Con che atteggiamento si scrive?

Nel corso di un confronto basato sul bell’articolo di Marco Candida, Quel MacDonald’s di Stephen King, pubblicato sul sito Doppiozero, mi sono interrogato sull’approccio che lo scrittore può avere con la propria scrittura. Nell’articolo, Candida mette in luce come il grande King sia in grado di prendere le distanze da ciò che scrive in modo tale da riuscire a “interpretare” il ruolo di scrittore horror, permettendo in questo modo una strutturazione delle proprie opere su vari strati riconducibili a diverse prospettive della realtà e che, a seconda di come vengono lette, possono offrire letture di forte critica sociale (cui i romanzi di S. King sembrano in effetti particolarmente e acutamente votati). Consiglio vivamente la lettura dell’intero articolo: raramente ne ho letti di così belli sul Re.

Come commento pubblicato in calce al pezzo ho scritto quanto segue:

Articolo molto interessante, che mette in luce come la scrittura di King sia stratificata, forse non tanto nell’intenzione diretta (anche se gli incroci di letture e motivazioni presentate da Marco sono a loro volta un vero e proprio intrigo da romanzo!), quanto nell’approccio che il Re ha verso la narrazione in generale. Si tratta in buona sostanza di un raccontare che offra la ricchezza e la polisemia della realtà, mai esauribile con una lettura realistica tout court.
Dopo aver letto l’articolo, mi sono chiesto se in Italia ci sarà mai un autore in grado di fare ciò che King fa con i suoi romanzi, qui ben sottolineato e illustrato. Tuttavia, riflettendo ancora un poco mi sono reso conto che nemmeno nel mondo anglosassone si raggiunge facilmente un tale livello di lettura e una simile ricchezza di possibilità interpretativa. Per stare ai due altri autori che preferisco tra tutti, Paul Auster e Ian McEwan, nessuno dei due riesce a offrire questa profondità, sebbene entrambi offrano quasi sempre opere mai esauribili alla narrazione che traspare dalla pura lettura e dal puro fatto narrato. 

Cerco di spiegarmi meglio. Il concetto che voglio esprimere è riconducibile al precedente post sullo snobismo tipico degli scrittori italiani che, ovviamente non tutti, anteporrebbero un filtro ideologico alla narrazione veridica della realtà, spesso molto sottile e ben mimetizzato con le abitudini e le tradizioni del Belpaese. Si tratta di un modo fuorviante di leggere ciò che ci accade attorno e ciò che succede in noi, dovuto a schemi di pensiero che grosso modo possono fare riferimento ai massimi sistemi della filosofia e della politica. Il modo più sottile e “subdolo” in cui questo accade è chiamando in causa il pre-testo del cosiddetto realismo, secondo il quale la realtà può essere narrata efficacemente e con verità solo se si dà spazio ai fatti concreti e non alle sovrapposizioni simboliche. Sappiamo bene come questo modo di vedere alle cose dipenda in maniera diretta nel nostro Paese da ciò che Croce diceva circa il linguaggio della narrazione per l’infanzia (differente da quello utilizzato per la narrazione matura degli adulti) e dalle sperimentazioni avanguardiste della seconda metà del Novecento, ma ancor prima dall’atteggiamento che Manzoni aveva nei confronti del vero, per il quale si doveva parlare della realtà senza lasciarsi andare a sentimentalismi e alla fantasia inconcludente. Simili posizioni sono talmente passate nella mentalità letteraria della nostra Italia, da far propendere un gruppo innovativo come fu il Gruppo 63 verso un “cerebralismo” eccessivo e da mantenere vivace ancora oggi il dibattito se la realtà sia meglio rappresentata dal realismo o dalla finzione. Non solo, quando si parla di narrativa fantastica la posizione che si trova ancora troppo spesso tra la gente (quella abituata a leggere) è di supponenza o irrisione. Ma la cosa peggiore è che un simile snobismo, basato su una illegittima divisione piuttosto netta tra realtà e fantasia, è passato nell’ambito della stessa narrativa fantastica, tanto che gli scrittori fantastici italiani hanno quasi sempre preferito descrivere mondi differenti e chiudersi in realtà altre, che con la realtà in cui viviamo tutti i giorni hanno gran poco a che spartire. In questo modo si spiega il proliferare odierno di romanzi basati su saghe estere, che traggono spunto da una realtà di per sé già altra, con pochi o nulli riferimenti all’attualità.

Ora, non è obbligatorio scrivere riferendosi all’attualità. Tuttavia…

Tuttavia gli scrittori fantastici italiani (non tutti, ma buona parte) hanno contribuito in modo significativo al consolidarsi dell’idea opposta, ovvero che sia meglio non farlo! I romanzi fantastici sono molto spesso vere e proprie fughe dalla realtà, che non rappresentano praticamente in alcun modo. Eppure vorrei dire come la narrativa fantastica sia in grado di parlare del mondo in modo più veridico e utile di quella realistica, perché forma la mente e la capacità critica. Alcuni esempi. Lungi dall’essere unicamente un romanzo ambientato in un mondo diverso, antico, antecedente al nostro, il mondo del Signore degli Anelli è nato nelle trincee delle guerre mondiali e nella distruzione di un mondo antico all’epoca ancora parzialmente ravvisabile in Inghilterra ed è in grado di mettere sul piatto in modo più che efficace le vie per le quali il male arriva a irretire ogni mente, fino a quella considerata più santa (Saruman). 1984 non ha nemmeno bisogno di essere presentato, tanto familiare (in senso indiretto) ci è il mondo più che controllato che ci descrive Orwell. Nastro rosso a Manhattan ci trafigge con acume quando ci mostra, con grande semplicità di mezzi, come al giorno d’oggi qualunque cittadino del nostro evoluto mondo sia in grado di mandar giù e far propria la più ignobile nefandezza. Le notti di Salem e Cose preziose puntano l’indice contro il fascino subdolo del commercio e la sua capacità di renderci inumani.  Sempre parlando di Stephen King (d’altronde non posso che citare più volte il più grande narratore vivente), il suo ultimo 22/11/63 presenta un paradosso (piccolo spoiler) nel ristoratore che, attraverso il passaggio temporale nel retro del suo ristorante, che conduce sempre verso la stessa giornata del 1958 ogni volta che viene attraversato, va a rifornirsi sempre dello stesso pezzo di carne da dar da mangiare ai suoi clienti. Avete capito l’antifona? Vi do una mano: il ristoratore dà da mangiare (prendete e mangiatene tutti…) usando sempre lo stesso pezzo di carne (un’economia basata su una sorta di bolla speculativa, che nel caso del romanzo è una bolla temporale), raggiungibile tramite un buco nello spazio-tempo (stratagemma per far fruttare potenzialmente all’infinito un qualcosa di finito). Già, la crisi della nostra economia reale scoppiata a partire da una economia virtuale, quella finanziaria.

Insomma, cosa voglio dire, in buona sostanza? Che la cosa più importante per uno scrittore è capire e decidere con quale atteggiamento scrivere, se con l’atteggiamento di chi se ne frega del reale e del presente, e allora vanno bene tutti i paranormal romance, tutti i fantasy-imitazione di Tolkien/Lewis/Howard/Bradley/Rowling, tutti gli horror e i mystery basati su mere supposizioni magico-letterarie, oppure con l’atteggiamento di chi crede che un romanzo possa e debba parlare del reale, e che il reale sia tanto stratificato da riuscirne a mostrare le implicazioni più profonde, ambigue, pericolose e nascoste attraverso il linguaggio simbolico della narrazione fantastica. Il problema è che già all’estero se ne vedono pochi di scrittori così, ma ci sono. In Italia la fatica è decisamente ancora maggiore.

Però sarebbe ora che ci si desse da fare. Alcuni scrittori già ci sono. Si chiamano GL D’Andrea, Lara Manni, Tullio Avoledo, Chiara Palazzolo. Ce ne sono certo anche altri, ma l’atteggiamento generale deve ancora cambiare. Permettetemi di mettermi in mezzo anche a livello operativo: come segnalato nel post La porta sbagliata, nel mio piccolo mi sono già messo su questa strada. La crisi che viviamo è un ottimo motivo per lasciare spazio alla narrativa che fa riflettere.

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