si fosse trasformato in una mosca piccola piccola.

George ringraziò lo stesso e le fece gli auguri di Natale. Forse la prossima volta che fosse passata di lì se ne sarebbe ricordata e gli avrebbe comprato una rosa. Lontano, lontanissimo quel Natale in cui c’era stato un uomo che gli aveva comprato un intero mazzo. Diecimila lire, lo ricordava ancora. Forse il suo sorriso e i suoi auguri erano tornati a lui, come un meccanismo magico. E poi, suo padre gli aveva insegnato l’educazione, quand’era piccolo.

Un tempo aveva avuto un’infanzia, e ora si era fatta anch’essa ricordo lontano.

La macchina successiva era troppo distante e il gelo ai piedi era insopportabile. Tra l’altro non riusciva più a piegare bene le gambe e tutto ciò che tentò fu di allungare un braccio per mostrare il mazzo di rose, con un gesto meccanico. Era quello che faceva ormai a ogni rosso, allo stesso semaforo.

Lavorava ai semafori attorno a Porta Palio da più di un anno. Si ricordava che il Natale dell’anno precedente era riuscito a guadagnare settanta euro. Aveva venduto dodici coppie di rose, un risultato mai più ottenuto. Quel giorno aveva messo via quindici euro, e non era stato poco. L’anno scorso era convinto che il giorno in cui avrebbe potuto far ritorno nella sua isola sarebbe stato molto vicino. Oggi era diverso. Considerando che si trattava della vigilia di Natale, i cinque euro che aveva intascato erano davvero molto poco. Ora casa gli sembrava un po’ più lontana, e a differenza dell’anno precedente il padrone gli aveva imposto di vendere tre rose anziché due, sempre a cinque euro, così la gente si sarebbe sentita invogliata, ma lui avrebbe guadagnato meno di prima.

Si era perfino lamentato del fatto, e un pugno era stata la risposta, un pugno che gli aveva fatto saltare un dente. Un buco in più tra i denti avrebbe fatto ridere suo figlio, quando lo avrebbe rivisto. Poi si chiese se suo figlio lo avrebbe ricordato ancora, dopo dodici anni di assenza.

Che domande, certo! Sono sempre suo padre, dopotutto.

Dopo tutto.

Abbassò il braccio stanco e ritornò al marciapiede. Doveva sforzarsi di fare tutta la colonna d’auto, quando se ne formava una. Se arrivava fino in fondo, c’era qualche possibilità in più. Il grosso problema era che costringersi ad arrivare fino alla fine della fila era come dover spingere un’auto per una salita senza fine. Non solo i piedi gli facevano male. Le ginocchia erano sempre più ridotte a cardini non oliati, e le braccia diventavano pesanti come tronchi. Mangiava poco.

Quand’era stata l’ultima volta che aveva mangiato tanto? Beh, proprio tanto tanto, forse quando viveva ancora nella sua terra, prima che scoppiassero gli scontri nel distretto in cui viveva. Era una guerra intestina messa a tacere dal governo.

Una notte vennero fatti sfollare, perché lui, la sua famiglia e le altre duemila persone del paese si trovavano proprio sul confine. Scapparono in preda al terrore, avendo sentito cose orribili fatte ai ribelli. Che seviziavano le vecchie, appendevano i bambini… Nessun dubbio, dovevano scappare, suo figlio e sua moglie dovevano essere al sicuro. Ma nella fuga finirono in gruppi diversi e alla fine in campi profughi diversi. Quando tentò di raggiungerli e cercarli, fu lì che incontrò quell’uomo.

Gli disse che sapeva come ricongiungerlo con i suoi familiari, segregati dall’altra parte della zona invalicabile. Però, prima, avrebbe dovuto fare un po’ di fortuna in Italia, dove bastava partecipare a un gioco per essere riempito di soldi. L’Italia, all’epoca, era la nuova America d’Europa. Non ci volle molto a convincerlo. L’aveva sentito spesso: con un gioco si poteva cambiare tutto, e sarebbe potuto tornare e portar via la sua famiglia, metterla al sicuro.

Ed eccolo in Italia, allora, a fare soldi, ad aspettare di vincere la sua lotteria per tornare a casa, dalla sua famiglia. Però su una cosa aveva cambiato idea: fosse riuscito a mettere da parte abbastanza soldi da fare quel viaggio, se ne sarebbe rimasto al suo Paese, con un po’ di soldi avrebbe ricostruito la sua casa e avrebbe passato intere serate a leggere storie a suo figlio, per farlo addormentare, o a raccontargliene di nuove. Magari a parlargli proprio di quel luogo in cui sembrava che si potesse vincere l’America, e invece era finito a vendere rose per la strada, a gente che non s’amava nemmeno di Natale.

Ma poi, suo figlio le avrebbe ancora ascoltate le storie? Dodici anni non erano sufficienti per dimenticarsi di un padre visto solo in quell’infanzia che presto si dimentica? Doveva sperarlo, non aveva altro.

Il semaforo si era fatto di nuovo rosso e si era formata una nuova colonna di macchine. Si alzò a gran fatica, e quando fu dritto il cuore batté molto più faticosamente di quanto non fosse mai accaduto prima. Fece piccoli passi, stanchi, verso la macchina e poi la solita trafila. Sorriso, “Buon Natale”, “Grazie” anche se non aveva ricevuto nulla.

Altra macchina, altri occhi fissi davanti, che non si piegavano a nulla, duri. La signora in auto stava pensando forse ai suoi nipoti, ma nessuno voleva una rosa. Nessuno voleva più una rosa.

George abbassò gli occhi verso il mazzo che stringeva in mano e annusò il profumo dei sogni, e continuò a sognare. Era buono, un ottimo profumo.

Accadde dopo un’ora. Il serpente di auto sempre più corto stava riempiendo l’aria gelida e punteggiata di minuscoli cristalli di neve , quando George si rialzò dal marciapiede per proporre i suoi sogni profumati. Di colpo pensò di essersi alzato troppo in fretta, e che con quel freddo dovesse fare molta più attenzione.

Il discorso ammonitorio che fece a se stesso lo spinse ad appoggiarsi al cofano della prima auto con la mano destra. Vi appoggiò sopra il mazzo di fiori e udì il ragazzo che, dopo aver calato il finestrino, diceva qualcosa del tipo: «Togliti di lì! »

George, però, non era in grado di ascoltare e accogliere l’invito. Era troppo concentrato su ciò che sentiva al braccio destro, che tirò al petto stringendosi la spalla con la mano sinistra. Una fitta tanto acuta da diventare quasi rumore insopportabile nella sua testa.

«Ehi, c’è qualche problema? » sentì chiedere il ragazzo, con un tono solo appena mutato.

«No, nessun problema » gli rispose George, ma credette soltanto di averglielo detto.

In realtà le parole gli rimasero tra i denti, proprio come il desiderio di poter rivedere suo figlio e la moglie. Fu quello, il momento prima della morte, che si rese conto di aver vissuto unicamente per un sogno.

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